Perché meritocrazia è una brutta parola

Una breve recensione di un libro di Enrico Mauro che va letto, perché mette in crisi il concetto (dato per assodato) di meritocrazia. Contro la società del sorpasso, il pensiero antimeritocratico di Don Tonino Bello, edito da San Paolo (2023), con prefazione di Salvatore Cingari è un libro piacevole da leggere, eppure tosto, profondo e con una lettura (e rilettura) degli scritti di Don Tonino. Un prete che predicava la giustizia sociale e la pace. E non aveva paura del potere. Anzi.

Intro

Uno dei termini più inflazionati degli ultimi decenni è sicuramente quello di meritocrazia.

Lo sentiamo dire spesso

ci vuole più meritocrazia!

Questa non è una società meritocratica, perché non premia i capaci!

La meritocrazia è un valore!

e cose così.

Se poi sfogliamo i dizionari, salta subito all’occhio la coerenza con quanto appena detto.

Secondo il dizionario Oxford language, la meritocrazia è un

Sistema di valutazione e valorizzazione degli individui, basato esclusivamente sul riconoscimento del loro merito: caratteristico della società liberista.

Una definizione parziale, in apparenza positiva, eppure già contiene, in nuce, un primo (e poco visibile) elemento di critica. Cioè il fatto che sia un valore tipico della società liberista. Cioè una società che fa della competizione, della concorrenza, dell’individualismo i propri pilastri.

La meritocrazia nella Treccani

Leggendo invece il dizionario Treccani, già troviamo una prima – basilare – distinzione. Tra il concetto in senso negativo e quello in senso positivo.

meritocrazìa s. f. [dall’ingl. meritocracy, comp. del lat. meritum «merito» e –cracy «-crazia»]. – Concezione della società in base alla quale le responsabilità direttive, e spec. le cariche pubbliche, dovrebbero essere affidate ai più meritevoli, ossia a coloro che mostrano di possedere in maggior misura intelligenza e capacità naturali, oltreché di impegnarsi nello studio e nel lavoro; il termine, coniato negli Stati Uniti, è stato introdotto in Italia negli anni Settanta con riferimento a sistemi di valutazione scolastica basati sul merito (ma ritenuti tali da discriminare chi non provenga da un ambiente familiare adeguato) e alla tendenza a premiare, nel mondo del lavoro, chi si distingua per impegno e capacità nei confronti di altri, ai quali sarebbe negato in qualche modo il diritto al lavoro e a un reddito dignitoso.

Altri hanno invece usato il termine con connotazione positiva, intendendo la concezione meritocratica come una valida alternativa sia alle possibili degenerazioni dell’egualitarismo sia alla diffusione di sistemi clientelari nell’assegnazione dei posti di responsabilità.

Dunque questa definizione parte da un assunto diverso rispetto a quello che si nota nel sentire comune. Vi è sì un concetto positivo, ma c’è anche uno negativo. La meritocrazia è sì un sistema di valutazione che si pone l’obiettivo di premiare i più capaci, intelligenti e preparati, ma non tiene conto dei livelli di partenza e di arrivo.

Due grandi giuristi statunitensi, Ronald Dworkin e John Rawls, difatti, considerano la società meritocratica come una società ingiusta, in quanto non si tiene conto dei livelli di partenza e di arrivo degli individui e, quindi, la meritocrazia è un disvalore, non uno strumento che premia il merito.

Facciamo un esempio

Il figlio di mamma casalinga e papà operaio difficilmente potrà arrivare a livelli alti di istruzione (e di collocazione sociale) rispetto al figlio di mamma avvocata e papà dirigente pubblico (o medico, ingegnere, fate voi).

Potrà anche essere intelligente, sveglio, capace. Ma i mezzi che ha a disposizione non gli permettono di partire dallo stesso punto di partenza da cui partono gli altri.

E’ un po’ come se in una gara di 100 metri, i corridori partono da punti di partenza diversi. Il più veloce di tutti, se parte 200 metri più lontano, è ovvio che arriverà più tardi al traguardo rispetto all’avversario più lento, ma che parte 200 metri più vicino.

