Autonomia differenziata, un favore alla Germania?

Calderoli e l'autonomia differenziata

Il consiglio dei ministri, nella seduta del 2 febbraio 2023 ha dato il via libera all’Autonomia differenziata, con un disegno di legge a firma Calderoli. Ma cos’è l’Autonomia differenziata? E chi è Calderoli? Cosa ci azzecca il regionalismo differenziato con la riduzione del numero dei parlamentari? E’ solo una questione di divari Nord-Sud o c’entrano … Leggi tutto

Elezioni Europee: nessuno stravolgimento, ma la Lega esulta

elezioni europee 2019 salvini

I risultati delle ultime elezioni europee ci restituiscono due dati tra loro contrastanti, ma che devono essere analizzati unitariamente. Il primo: Nessun stravolgimento Non sembrano stravolti gli equilibri politici nel nuovo parlamento europeo, dato che Popolari, Socialisti e Liberali hanno ottenuto un’ampia maggioranza, come si vede nel prospetto sottostante: Ppe 23,83% – 179 seggi; S&D … Leggi tutto

La flat tax alla romana

Vi è mai capitato di andare in un ristorante con amici che portano altri amici? Gente che non conoscete, ma che i vostri amici frequentano e vi dicono essere tipi simpatici e alla mano. Beh, a me è capitato diverse volte. Ne ricordo una in particolare. Ci eravamo dati appuntamento in un ristorante, io e … Leggi tutto

Riduzione dei parlamentari, perché è sbagliato

Uno dei cavalli di battaglia del M5S è il c.d. taglio delle poltrone, ossia la riduzione del numero di parlamentari, secondo una logica molto populista e semplice da far assimilare all’elettorato supino, ignorante e inconsapevole: se si riduce il numero di parlamentari, si riducono i costi e quindi gli sprechi e, conseguentemente, ci risparmiamo tutti. … Leggi tutto

Un centinaio di false emergenze. Parte I – Il latte

Affrontare problemi strutturali con metodi emergenziali, derogare alle norme ordinarie in materia di salute e ambiente, aiutare finanziariamente i grandi e lasciare i piccoli fuori. Queste e tante altre le criticità del c.d. Decreto Emergenze, promosso dal Ministro Centinaio, ampiamente discusso in Parlamento e, addirittura, peggiorato rispetto alla formulazione originaria, grazie agli emendamenti di M5S e PD, sia nelle commissioni (agricoltura e bilancio) che in aula.

Il testo, approvato alla Camera (e ora passerà in Senato per l’approvazione definitiva), si propone di sostenere le imprese agricole dei settori olivicolo-oleario, agrumicolo e lattiero caseario del comparto del latte ovi-caprino in quanto colpite da perduranti crisi a causa di problematiche legate al prezzo di vendita del latte, di eventi atmosferici avversi di carattere eccezionale e dalle infezioni di organismi nocivi ai vegetali.

Dunque il Decreto mira ad aiutare imprese che soffrono crisi perduranti nel tempo e dipendenti non da fattori contingenti ma strutturali.

Dov’è l’emergenza?

Già da questa prima contraddizione in termini s’intuisce l’inefficacia degli interventi e la finalità (non tanto) nascosta dei provvedimenti. Anzitutto è facile capire che i presupposti su cui si basa una misura emergenziale non ci sono affatto. Come recita il testo “il susseguirsi di calamità naturali dovute anche ai cambiamenti climatici” o “il perdurare degli effetti dei danni causati dagli eventi atmosferici avversi di carattere eccezionale e dalle infezioni di organismi nocivi ai vegetali” non sono situazioni emergenziali, bensì ormai abituali. Del resto già il termine cambiamenti climatici presuppone una situazione di fatto mutata o mutanda che va affrontata con strumenti normativi ordinari e non straordinari, dato che i cambiamenti climatici sono in atto, non sono di durata limitata, non sono reversibili (se non con lunghi e complessi interventi di riduzione delle emissioni a carattere globale) e vanno affrontati con un piano d’intervento non emergenziale bensì strutturale.

Come non è più un’emergenza la questione Xylella, poiché esiste ormai dal 2009 (anno delle prime segnalazioni dei disseccamenti degli ulivi) ed è stata già (infelicemente e infruttuosamente) gestita con metodi emergenziali nel 2015né può essere considerata un’emergenza la crisi del settore lattiero e caseario, poiché si basa sullo sfruttamento perdurante, continuo, costante e strutturale di un intero settore produttivo ad opera del mercato interno e globale.

Dov’è l’emergenza? Solo perché i pastori sardi si sono lamentati (l’hanno fatto anche nel 2003 con una protesta plateale, ma sono decenni che vivono queste condizioni di sfruttamento), allora si parla di emergenza? Solo perché i disseccamenti degli ulivi hanno toccato (e superato, ampiamente) la provincia di Bari e le Associazioni di categoria chiedono a gran voce di ristrutturare tutto il comparto agricolo a svantaggio dei piccoli produttori, si può parlare di emergenza?

La realtà è che il testo della Legge si muove in tre direzioni: la prima. Tutela solo gli industriali e le grandi associazioni di categoria. La seconda. Pone una longa manus statale sulla produzione casearia ma senza riconoscere alcun contributo ai pastori, per favorire gli accordi di filiera a vantaggio della grande distribuzione e delle banche. La terza. Per la gestione delle fitopatie, impone interventi che derogano ad ogni norma ordinaria (persino costituzionale!) posta a tutela della salute, dell’ambiente, del paesaggio e dei diritti fondamentali dei cittadini italiani.

Andiamo con ordine e affrontiamo prima il problema legato alla produzione del latte e poi la questione degli ulivi pugliesi in un articolo separato.

Il decreto tutela gli industriali

L’industria detta il prezzo e si specula sul pecorino romano.

Sapete quanto veniva pagato un litro di latte ovino e caprino ai pastori? In pochi anni si è passati da 1,05 € al litro a 0,85 € per poi arrivare a 0,56 € nel 2019. Mentre, in media, ai pastori sardi la produzione di un litro di latte costa 0,70 €. In poche parole nel 2019 andavano sotto di 14 centesimi per ogni litro prodotto. Ora capite perché durante le proteste preferivano buttarlo per strada? E chi detta il prezzo di mercato? Gli industriali. In altre parole l’industria del pecorino romano. I pastori vendono il loro latte alle aziende casearie che hanno rapporti con l’industria del formaggio e la Grande Distribuzione Organizzata (GDO), la quale ha rapporti con il mercato interno, europeo e americano.

Perché il prezzo è crollato?

Perché ci sono anni in cui si produce di meno (e il prezzo aumenta), mentre negli anni in cui si produce di più il prezzo scende. Ma se scende sotto il costo di produzione, qualcosa non va. Già. Non va perché ad un certo punto, quando il mercato americano ha aumentato la richiesta di pecorino romano, gli industriali hanno fatto cartello e hanno imposto il loro prezzo alle aziende casearie, le quali hanno fatto altrettanto nei confronti dei pastori. E i pastori, che per anni hanno conferito il latte nelle aziende casearie di fiducia, precludendosi in pratica ogni altra alternativa di vendita, che hanno dovuto fare? Hanno dovuto sottostare al prezzo imposto.