Dunque secondo i due giuristi (e secondo un’analisi logica della faccenda), se parti svantaggiato, arrivi svantaggiato. Ciò indipendentemente dalle qualità personali che hai.

Si può obiettare che ciò non è vero, che capita spesso che persone provenienti da contesti svantaggiati poi arrivano a ricoprire ruoli importanti nella società.

Certo.

Questo è ciò che cantava Gianni Morandi con uno su mille ce la fa.

E agli altri 999 stronzi chi ci pensa? Ribattè qualche decennio dopo Checco Zalone in Cado dalle nubi.

Quell’uno che ce la fa viene talmente pompato dai media da passare dall’essere eccezione ad essere regola.

Ma la regola è un’altra.

La regola sono gli altri 999 che, pur se capaci e talentuosi, se partono da livelli svantaggiati, resteranno tali per tutta la vita.

I dati Istat

Di recente l’Istat ha pubblicato uno studio sulla povertà educativa in Italia. Da questo studio emerge che, nella maggior parte dei casi, i figli di persone che non hanno un titolo di studio o hanno un titolo di studio inferiore, hanno meno chanches educative rispetto ai colleghi che provengono da famiglie composte da genitori laureati.

Oltre un terzo dei figli di non diplomati vive infatti una condizione di deprivazione, spiega l’Istat. Se il livello di istruzione di almeno un genitore è il diploma, la quota scende a uno su dieci. Se è la laurea, crolla al 3%.

Già questi dati, provenienti dall’indagine Istat sulla condizione dei minori, danno evidenza dell’ingiustizia di una situazione di partenza ancora estremamente influenzata dalla condizione sociale ed educativa dei genitori.

Il legame tra istruzione dei genitori e prospettive dei figli resta ancora molto forte in Italia.

Questa tendenza pare essere aumentata dopo le restrizioni pandemiche. L’incidenza dei minori deprivati tra i figli di non diplomati è aumentata, dopo la pandemia, di quasi 5 punti percentuali.

Dunque, dall’analisi di questi dati si capisce che ancora oggi una bassa istruzione sembra essere collegata ad una peggiore condizione economica e sociale.

Detto in altri termini, sin dalla nascita, un bambino che cresce in una famiglia con minore istruzione affronterà con più difficoltà, rispetto ai coetanei che crescono in famiglie più istruite, il percorso scolastico e, di conseguenza, l’inserimento lavorativo.

Le disparità di partenza, insomma, si replicano di generazione in generazione e ciò non fa altro che replicare le disuguaglianze sociali.

In pratica si riproduce il classismo. Una cosa che la società liberista dice di aver sconfitto, ma nella realtà è ben presente e continua a riprodursi.

Non è che servono i dati, su!

Non è che i dati ci servano granché, dai. A volte basta il sentire comune. Il figlio del notaio che diventa notaio ci dice già qualcosa. Come il figlio dell’avvocato che si iscrive a giurisprudenza e poi eredita lo studio del padre è uno dei tanti luoghi comuni (comuni perché, spesso, veri).

Diceva Marx

La conservazione e la riproduzione costante della classe operaia rimane condizione costante della riproduzione del capitale.

(…) Lo schiavo romano era legato da catene al suo proprietario, il salariato è legato al suo da fila invisibili. L’apparenza della sua autonomia viene mantenuta dal costante variare del padrone individuale e dalla fictio juris del contratto.

In passato il capitale faceva valere con leggi coercitive, quando gli sembrava necessario, il suo diritto di proprietà sul libero operaio. Così per esempio in Inghilterra fino al 1815 era vietata, pena gravissime sanzioni, l’emigrazione degli operai impiegati nella costruzione di macchine.