Lo spiego in altri termini. Io, pastore, ogni anno vendo 100 litri del mio latte all’azienda casearia X, che me lo paga 1050 €. Dato che mi costa 700 € per produrlo, mi restano in tasca 350 €. l’Azienda X produce il pecorino che vende agli industriali. Gli industriali dicono ai caseifici: “produci più formaggio, che la domanda è alta!”. E allora i caseifici dicono ai pastori: “fai più latte, che mi serve!”. I pastori quindi comprano più pecore e capre, producono più latte e fanno quanto gli è stato chiesto. Se un altro cliente gli chiede il latte per fare il formaggio, gli rispondono: “non posso, il caseificio X è il mio unico cliente”. Quindi, in poche parole, il pastore perde tutti i clienti, eccetto il caseificio X. Ma ad un certo punto il caseificio X dice ai pastori: “siccome c’è troppo latte in giro, i prezzi sono caduti, al massimo ti posso dare 56 centesimi al litro”. “Ma che dici?” risponde tutto agitato il pastore “così non copro nemmeno i costi!”. “Purtroppo a me hanno fatto questi prezzi e non posso andare oltre”, risponde il caseificio X. 

Siccome a soffrire dell’imposizione dei prezzi bassi è anche il caseificio X, quest’ultimo, per ridurre i costi di produzione è costretto a comprare il latte estero, che costa meno e che viene importato e venduto da quelle stesse aziende che fanno parte della GDO. Entrambi, aziende casearie e pastori, sono vittime. E’ chiaro che ci sono anche aziende che comprano il latte estero per speculare, ma ciò non influisce sul sistema di imposizione dei prezzi stabilito dalla grande industria.

E così siamo arrivati a oggi.

Morale della favola? Il mercato viene controllato da poche persone che gestiscono il grosso della filiera. E così entra in scena il prode Salvini, che dice “aumenterò il prezzo di acquisto a 1 euro al litro!”. Questo prima delle elezioni regionali in Sardegna. Poi dopo le elezioni si scopre che l’accordo tra industriali, caseifici e pastori, arriva a 72 centesimi al litro. Ai pastori, quindi, restano solo 2 centesimi. E’ una presa in giro. Ma non l’unica! L’ennesima presa in giro arriva dal decreto Emergenze.

Il Decreto Emergenze tra illusioni e certezze

Per il settore lattiero caseario il decreto stanzia due tipi di fondi:

Un fondo di 10 milioni di euro per sostenere i contratti e promuovere gli interventi dei regolazione dell’offerta di formaggi ovini DOP e un fondo di 5 milioni di euro per la copertura, totale o parziale, dei costi sostenuti per gli interessi sui mutui bancari contratti, entro il 31 dicembre 2018, dalle imprese che operano nel settore del latte ovino caprino. Anzitutto i fondi sono destinati alle imprese ed escludono tutti quei piccoli allevatori senza P.IVA che, per vendere, si iscrivono ad una cooperativa la quale, spesso, è gestita come un’azienda di fatto, quindi a trarre vantaggio dai contributi non saranno i soci, ma solo i titolari della cooperativa. Ai soci, forse, pagheranno un prezzo un po’ più alto, grazie al contributo pubblico.

La cosa più grave, però, è che queste misure non intaccano minimamente il sistema su cui si basa l’ingiustizia di fondo: ossia che i prezzi sono dettati dagli industriali non in un regime di libero mercato né in un regime di mercato controllato dallo Stato, ma in un regime di oligopolio.

In altre parole si stanno buttando soldi pubblici per mettere a tacere per qualche anno le lamentele delle piccole aziende del settore, le quali avranno quindi più soldi (pubblici) per pagare (forse) un po’ di più il latte ai pastori, ma quando i rubinetti si chiuderanno, il sistema tornerà ad essere lo stesso di sempre. E la cosa più grottesca è che quei soldi (pubblici) ritorneranno sotto altra forma nelle mani degli industriali, in quanto una parte dei costi verranno pagati con soldi (pubblici) e si potrà speculare sul prezzo al ribasso del pecorino, esattamente come accade oggi.

Anche quei 5 milioni destinati a ripagare gli interessi bancari sono soldi (pubblici) che andranno a finire nelle mani delle banche (amiche degli industriali). E così saranno tutti contenti, eccetto i pastori e le piccole aziende casearie, le quali con questo decreto avranno anche l’onere di segnalare al Sistema informativo nazionale (SIAN) i quantitativi di latte ovino e caprino e il relativo tenore di materia grassa consegnati loro dai singoli produttori nazionali, i quantitativi di latte e i prodotti lattiero-caseari semilavorati introdotti nei propri stabilimenti ed importati da altri Paesi dell’Unione europea o da Paesi terzi.

Come al solito a pagare il prezzo più alto saranno le piccole aziende, le quali si vedranno comminare multe salatissime (da 5.000 a 20.000 €) se non adempieranno. Si colpisce, in questo modo, l’effetto del problema e non la causa. L’effetto è semplice: se gli industriali impongono un prezzo troppo basso, le piccole aziende devono per forza ridurre i costi. Se invece si va a incidere sulla formazione del prezzo a monte, allora è lì che si ottengono i risultati, ma si sa, la Lega è amica degli industriali, non dei pastori. Mentre il M5S viene controllato da soggetti economici che hanno bisogno degli industriali per prosperare, quindi non possono calpestargli i piedi.

Solo con l’autoproduzione si esce dalla crisi

Sia per i pastori sardi che per gli olivicoltori pugliesi l’unica soluzione è l’autoproduzione, ossia costituire una filiera orizzontale, tra i vari produttori e trasformare da se i prodotti, utilizzando canali alternativi di vendita. Per approfondire leggi il contributo per una nuova riforma agraria.

Leggi anche l’approfondimento sul Decreto Emergenze in relazione alla questione Xylella in Puglia.

Davvero ci serve un’arma?

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La riforma della legittima difesa è legge. Brevemente il nuovo provvedimento prevede che la proporzionalità tra la difesa e l’offesa sia sempre sussistente, che non sia prevedibile la punizione per grave turbamento, escludendo di fatto l’eccesso colposo nelle svariate ipotesi di legittima difesa e, infine, dispone che, in caso di furto in appartamento, il condannato possa accedere al beneficio della sospensione condizionale della pena solo dopo aver risarcito il danno alla persona offesa.

La modifica delle norme sulla legittima difesa va vista non come un provvedimento a sé, ma come un tassello di un quadro più ampio.

Subito dopo l’approvazione della legge, difatti, la Lega ha depositato in Parlamento una proposta di legge (collegata) per consentire una più semplice e meno burocratica diffusione delle armi da fuoco, per difesa personale.

Serve davvero un’arma?

A sentire Salvini, tutti gli esponenti della Lega e buona parte dei politici di destra, un’arma ci serve. Perché, a loro dire, l’Italia è un paese insicuro in cui i reati (soprattutto predatori) sono in aumento, tant’è che Salvini non manca occasione di pubblicare notizie di reati, in special modo quando commessi da stranieri, e di instillare tra la gente un senso di insicurezza sempre più diffuso. Complice anche buona parte dell’informazione, gli italiani oggi si sentono meno sicuri rispetto al passato e quindi sono facilmente persuasi dalla necessità di difendersi con le armi.

Eppure oggi ci sono meno reati che nel…1960 o, addirittura, rispetto al 1865! Ma senza andare troppo lontano, negli ultimi anni i reati in Italia sono sempre più in calo e siamo gli ultimi in Europa non solo per crescita economica, ma anche per il tasso di omicidi (in questo caso, meno male).

Già, perché se andiamo a leggere i dati che ogni anno, tradizionalmente a ferragosto, emana il Viminale (di cui, lo ricordo giusto per forma, Salvini è a capo), scopriamo che, per esempio, nel 2018 ci sono stati 319 omicidi rispetto ai 371 del 2017 (-15%), così come abbiamo avuto 1.189.499 furti contro 1.302.636 nel 2017, ossia una riduzione di quasi il 9%.

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Dati Viminale, 2018

La cosa più importante, però, riguarda la violenza di genere. In questo caso scopriamo che nonostante le denunce per stalking siano diminuite (anche se spesso ciò dipende dal fatto che le donne rinunciano a farle, per mancanza di fiducia nella giustizia), sono aumentati gli ammonimenti del Questore per violenza domestica (+17,9%) e gli allontanamenti (+33,1%). La cosa che più sconvolge sono gli omicidi in ambito familare/affettivo, rimasti invariati rispetto all’anno precedente e che hanno avuto come vittime le donne nel 68,7% dei casi.

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Insomma, la violenza non viene da fuori, ma da dentro le mura domestiche.

Se circolassero più armi, siamo sicuri che servirebbero a difendersi e non ad offendere? Non credo che una maggiore diffusione delle armi porterebbe gli italiani a sentirsi più sicuri, anzi, aumenterebbe il numero degli omicidi e forse anche quello dei suicidi, soprattutto tra le mura protette di proprietà rese sempre più sicure da intrusioni esterne ma, come si legge nei dati e come sappiamo dalle cronache quotidiane, sempre più fragili nei rapporti interni e familiari.

Se prendiamo ad esempio un Paese che apre alla vendita facile di un’arma, cioè gli USA, vediamo che, secondo una ricerca condotta dal servizio statistico del Congresso, su 327,2 milioni di abitanti, ci sono in circolazione quasi 360 milioni di armi (se escludiamo i bambini e gli anziani praticamente ogni americano ha almeno due armi in casa). E che succede? Succede che, per esempio nel 2015, su 336 giorni analizzati ci sono state 355 sparatorie, di cui molte sono state vere e proprie stragi (da notare l’assenza di analisi sotto Natale, quando tutti sono più buoni o più concentrati a consumare…).

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Sparatorie negli USA nel 2015

 Un’arma è uno strumento. E’ la razionalità che ne può fare uno strumento di difesa o di offesa. Ma nella realtà attuale esiste la razionalità? O semmai esiste una paura indistinta, artatamente sobillata dalla propaganda politica, non suffragata dalla realtà stessa, che porta alla nevrosi e all’irrazionalità? E non esiste forse un’irrazionale e violenta manifestazione di odio nei confronti di stranieri e donne, soprattutto, per queste ultime, all’interno del proprio ambito familiare? E se in quest’ambito si avesse a disposizione, anziché un coltello da cucina, da cui ci si può bene o male difendere, una pistola? E’ logico prospettare che in questo modo aumenterebbero i delitti di genere?

Un’arma è uno strumento. E’ il fine che la rende dannosa o meno. Ma la storia ci insegna che più si diffondono le armi e più se ne fa un uso distorto. So che questo mio pensiero è controcorrente e non smuoverà minimamente le coscienze di chi è mosso dalla paura più che dalla ragione, ma sono sicuro che in un futuro remoto ci renderemo conto della follia di irrazionali scelte politiche che oggi sembrano ragionevoli a chi la ragione l’ha smarrita per la via.

Il congresso mondiale sulle famiglie è solo folklore

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E’ iniziato oggi a Verona il congresso mondiale sulla famiglia tradizionale e, tra mille polemiche, molti commentatori hanno evidenziato subito gli orrori che sono fuoriusciti dal convegno o al margine di esso, tra cui “i gay sono da curare”, “l’aborto è omicidio” oppure “la donna deve tornare a essere mamma” e altre amenità del genere. Ora, a parte le valutazioni politiche e le possibili ricadute politico-giuridiche di certe affermazioni (che non starò qui a trattare e che spetta alle opposizioni contrastare nelle dovute sedi), quello che invece va messo in risalto è l’aspetto grottesco, cinematografico e sotto molti aspetti folklorico (nella sua accezione più sprezzante) di tutto questo circo appena sbarcato a Verona.

Detto in estrema sintesi, la salvaguardia della famiglia tradizionale è una sciocchezza enorme, utile solo a creare dibattito, tenere impegnati i giornalisti e l’opinione pubblica e distogliere l’attenzione dal suo intento più intimo. Questa semplice affermazione trova legittimazione in due ancor più semplici considerazioni: la prima è che nell’attuale società post-moderna la famiglia, intesa in senso tradizionale e nell’accezione data dagli organizzatori dell’evento, non esiste più, è anacronistica e nessuna operazione politica o di carattere sociologico potrà mai riportarla in vita. La famiglia tradizionale è stata superata dalla Storia come è stata superata dalla Storia quella cultura dominante e le sovrastrutture che la tenevano in vita.

La seconda considerazione è invece più strettamente legata alla struttura di fondo della società dominante, ossia che con questo convegno e con le politiche volte alla tutela della famiglia tradizionale si sta disperatamente cercando di mettere una pezza alla dissoluzione di quel nucleo sociale fondamentale che rappresenta il più importante riferimento nella società dei consumi.

Spiegherò subito le due considerazioni, ma prima voglio sottolineare che i due aspetti, in apparenza antitetici, sono in realtà intimamente connessi perché si fondano su una visione post-moderna, consumistica ed edonistica del concetto di famiglia e tutti i principali sovranisti e conservatori, parlando di famiglia tradizionale, confondono ad arte significante e significato e parlano alla pancia di una (larga) parte del Paese che non ha ancora ben chiaro il mutamento sociale avvenuto negli ultimi decenni.

La famiglia tradizionale è scomparsa

Zygmunt Bauman
Zygmunt Bauman

Zygmunt Bauman, in La società dell’incertezza, scrive che le

reti di protezione, tessute e tutelate con mezzi propri, le “trincee di seconda linea” un tempo messe a disposizione dalle relazioni di vicinato o dai rapporti familiari, dove si poteva trovare rifugio e curare le ferite procurate nelle dure battaglie della vita esterna, se non sono del tutto smantellate hanno comunque subito un considerevole indebolimento. Parte della responsabilità è da attribuire alle nuove (ma sempre mutevoli) pragmatiche delle relazioni interpersonali, pervase ora dallo spirito dominante del consumismo che identifica nell’altro un potenziale mezzo per ottenere gradevoli esperienze. Qualsiasi cosa siano in grado di fare, le nuove pragmatiche non possono generare legami duraturi. Il tipo di legami che esse producono in abbondanza, incorpora clausole “a scadenza” e “a libera contrattazione” e non promettono né l’attribuzione né il conseguimento di diritti o di obbligazioni.

Diritti e obbligazioni che invece rappresentano, secondo una concezione tradizionale della famiglia, la struttura sulla quale imperniare il rapporto familiare.

A differenza che nel passato, nella visione classica del concetto di famiglia, influenzato certo dalla morale cattolica, ma basato sulla comunanza d’intenti e sull’assistenza morale e materiale, nella società post-moderna la morale cede il passo a rapporti umani frammentari e discontinui in cui le visioni della vita post-moderna sono in perenne lotta contro i “fili che legano” e le conseguenze di lunga durata, e militano contro la costruzione di reti di doveri e obblighi reciproci che siano permanenti, in quanto l’Altro (il partner) viene visto come oggetto di valutazione estetica, non morale, come una questione di gusto, non di responsabilità. L’autonomia individuale si schiera contro le responsabilità morali, si disimpegna ed evita di precostituirsi degli obblighi, sopprimendo di fatto il complesso etico-morale che è alla base del matrimonio e, dunque, della famiglia.