La riproduzione della classe operaia implica anche il tramandarsi e l’accumularsi dell’abilità da una generazione all’altra (…)

Insomma, in una società divisa in classi (come lo è la nostra) è sistemico che le classi si riproducano. Cioè, è altamente difficile che chi proviene da una classe inferiore abbia le medesime chanches di chi, invece, cresce in condizioni agiate. In questo senso la meritocrazia premia chi? Chi è capace oppure chi ha più mezzi per scavalcare gli altri ed emergere, anche se incapace?

La meritocrazia è un concetto negativo

Meritocrazia è un concetto negativo. Lasciando perdere le definizioni viste finora, che sono comunque e sempre frutto dei tempi in cui vengono coniate (o modificate, aggiustate, corrette), partiamo proprio dalle basi del termine.

Meritocrazia è negativo perché in sé contiene il suffisso –kratos, ossia governo, dominio del merito.

E il suffisso –crazia è sempre associato a termini negativi.

Fallocrazia, per esempio, è il dominio dei maschi sul mondo femminile.

Tecnocrazia è il dominio della tecnica sull’umanesimo e sulle scelte politiche.

Burocrazia significa governo delle regole (a volte incomprensibili) sull’interesse pubblico o sull’interesse privato di chi pretende che la Pubblica amministrazione permetta al destinatario di godere del bene della vita che reclama.

Plutocrazia significa dominio dei ricchi sulla maggioranza delle persone.

E democrazia? Apparentemente sembra un termine positivo, perché ha a che fare con il potere del popolo, ma in realtà in origine significava dominio del demos, cioè del popolino, dei nuovi arricchiti a svantaggio del governo dei nobili, dei saggi.

Difatti Rousseau dirà che la democrazia può sfociare nell’oclocrazia, cioè il dominio della pancia del paese a svantaggio dello stato di diritto (tipo i vaffa day…).

Ad ogni modo, qualunque sia il termine in cui è inserito il suffisso –kratos, questo lo connota in negativo, perché il termine è associato al potere in senso becero, al predominio degli uni sugli altri.

Il pensiero antimeritocratico di Don Tonino nel libro di Enrico Mauro

Enrico Mauro, Contro la società del sorpasso. Il pensiero antimeritocratico di don Tonino Bello
Enrico Mauro, Contro la società del sorpasso. Il pensiero antimeritocratico di don Tonino Bello

Di recente ho avuto modo di leggere il libro Contro la società del sorpasso, il pensiero antimeritocratico di Don Tonino Bello, edito da San Paolo (2023), che ha il pregio di aver scardinato completamente il significato comune del termine meritocrazia, in modo scientifico e razionale. Ma senza perdere di godibilità e comprensività del testo.

Il libro di Mauro è, come lo definirebbero i Wu-Ming, un oggetto narrativo non identificato, perché non è un testo scientifico, ma lo è. Non è un’autobiografia, ma lo è. Di certo non è un romanzo, ma a tratti pare esserlo. Non è un’agiografia di un venerabile, perché a volte lo critica. Insomma, è un testo che non può essere incasellato e il suo fascino sta proprio in ciò.

Mauro dà il via al suo libro parlando di un parallelismo. Quello tra la sua storia e quella di Don Tonino. Due vite vissute negli stessi spazi (più o meno) ed in tempi (non troppo) diversi. Due vite che hanno elementi in comune. E questo è stato, forse, il motivo che ha spinto un laico, un ateo (ma agnostico i giorni pari, precisa l’autore) a studiare a fondo gli scritti di un prelato.

Studiandoli a fondo, Mauro ha identificato una critica di fondo, da parte di Don Tonino.

Parlando di materialismo, privatismo, rampantismo, egoismo, utilitarismo, edonismo, consumismo, individualismo (Don Tonino arriva anche a citare Pasolini), Don Tonino critica aspramente ciò che oggi viene sintetizzato nel concetto di meritocrazia.

Il dominio del solo contro tutti, del veloce (che sorpassa) contro i lenti. Del potente (kratos) contro i deboli.