La società dei consumi ha prodotto l’individualismo e l’edonismo (lo rilevò persino Paolo VI nel 1968), ha spinto l’individuo a tal punto da disgregare quel complesso di norme morali che rappresentano la tradizione (non solo quella giudaico-cristiana su cui si basa l’Occidente europeo, ma anche quella della civiltà contadina stratificata, che fino a 60 anni fa era una sub-cultura strutturata nella cultura dominante) e, di conseguenza, la famiglia tradizionale.

Le famiglie nella società dei consumi

Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini

Ma la società dei consumi, dopo aver prodotto l’Uomo-edonista che rifiuta le responsabilità insite nel nucleo familiare, svuota di contenuto buona parte della sua cultura e la sostituisce con l’interesse, l’eccitazione, la soddisfazione o il piacere, si accorge di avere bisogno della famiglia e di considerarla il centro dell’interesse in quanto, come scrive Pasolini in Scritti Corsari,

la civiltà dei consumi ha bisogno della famiglia. Un singolo può non essere il consumatore che il produttore vuole. Cioè può essere un consumatore saltuario, imprevedibile, libero nelle scelte, sordo, capace magari del rifiuto: della rinuncia a quell’edonismo che è diventato la nuova religione. La nozione di «singolo» è per sua natura contraddittoria e inconciliabile con le esigenze del consumo. Bisogna distruggere il singolo. Esso deve essere sostituito (com’è noto) con l’uomo-massa. La famiglia è appunto l’unico possibile «exemplum» concreto di «massa». È in seno alla famiglia che l’uomo diventa veramente consumatore: prima per le esigenze sociali della coppia, poi per le esigenze sociali della famiglia vera e propria. Dunque, la Famiglia (…) che per tanti secoli e millenni era stata lo «specimen» minimo, insieme, della economia contadina e della civiltà religiosa, ora è diventata lo «specimen» minimo della civiltà consumistica di massa.

Come acutamente osserva Pasolini, la famiglia è il fulcro, la cellula primaria dell’interesse della società dei consumi e passa dall’essere centro del potere della Chiesa (o delle sub-culture contadine) a centro del potere del consumo, quindi del capitale. Sfaldare la famiglia secondo la logica post-moderna dell’edonismo e dell’interesse a breve termine (la velocità non crede nella ripetizione, è anticerimoniale, scriveva Franco Cassano) significa frammentare nel tempo e nello spazio risorse e strategie, perdere profitti, quote di mercato.

Da qui la considerazione iniziale che l’attuale congresso sia un momento folklorico. Lo è negli aspetti che molti commentatori stanno evidenziando in questi giorni, ma non lo è nel suo intento più intimo e non palese.

L’intento, non palesato, di chi propugna la famiglia tradizionale non è quello antistorico di tornare indietro, perché sennò si dovrebbe tornare al dominio culturale e spirituale della chiesa se non addirittura al latifondo, ma è quello attualissimo di ricostruire i brandelli di una sovrastruttura che possa reggere i colpi di una struttura ormai al collasso e che, proprio in questi momenti, mostra la sua maggior ferocia: la struttura economica del capitale.

Lega, M5S e Monarchia

stato di diritto o monarchia

Tutti siamo convinti di vivere in uno Stato di diritto e non in una monarchia, ossia regolato dalle Leggi e non dai capricci di chi governa. Per arrivare ad una conquista del genere ci sono voluti secoli di dottrine filosofiche, rivoluzioni, lotte politiche, guerre.

Tutto ciò per arrivare ad affermare un principio che si credeva intoccabile, almeno fino ad oggi, ossia che tutti siamo uguali, in forma e in sostanza, dinanzi alla legge e che ogni consociato, o cittadino, conosce la prassi che porta dalla causa all’effetto.

In altre parole, un sistema fondato sul diritto è un sistema certo, per cui so che per raggiungere un certo obiettivo dovrò seguire una certa procedura e so che questo sistema fondato sul diritto mi riserva delle garanzie.

Ora mi chiedo: se nella prassi politica non vengono rispettati certi principi e, peggio, non li rispetta chi è al governo, potrò mai confidare nell’applicazione, da parte di chi mi rappresenta e di chi ha giurato sulla Carta Costituzionale, dei principi che sono alla base della società?

Due fatti recenti mi hanno fatto riflettere su queste considerazioni e mi hanno portato ad attendermi che lo Stato di Diritto è destinato a morte certa se non ci prodighiamo tutti a fermare questa barbarie in atto.

Il bus di San Donato Milanese

Rami san donato milanese

Il primo fatto è legato al terribile sequestro del bus scolastico a San Donato Milanese, dove un soggetto, infarcito da una becera e malata idea di odio e vendetta (che non sto qui ad analizzare, ma che ha cause riconoscibili), ha messo in pericolo le vite di 51 bambini, salvate grazie al coraggioso intervento di alcuni bambini, tra cui un italiano e uno di origine egiziana. La nazionalità dei bambini non dovrebbe essere importante, ma conta relativamente al fatto politico accaduto dopo: c’è chi si è schierato per dare la cittadinanza al piccolo Ramy (il bimbo di origine egiziana) e riaprire il dibattito sullo Ius Soli e chi, come Salvini, riteneva che non la meritasse. Salvo poi ricredersi dopo un social listening del prodotto che orienta le sue scelte politiche: la bestia, quel complesso software che analizza le discussioni sui social e fornisce all’utilizzatore il sentiment della rete su un determinato argomento.

Ebbene, dopo aver scoperto che buona parte degli utenti dei social era schierata con il piccolo Ramy, Salvini, come fosse in una monarchia, ha cambiato idea e si è mostrato favorevole a concedere la cittadinanza al ragazzo, fermo restando che è intenzionato a toglierla al criminale che ha sequestrato il bus.

La cittadinanza o non cittadinanza come premio o punizione?

Ora non voglio soffermarmi sulla considerazione per cui le scelte politiche, oggi, da parte del partito virtualmente di maggioranza nel Paese, siano condizionate da un software che analizza gli orientamenti degli utenti in rete. L’argomento meriterebbe un’analisi a sé. Voglio invece concentrarmi sull’aspetto oggi più rilevante: la cittadinanza è un interesse legittimo che rappresenta la fine di un iter amministrativo e l’inizio di un percorso composto da diritti e doveri oppure è un riconoscimento, dettato dalla generosità o voglia di punizione da parte di chi detiene la monarchia, che si toglie e si concede sulla base di un sentimento, di una reazione di pancia, di un subbuglio emotivo?

La cittadinanza presuppone un percorso certo, dettato dalla legge, oppure è la risultante di aspetti aleatori, tipici della monarchia assoluta, lasciati al caso e alla contingenza e decisa da un singolo o da una élite? Da queste domande discendono due considerazioni: la prima è che è legittimo riaprire il dibattito sullo ius soli. La seconda è che, qualunque scelta si faccia, dev’essere basata sulla certezza del diritto e riservata a tutti quelli che, indistintamente, posseggono i requisiti per accedere alla cittadinanza.

Indipendentemente da come si prospetterà la discussione sullo ius soli, è legittimo parlarne, purché la discussione politica presupponga l’applicazione concreta e reale dei principi su cui si fonda lo Stato di diritto: riconoscere la cittadinanza sulla base di norme certe e non sulla base del contingente e dell’alea. Sia chiaro: entrambe le posizioni politiche sono legittime: sia quella di chi sostiene lo ius soli (e lo ius culturae) sia quella di chi sostiene di mantenere l’attuale assetto basato sullo ius sanguinis. Decidere per l’una o l’altra via è una scelta politica, mentre non dev’essere una scelta politica quella di trascendere la legge per accontentare l’elettorato e rafforzare la propria posizione politica.

Il caso Marcello De Vito

Marcello De Vito monarchia

Il secondo fatto è relativo alla decisione di Luigi Di Maio di espellere dal M5S Marcello De Vito, dopo lo scandalo sulle tangenti per il nuovo stadio della Roma. Come tutti sappiamo, De Vito è stato uno dei primissimi esponenti del M5S, già candidato a sindaco di Roma e poi, dopo la vittoria di Virginia Raggi, divenuto Presidente del Consiglio comunale capitolino. Dalle intercettazioni, poi parzialmente diffuse sui giornali, si capisce che De Vito, approfittando di quella che chiamava una congiunzione astrale favorevole, abbia influenzato consiglio e alcuni assessori per favorire determinati soggetti, in cambio di tangenti, negli iter amministrativi relativi alla costruzione del nuovo stadio.

Non appena informato dell’inchiesta, Di Maio ha più volte e a gran voce dichiarato che De Vito è fuori dal Movimento, esattamente come se fosse in una monarchia. “Mi assumo io la responsabilità di questa decisione, come capo politico”, ha poi ribadito. A me, onestamente, questo atteggiamento spaventa assai. Non tanto perché Di Maio ha avuto due pesi e due misure (garantista con la Raggi, dopo l’indagine, ieri, spietato con De Vito, oggi), quanto perché con questa frase e con la decisione di cacciare via De Vito senza attendere l’esito del processo, palesa un’insofferenza nei confronti dei principi su cui si fonda uno Stato di diritto, tra cui il principio garantista (nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva di condanna). Sia chiaro, a casa sua decide come vuole, ma quest’atteggiamento, tipico di una monarchia, è tanto replicabile all’esterno quanto facilmente adottato all’interno.

Le regole e il garantismo

I più giovani di voi non ricorderanno come nel PC persino gli esponenti più scomodi, prima di essere espulsi dal partito, fossero soggetti ad un complesso sistema disciplinare interno, che coinvolgeva la sezione d’appartenenza e il comitato centrale, che prevedeva la possibilità di difendersi, di produrre documenti a favore, testimonianze, ecc. Persino i partiti più contemporanei, anche quelli populisti, si sono sempre mostrati garantisti nei confronti dei propri indagati. Ciò a buon motivo: il primo è che a volte la Magistratura non è stata esente da intromissioni politiche nei confronti dei partiti, il secondo è che spesso la sentenza definitiva ha smontato tutto l’impianto accusatorio della Procura.

E’ per questo e, più in generale, per il rispetto del principio garantista, che la legge prevede la presunzione d’innocenza. Ma si sa, in un clima politico e sociale dominato dal sentiment, questi principi sono anacronistici e quindi bisogna accontentare il proprio elettorato, salvare le apparenze e mostrarsi duri e puri nei confronti dei possibili attacchi da parte delle opposizioni. Tutto ciò, però, erode quei principi che sono a fondamento di uno Stato di diritto che Di Maio e Salvini hanno giurato di difendere, rispettare e applicare.

Questi due fatti (senza contare la questione Diciotti) sono sintomatici di una deriva autoritaria che il Paese sta prendendo. Ora bisogna capire se noi acconsentiamo a dirigerci verso una finta democrazia dalle tinte fosche tipiche di una monarchia o vogliamo preservare quello che i nostri nonni hanno creato col sangue: uno Stato in cui tutti siamo uguali davanti alla Legge e in cui prevale la Ragione, non il sentimento.

Che differenza c’è tra destra e sinistra oggi?

Renzi, Di Maio e Salvini destra e sinistra

La differenza tra destra e sinistra in Italia? Nessuna sul piano del reale. Alcune, ma solo sul piano dell’immagine.

Già dagli anni Settanta, con il progressivo imporsi nello Stato italiano (Stato da intendersi non in senso istituzionale ma come complesso di classi, ceti, Istituzioni, organizzazioni, mercato, ecc.) del capitalismo di stampo americano e della società dei consumi, anche grazie alla scelta politica del partito egemone, ossia la DC, di schierarsi con il Patto Atlantico, il PC ha dovuto giocoforza adattare la sua politica ai nuovi scenari. Così ha cercato di mantenere un precario equilibrio tra la fedeltà ad un partito che aveva adottato il modello del socialismo in una sola nazione, sciolto la III internazionale comunista, fatto fuori gli oppositori e instaurato un regime dispotico.

Chiaramente in questo quadro il PC italiano, consapevole del suo ruolo politico in Occidente, non avrebbe mai potuto appoggiare apertamente il regime sovietico e, a causa del proliferarsi al suo interno di correnti moderate e miglioriste (ossia quella che vedeva un adattamento dei principi socialisti e comunisti al capitalismo) cercò di adattarsi ai nuovi scenari, con l’obiettivo – dati i consensi ottenuti – di arrivare al governo.

Cosa che non accadde mai, nonostante il compromesso storico, a causa dell’uccisione di Aldo Moro, che aveva ormai messo a punto il compromesso per arrivare al governo con i comunisti.

Dagli anni Ottanta, soprattutto dopo la morte di Berlinguer, il PC non riuscendo mai a governare, nonostante lo storico (seppur momentaneo) superamento elettorale sulla DC, iniziò a frammentarsi fino alla fatidica svolta della bolognina nel 1990, quando l’allora segretario Achille Occhetto decise di concretizzare quella cosa di cui si parlava da tempo e aderire ai principi del capitalismo e del liberismo in chiave riformista. Fu quindi fondato il PDS (Partito dei democratici di sinistra) che, con D’Alema, divenne DS per poi arrivare, nel 2006, al PD, racchiudendo in sé anche pezzi di ex democristiani (Margherita, ecc.).

I liberisti sono di destra e sinistra!

romano prodi privatizzazioni

Tra l’avvento di Berlusconi (1994) e il suo decennio egemonico (2000-2010 circa, a parte un paio d’anni di governo Prodi dal 2006 al 2008), i DS hanno portato avanti una linea di smantellamento dello Stato sociale a tutto vantaggio del liberismo (ne ho parlato più diffusamente qui), attraverso le privatizzazioni, le liberalizzazioni (volute da D’Alema, Prodi e Bersani) e lo smantellamento delle tutele sul lavoro.

Prodi, D’Alema, Bersani che oggi vengono considerati di sinistra e quindi molti sostenitori del PD storcono il naso ad un loro possibile ingresso sono quelli che hanno privatizzato il paese, liberalizzato i servizi essenziali e fatto guerra all’ex Jugoslavia per fare un favore agli amici imperialisti. Cos’hanno di sinistra se rappresentano gli interessi dell’alta borghesia e del capitalismo e sono i naturali predecessori di Renzi?