Per tutta la vita Don Tonino ha combattuto contro la nascente società del sorpasso (da qui il titolo del libro), del materialismo, dell’edonismo (da qui le citazioni a Pasolini, che ricorrono nel pensiero di Don Tonino) e di ogni forma di predominio del potere, della ricchezza, sull’umanità, la solidarietà (don Tonino cita spesso il filosofo Emmanuel Lévinas).

Osserva l’autore,

Nel contesto di uno dei suoi scritti più organici, freschi, “aerei”, ossia il diario della visita pastorale del 1983 in Australia, don Tonino, rivolgendosi ai pugliesi di Sydney, contrappone sia il «materialismo[, che] è una malattia mortale che sta lacerando la nostra vecchia civiltà europea», sia «[i]l denaro, la ricchezza, la produzione, l’accumulo, [che] sono disvalori se diventano oggetto terminale di ogni […] impegno e di ogni aspirazione», a «certe dimensioni dello spirito che potranno assicurar[e] una crescita umana veramente integrale», perché, «[a]l di là della materia, scorza sottilissima e seducente della realtà, ci sono valori [… quali] la polarizzazione della vita attorno al Signore, l’amore per la giustizia, il gusto del dialogo, la gioia di condividere.

Soprattutto da presidente nazionale di Pax Christi don Tonino denuncia insistentemente e senza mezze misure l’«economia disumana», l’«esasperazione dei parametri economici ridotti a criterio supremo dell’umana convivenza», le «logiche di guerra [… che] dai campi di battaglia hanno traslocato sui tavoli di un’economia che penalizza i poveri», il «dominio assoluto della logica del profitto [che] è la vera causa dei gravi squilibri del mondo contemporaneo, […] che partorisce l’esodo di milioni di “dannati della terra” verso le nostre società opulente»

Una critica lucidissima che, oggi, pare ancora più attuale, con le migliaia di persone morte in mare perché cercano condizioni di vita migliori e scappano da paesi resi poveri proprio dal dominio colonialista occidentale e per cui abbiamo smesso di provare compassione.

Gli auguri scomodi

Mauro cita spesso le lettere o le omelie che Don Tonino rivolgeva ai suoi fedeli e una di queste colpisce per la forza evocativa del linguaggio.

Don Tonino, cosciente che negli anni in cui vive si sta realizzando compiutamente l’ideologia liberista e che sta trasformando le coscienze delle genti, cerca di svegliarle, di riportarle alla realtà. E lo fa con il suo stile.

I famosi auguri scomodi del 1985 ne sono una delle tante prove.

Diceva Don Tonino

Carissimi, non obbedirei al mio dovere di vescovo se vi dicessi “Buon Natale” senza darvi disturbo. Io, invece, vi voglio infastidire. Non sopporto infatti l’idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla routine di calendario. Mi lusinga addirittura l’ipotesi che qualcuno li respinga al mittente come indesiderati.

Tanti auguri scomodi, allora, miei cari fratelli!

Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali e vi conceda di inventarvi una vita carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio. Il Bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finché non avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un marocchino, a un povero di passaggio.

Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la vostra carriera diventa idolo della vostra vita, il sorpasso, il progetto dei vostri giorni, la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate.

Che Dio vi faccia sentire dei vermi. Quando mai abbiamo sentito un augurio di Natale così?

Leggere il libro di Enrico Mauro ci serve. Oggi più di allora le parole di Don Tonino ci occorrono per sviluppare gli anticorpi contro il revisionismo del linguaggio, che è uno dei segni più evidenti dell’influenza di una società iniqua nei confronti di chi ci vive dentro e che crede che sia normale lottare gli uni contro gli altri per emergere.

Invece, ce lo insegna Don Tonino e ce lo ricorda Enrico (don Tonino, Preghiera sul molo, 1982):

Fa’ provare a questa gente che lascio

l’ebbrezza di camminare insieme.

Donale una solidarietà nuova, una comunione profonda […].

Falle sentire che per crescere insieme

[…] occorre spalancare la finestra del futuro

progettando insieme, osando insieme,

sacrificandosi insieme.

Da soli non si cammina più.

Lascia un commento