Renzi e la destra e sinistra che si fondono

Renzi ha svolto la sua purificazione (o rottamazione, come lui la chiama) del PD solo per questioni di potere, dato che la sua politica è improntata all’ultraliberismo e, quindi, a fare favori ai rappresentanti dell’establishment europeo. Il jobs act è la prosecuzione di un programma, iniziato con Treu negli anni Novanta, per precarizzare sempre più il mondo del lavoro e consentire al capitale di accedere alla forza lavoro a costi più contenuti, di garantire la concorrenza al ribasso tra i lavoratori e di avere un ricambio della forza lavoro sempre maggiore. Il jobs act, unito ad una sempre maggiore debolezza del sindacato (che ha molte colpe, soprattutto nell’aver svenduto la classe lavoratrice per mantenere un brandello di potere) ha portato condizioni di vita peggiore alla classe lavoratrice.

La buona scuola è stato un progetto volto a ridurre sempre più i finanziamenti all’istruzione pubblica a vantaggio di quella privata. Non c’è molta differenza con le politiche del governo Berlusconi che, con le riforme Moratti e Gelmini, ha inteso destrutturare l’istruzione pubblica e rafforzare quella privata, sia nella scuola che nell’Università. La privatizzazione dell’istruzione di ogni ordine e grado, tipica di un sistema liberale e liberista, è un processo che si sta realizzando tutt’oggi e che ha coinvolto tutti i governi, da destra a sinistra.

Il ruolo del Parlamento

parlamento

Il parlamento ha la funzione di discutere le leggi e di dettare la linea politica che il Governo ha l’obbligo di realizzare. Più è ampio il Parlamento, più è rappresentativo dell’elettorato e più, in teoria, questa funzione può essere esplicata e i provvedimenti normativi sono adottati nell’interesse della Nazione. Ma se il Parlamento viene esautorato della sua funzione, il ruolo di scrivere le leggi e di adottarle nell’interesse della Nazione chi ce l’ha? Dal Governo Berlusconi ad oggi stiamo assistendo ad una costante e continua azione di esautoramento del Parlamento, il quale oggi è svuotato della sua intima funzione e fa solo da passacarte. Due sono gli strumenti più lampanti:

1. Lo strumento della fiducia. In questo modo il Governo chiede al Parlamento di votare in blocco un provvedimento, senza discussione, senza emendamenti. E’ chiaro che con un Parlamento a vocazione maggioritaria e deframmentato è più facile far passare provvedimenti senza discussioni, senza emendamenti (che, in teoria, servono a migliorare il testo), senza, cioè, far decidere ad una platea ampia e rappresentativa dell’elettorato.

2. Lo strumento della decretazione d’urgenza. I Decreti Legge sono uno strumento che consentono al Governo di adottare provvedimenti urgenti, ma in questi ultimi decenni sono stati massicciamente utilizzati per tutto: finanza, istruzione, lavoro, infrastrutture, ecc., perché consentono l’immediata efficacia ed una successiva ratifica da parte del Parlamento, il quale, di fatto, non fa altro che prendere atto di quanto deciso dal Governo.

Queste tecniche parlamentari unite al tentativo di riforma della legge elettorale e della riduzione del numero dei parlamentari serve a dare maggiore potere al Governo ed eliminare le minoranze scomode.

Destra e sinistra d’accordo per ridurre la rappresentatività popolare

Dunque i tentativi di ridurre il numero dei parlamentari e le leggi elettorali di stampo maggioritario sono esattamente funzionali a quest’obiettivo: rendere inutile il Parlamento, ridurre il numero dei parlamentari, sbarrare l’accesso alle minoranze fastidiose e rendere la maggioranza conforme alla volontà del Governo e, quindi, ai veri sostenitori di destra e sinistra liberisti: le lobby economiche.

La seconda Repubblica, iniziata dopo il crollo della DC e l’ascesa dei partiti populisti (Berlusconi è il padre di tutti i partiti populisti, M5S incluso) è caratterizzata proprio da questa funzione: aumentare il potere del Governo e ridurre il potere del Parlamento, svuotando di fatto il dettato costituzionale che vuole la centralità del Parlamento. Ecco perché Renzi ha voluto la riforma costituzionale, per sacralizzare nel testo una situazione di fatto. Ecco perché oggi il M5S vuole ridurre il numero dei parlamentari: con la scusa che così si risparmia (ma ignorando le spese pazze dei suoi parlamentari), vuole portare a compimento un percorso iniziato con Berlusconi e portato avanti da Renzi.

Il maggioritario unisce destra e sinistra. Altro che proporzionale!

Non appena terminate le elezioni europee, nel caso in cui il Governo dovesse reggere alle elezioni e dopo che il M5S avrà realizzato pienamente qual è la sua forza elettorale, si tornerà a parlare di legge elettorale e scoprirete il vero volto del M5S, che si è sempre detto favorevole al proporzionale, ma cambierà idea, coerentemente con la scelta di ridurre il numero dei parlamentari e di accentrare i processi decisionali nelle mani di pochi (e quei pochi, si sa, sono controllati da un soggetto economico, privato, inserito a pieno titolo nel sistema liberista e capitalista).

Reddito di cittadinanza e salario minimo, due cose che non cambiano la sostanza

Il reddito di cittadinanza è un contentino elettorale che non influisce sul mercato del lavoro e che grava su di esso (viene preso dai redditi dei lavoratori e dal debito pubblico), inoltre piace molto ai fautori della società dei consumi.

L’attuale “battaglia” sul salario minimo è anch’essa un contentino elettorale che però porterà i datori di lavoro ad aumentare il numero di ore di lavoro, diminuire il numero di lavoratori oppure optare per forme di lavoro più flessibili (contratti a tempo determinato, false P.IVA, ecc.).

Già da queste brevi informazioni si può capire che oggi tra Destra e Sinistra (di centro, chiaramente), Lega, M5S (e altri) non c’è alcuna differenza, se non nei toni utilizzati o in sporadici e singoli temi trattati, che però non influenzano minimamente le linee politiche dei rispettivi partiti volte a mantenere lo status quo e impedire ai ceti più poveri della popolazione di progredire.

Sabotare i lavoratori per mantenere lo status quo

La crisi economica del 2007 (che si ripeterà a breve) ha mostrato tutte le debolezze del sistema capitalista attuale, oggi accentrato nelle mani di pochi e che si mantiene vivo grazie alla speculazione finanziaria, che, estremizzata al massimo profitto, ha portato alla crisi economica. Gli scenari futuri, anche considerando il ruolo che la Cina sta giocando nel complesso scacchiere geo-politico, ci riserveranno nuove crisi economiche in quanto l’attuale assetto capitalista non è minimamente scalfito.

Il ruolo dei partiti politici in Italia è stato lineare e trasversale tra essi, ossia quello di sostenere l’alta borghesia a tutto svantaggio delle classi lavoratrici, non solo di quella operaia, ma anche di tutti quei piccoli imprenditori, quelle micro imprese, quei professionisti che oggi soffrono per l’eccesso di offerta, la concorrenza spietata dei grandi gruppi di capitali e per l’erosione del potere d’acquisto, per cui il mercato viene sbarrato e ci si deve accontentare delle briciole.

Iniquità fiscale

Sappiamo tutti quanti che la pressione fiscale in Italia rende difficile ad una micro impresa di crescere. Chiunque, oggi, si immette nel mercato con una propria idea, soprattutto sul web, si trova davanti gli sbarramenti di tasse e imposte, mancanza di infrastrutture (specie al Sud), concorrenza sleale dei big della rete, ecc.

Nonostante la Lega abbia fatto suo il cavallo di battaglia della flat tax, ingraziandosi numerosi piccoli imprenditori e professionisti, questo provvedimento va a tutto vantaggio dell’alta borghesia, ossia di quegli imprenditori e professionisti che guadagnano molto e investono poco, preferendo invece speculare i propri profitti.

Contrariamente a quanto sostiene la Lega, i risparmi derivanti dalla flat tax per le grandi imprese (e i grandi professionisti) non saranno mai reinvestiti per la crescita o per l’occupazione, anzi, saranno investiti in attività speculative.

Quest’ottimo servizio di Milena Gabanelli dimostra, numeri alla mano, quanto la flat tax sia iniqua, soprattutto per i piccoli. Personalmente lo so benissimo, essendo una P.IVA, che la flat tax mi avrebbe penalizzato e infatti non vi ho aderito, nonostante faccia redditi da fame.

L’iniquità fiscale tra piccoli e grandi

Se salto una rata dei contribuiti INPS o un pagamento IVA, lo Stato attende un certo numero di anni (max 5, per evitare la prescrizione) affinché aumentino gli interessi e, con le sanzioni, la mia rata o il mio pagamento raddoppia o triplica. Così vengo strozzato e indotto al fallimento. E poi, per ripagare i debiti fiscali, dovrò accedere al credito, ipotecare la casa e, quando sarò entrato nel vortice del debito, perderò tutto. E’ accaduto così tante volte che è inutile stare qui ad approfondire.

Questa cosa, però, non accade con i big.

Amazon

Amazon realizza utili per 11,2 miliardi di dollari (e un fatturato di 233 miliardi di dollari), ma negli USA non paga un centesimo di tasse.

Dopo una lunga indagine della GdF, dal 2011 al 2015, si è scoperto che Amazon non avrebbe versato un centesimo di tasse nemmeno in Italia, avendo preferito spostare gli utili in Lussemburgo, dove vige una tassazione più favorevole, nonostante avesse in Italia “una stabile organizzazione” che, per il fisco italiano, è sufficiente affinché l’azienda paghi le tasse nel bel paese.

Non sappiamo quanto guadagna Amazon in Italia, perché i suoi fatturati in molti paesi europei sono segreti, ma sappiamo che la sua strategia è quella di aggredire il mercato europeo, operando in perdita, per eliminare ogni forma di concorrenza sia sul web che dei negozi tradizionali, forte dei continui finanziamenti da parte dei suoi azionisti, e sappiamo che nel periodo 2016-2018 il fatturato è aumentato del 71,26% (v. qui), eppure in Italia, dopo il controllo da parte della Finanza, pagherà all’Agenzia delle Entrate solo 100 milioni di euro per gli anni 2011-2015 (ossia 2,5 milioni ad anno, a fronte di un fatturato globale che arriva a 233 miliardi. Fate le giuste proporzioni).

Google

Anche Google ha fatto un accordo accomodante con il fisco italiano. A fronte di un fatturato globale di 67,6 miliardi di dollari nel 2015 (saliti a 82 miliardi nel 2016) pagherà in Italia appena 306 milioni di euro, dopo anni di contenziosi. Anche Google, forte del fatto di avere la sede legale europea in Irlanda (dove la fiscalità è esigua) e forte di essere una multinazionale del web, non ha mai pagato un centesimo di tasse in Italia, dove però offre i suoi servizi di pubblicità e dove, quindi, ha un mercato stabile. Eppure è arrivata ad un accordo che le ha consentito forti risparmi fiscali rispetto alla totalità delle aziende che operano e hanno la sede fisica in Italia.

Apple

Apple è stato il primo big a giungere ad un accordo col Fisco italiano. Nel 2015 ha pagato 318 milioni di euro per sanare una evasione fiscale di 5 anni che sfiora il miliardo di euro.
Apple è quella che ha pagato di più, ma per un semplice motivo: ha numerosissime attività commerciali fisiche nel territorio italiano, a differenza di Amazon che ha solo uno stabilimento a Castel San Giovanni e Google che ha una sola sede in Italia (a Milano).

I colossi pagano piccolissime somme (che arrivano, solo nel caso di Apple, a circa il 30%) per sanare le loro posizioni con il fisco mentre i professionisti, le PMI, le micro imprese e i lavoratori arrivano a pagare oltre il 70% tra fiscalità diretta e indiretta, senza contare i contenziosi e l’enorme burocrazia che blocca gli investimenti.

Favorire i grandi, penalizzare i piccoli

Ogni governo che si è succeduto in questi anni ha adottato la medesima politica di favore nei confronti dei big e non ha mai messo mano né alla fiscalità né al mercato del lavoro per correggere le numerose storture che coinvolgono sia gli imprenditori che i lavoratori.

In conclusione, per sintetizzare quanto detto finora, ritengo che la discussione tra destra e sinistra, oggi, in Italia, sia solo un mero esercizio stilistico, sia formalismo linguistico che non trova alcuna corrispondenza con la realtà.

Tutti, da destra a sinistra, sono rappresentanti di poteri forti (attenzione a non fraintendere e considerare quest’espressione di mero complottismo. Tutt’altro), solo di diversa natura: se il PD è naturalmente orientato a preservare i rapporti con l’establishment europeo, mentre il M5S cerca altri “padroni”, la Lega è orientata a rappresentare l’alta borghesia interna. Ma si tratta sempre di poteri, più o meno forti, che però sono accomunati da un unico intento: preservare il capitale, gli interessi economici, i rapporti di forza nel mercato.

Mercato e profitto

Nel mercato, si sa, si fa tutto secondo la logica del profitto: ci si scambia favori, ci si fonde, si fa concorrenza, si creano e disfano alleanze, sempre in nome del denaro. E in questi giochi la politica italiana fa gli interessi del mercato, non della Nazione. In altre parole, se Confindustria si schiererà con i cinesi, anche la Lega sarà a favore della Via della Seta (qui un approfondimento sul tema), così come il PD cambierà padrone se l’Europa e la BCE dovessero crollare nei nuovi rapporti di forza che s’ingenereranno tra Occidente e Oriente.

Detto in estrema sintesi: la politica di oggi è lo specchio del mercato, non del popolo. Il concetto di popolo è solo uno specchietto per le allodole per confondere le acque, convincere la gente che l’interclassismo ha sostituito il conflitto tra le classi e tenersi buoni gli strati più umili della popolazione, quelli che si sentono oggi rappresentati principalmente da Lega e M5S ma che da loro prendono solo calci nel sedere.

Destra e sinistra?

Se vogliamo invertire la rotta e ridare dignità a chi lavora, a chi è sfruttato (siano essi lavoratori, imprenditori, giovani professionisti, P.IVA, ecc.) bisogna lasciar perdere la diatriba tra destra e sinistra e ricostruire un socialismo di fatto che parta dagli ultimi, dai territori e che disegni un manifesto politico in grado di scalfire un sistema capitalistico ormai allo sbando, che si sta mostrando sempre più aggressivo e sempre più squilibrato (alla prossima crisi, imminente, mi darete ragione). Un soggetto che faccia comprendere la realtà nella sua razionalità, nella sua necessità, ovvero in modo scientifico e crei concetti e azioni che possano razionalizzare l’esistente. Pare difficile, ma non lo è. Lo sarà quando tutte quelle persone “di buona volontà”, anziché farsi la guerra sui particolari, metteranno insieme le proprie forze per un obiettivo unico. Stoico, se vogliamo, ma non impossibile.

Il falso tira e molla sulla TAV

treno simpson tav

La discussione di questi giorni in merito alla TAV rappresenta, nella dialettica politica tra i due governanti / contendenti, un falso problema o, per dirla meglio, un’illusione demagogica.

In prim’ordine perché tutto è stato deciso, il progetto andrà avanti e questo lo sanno benissimo sia i leghisti che i pentastellati, in second’ordine perché ognuno di loro vuole mantenere illibata la sua immagine davanti all’elettorato e quindi il braccio di ferro tra Salvini e Di Maio va visto semplicemente in questa chiave di lettura: Il M5S salvi capre e cavoli, in vista delle elezioni europee. Perché questi continui battibecchi e il tentativo, da parte del Presidente Conte, di giungere in soccorso alla parte più debole del governo dimostrano un re-bilanciamento del peso politico, oggi tutto spostato a favore della Lega, nonché l’interesse a mostrarsi determinati a bloccare l’opera in un gioco di specchi riflessi, ma al cui interno si nascondono le vere intenzioni.

Tra l’altro la presa di posizione di Conte non è casuale né dettata da emotività, ma è un modo per abbagliare la discussione pubblica sul tema, accreditarsi presso l’elettorato grillino e mostrarsi all’opinione pubblica come puro e obiettivo sostenitore delle ragioni del M5S.

Al netto del fumo negli occhi gettato sull’opinione pubblica, quello che resta nella sostanza è la volontà ferma di realizzare l’opera, sia da parte di Salvini che da parte – ovviamente – dell’establishment europeo. Su questo non ci sono sovranismi che tengono.

Salvini, del resto, è un fermo sostenitore dell’opera poiché lui rappresenta gli interessi di quella borghesia industriale, tutta italiana, che vuole che la TAV sia realizzata per evidenti ragioni di profitto. Al di là dei costi di investimento, che ricadono sui conti pubblici europei, non vi sono dubbi che tutti i grossi imprenditori, italiani e non, sono concordi nel volere la TAV. Quindi a beneficiare dell’opera saranno gli agglomerati industriali europei, le grandi aziende, gli importatori e tutto quel tessuto economico che, per semplicità espositiva, chiameremo capitalisti.

Quest’aspetto va sottolineato per tutti coloro che ritengono Salvini un sovversivo dell’ordine europeo e un sovranista puro. Il sovranismo di Salvini non è altro che conservazione di un sistema economico-politico volto a tutelare gli interessi dei ceti più ricchi, una forma di reazione non tanto ai diktat europei, quanto alle classi più deboli della popolazione. Altrimenti non si spiegherebbe perché viene ben visto da Confindustria e da tutti i rappresentanti del capitalismo, non solo nostrano.

La sua lotta in Europa non è lotta per la sovranità del popolo italiano, ma una lotta tutta interna agli interessi capitalistici dei suoi più fermi alleati. In questo quadro va vista la sua battaglia a favore della TAV.

In altre parole Salvini non fa altro che conservare gli interessi di quei soggetti che vogliono abbattere i costi, velocizzare gli spostamenti di merci e aprirsi a nuovi mercati. Tutto bello, sì. Peccato che tutto ciò – come si è visto negli ultimi secoli – non avvantaggia l’economia reale, non incide sul benessere collettivo né migliora le condizioni di vita dei cittadini. Anzi, più il capitalismo matura, si coalizza, si internazionalizza, diventa tecnologico, tende a monopolizzare e a ridurre il liberismo e più aumentano le disparità sociali, le crisi economiche e la povertà di masse di persone.

Eppure quest’opera la paghiamo noi. Il grosso dell’investimento è sorretto dai bilanci europei, ossia da quelle somme che tutti gli anni gli Stati membri versano all’UE e che, ovviamente, derivano da imposte e tasse che noi paghiamo. Se poi inseriamo questo concetto nell’ordine di idee da cui nasce la flat tax, capiamo perfettamente che chi paga l’opera (e tutte le opere che verranno, oltre a tutte le politiche economiche che si faranno) non è l’imprenditore, ma il lavoratore, visto che il lavoro è maggiormente tassato rispetto al profitto. E poi pagheremo tutti, indistintamente, senza progressività, con l’IVA e con tutte quelle tasse che gravano sui consumi. Insomma, il sovranismo salviniano è sovranismo degli interessi economici della borghesia che lo appoggia, non del popolo grullo che lo acclama.

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Il progetto TAV

Il costo totale dell’opera è di 8,6 miliardi di euro e l’Europa, come detto, ne mette la maggior parte, mentre investe per circa il 40% sul tratto franco-italiano, ossia quello per cui oggi si sta tanto discutendo.

Quindi l’opera la paghiamo noi ma andrà a vantaggio dei grandi gruppi industriali e di quel tessuto economico-commerciale europeo e internazionale che vuole assolutamente ridurre i costi, aprirsi a nuovi mercati e far viaggiare le merci con più efficienza.

Ma guardiamo il lato positivo delle cose.

Il treno è solo un mezzo. Spostare merci velocemente e a minori costi e minor impatto ambientale è un bene, ma tutto ciò dipende da chi lo utilizza e con quali finalità. Dipende da chi produce quelle merci e a chi sono destinate.

Le infrastrutture sono utili, ma il fine a cui sono destinate può cambiare e può avvantaggiare determinate classi sociali. Il vero problema non è il mezzo, ma chi lo detiene. Del resto un ponte con un Paese straniero può essere usato per facilitare la guerra oppure per facilitare i rapporti tra esseri umani. Il mezzo è uno strumento, è il fine che lo rende utile o dannoso.

Certo allo stato attuale la TAV servirà gli interessi del capitale, ma non è detto che una futura (e possibile) classe dirigente interna o europea possa destinare l’infrastruttura ad altri e più proficui utilizzi. E poi, come ogni grande opera, ci sono gli elementi negativi (l’impatto ambientale, gli alti costi di realizzazione, ecc.) ma anche quelli positivi, come la limitazione del trasporto su gomma. Del resto anche il trasporto su gomma incide negativamente sull’impronta ambientale e non si può certo nascondere che il carburante consumato da circa 1 milione di tir all’anno che passa dalla val di Susa ingrossi comunque i fatturati delle compagnie petrolifere, oltre a creare caos, inquinamento, sfruttamento dei poveri autisti da parte di una miriade di padroncini e centellinati danni alle fragili infrastrutture della rete stradale e autostradale.

Insomma, ogni grande opera nasconde i suoi pro e contro. Ma va comunque evidenziato nuovamente che l’interesse attuale e cogente di Salvini e dell’Europa è quello di favorire gli interessi economico-finanziari del capitale, in un tira e molla tutto interno, senza dare alcun utile alle classi più svantaggiate.

Luigi di maio

Se il M5S vuole davvero rendersi utile alla causa e fare qualcosa di buono per il popolo, di cui oggi si sente portatore degli interessi e delle aspettative, non si limiti ad uno sterile NO all’opera che serve solo a tenersi buono l’elettorato più radicale, ma promuova una campagna volta a finanziare, in fase di realizzazione dell’opera, i territori coinvolti con parte dei fondi messi a disposizione per la TAV e li destini a misure di compensazione vincolate a progetti per le classi meno abbienti: fondi destinati all’istruzione, alla cultura, all’inclusione sociale, ecc. E s’impegni a costringere gli utilizzatori dell’opera a destinare parte dei ricavi ai territori e ai progetti sopra menzionati. In questo modo almeno si attenueranno le conseguenze e una parte dei profitti sarà redistribuita equamente tra chi l’opera la subisce e non ne trae alcun vantaggio. Almeno per ora.