Un centinaio di false emergenze. Parte II – Gli Ulivi

decreto emergenze

Affrontare problemi strutturali con metodi emergenziali, derogare alle norme ordinarie in materia di salute e ambiente, aiutare finanziariamente i grandi e lasciare i piccoli fuori. Queste e tante altre le criticità del c.d. Decreto Emergenze, promosso dal Ministro Centinaio, ampiamente discusso in Parlamento e, addirittura, peggiorato rispetto alla formulazione originaria, grazie agli emendamenti di M5S e PD, sia nelle commissioni (agricoltura e bilancio) che in aula.

Segue dalla prima parte.

Il problema Ulivi in Puglia

Art. 8 del decreto emergenze e sospensione della democrazia

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Nell’art. 8 del decreto emergenze si mostra tutta la pervicacia di una politica volta a soddisfare gli interessi di poche lobby a tutto svantaggio non solo dei piccoli olivicoltori pugliesi, ma anche dei cittadini che pagheranno un prezzo altissimo in salute e in contrazione dei più elementari diritti costituzionalmente garantiti, per perseguire folli e spregiudicati progetti di ristrutturazione del comparto agricolo a vantaggio degli industriali e a tutto svantaggio dei piccoli produttori e delle comunità locali.

Stiamo parlando del problema Xylella in Puglia. Ne ho già parlato in questo articolo, quindi non ripeterò cose già dette soprattutto in merito alla gestione antiscientifica e alla linea politica casinista della presunta lotta al batterio, che finora ha prodotto solo danni e nessuna soluzione in merito al disseccamento degli Ulivi. Ciò che mi preme sottolineare è che queste misure si pongono in un quadro molto ampio volto a soddisfare gli interessi dell’industria, anche a costo di calpestare i più elementari diritti della popolazione locale. Tra l’altro se passasse questo modello di emergenza fittizia, si derogherebbe a qualsiasi principio, anche di rango costituzionale, e si aprirebbero le porte ad un regime di fatto. Dato che l’analisi del testo è molto lunga e articolata, per facilitare la lettura e rendere comprensibili le numerose disposizioni in esso contenute, ogni paragrafo è un commento ad una norma specifica del decreto, con rimandi ad altri documenti o ad altre parti del testo. Buona lettura.

Articolo 8 del Decreto emergenze

(Misure di contrasto degli organismi nocivi da quarantena in applicazione di provvedimenti di emergenza fitosanitaria)

Analisi dell’art. 18-bis del D.Lgs. 214/2005

Il decreto Emergenze, all’art. 8, aggiunge l’articolo 18-bis al D.Lgs. 214/2005, recante attuazione della direttiva 2002/89/CE sulle misure di protezione contro l’individuazione e la diffusione nella Comunità di organismi nocivi ai vegetali o ai prodotti vegetali.
Il comma 1 del nuovo articolo 18-bis dispone che le misure fitosanitarie ufficiali e ogni altra attività connessa, compresa la distruzione delle piante contaminate, incluse quelle aventi carattere monumentale, sono attuate in deroga ad ogni disposizione vigente, ivi incluse quelle di natura vincolistica, nei limiti e secondo i criteri indicati nei provvedimenti di emergenza fitosanitaria.

E’ stata, quindi, estesa a livello di ordinamento generale quanto disposto dalla decisione di esecuzione (UE) 2015/789 della Commissione del 18 maggio 2015 (modificata dalla decisione di esecuzione (UE) 2018/927 del 27 giugno 2018) relativa alle misure per impedire l’introduzione e la diffusione nell’UE della Xylella fastidiosa.
L’articolo 6, paragrafo 2, lettera a) dispone, infatti, che lo Stato membro deve rimuovere immediatamente, indipendentemente dal loro stato di salute, le piante che si trovano entro un raggio di 100 metri da quelle risultate infette. Il comma 2-bis dell’articolo 6 dispone che, in deroga al disposto richiamato, è possibile decidere che non è necessario rimuovere singole piante ospiti ufficialmente riconosciute come piante di valore storico purché siano soddisfatte tutte le seguenti condizioni:
a) le pianti ospiti sono state sottoposte a campionamento e analisi ed è stato confermato che non sono infette dall’organismo specificato;
b) le singole piante ospiti o la zona interessata sono state isolate fisicamente dai vettori in modo adeguato affinché tali piante non contribuiscano all’ulteriore diffusione dell’organismo specificato;
c) sono state applicate pratiche agricole appropriate per la gestione dell’organismo specificato e dei suoi vettori.

Quindi, in altre parole, per non rimuovere piante definite di interesse storico, in qualunque zona, anche nella zona infetta, si impone di effettuare pratiche agricole appropriate per la gestione del vettore, che comprendono anche e soprattutto l’uso intenso di pesticidi, dannosi per la terra, per le altre specie animali e vegetali e, soprattutto, per la salute umana.

Comma 2 art. 18-bis – Le Sanzioni

Il comma 2 del medesimo articolo 18-bis prevede che il proprietario, il conduttore o il detentore, a qualsiasi titolo, di terreni sui quali sono riscontrate piante infette da organismi nocivi da quarantena in caso di mancata esecuzione delle prescrizioni di estirpazione di piante infette dagli organismi nocivi, è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria da euro 516 a euro 30.000. Gli ispettori fitosanitari o il personale di supporto, procedono all’estirpazione coattiva delle piante. Chiunque impedisce l’estirpazione coattiva è soggetto alla sanzione di cui al primo periodo, aumentata del doppio.

Questa norma va letta in relazione alla norma precedente, che stabilisce deroghe alla normativa ordinaria e concede pieni poteri al servizio fitosanitario nazionale e, di conseguenza, ai servizi fitosanitari locali. Dunque, secondo il combinato disposto delle due norme, qualsiasi soggetto autorizzato dal servizio fitosanitario può, per esempio, accedere al mio fondo senza comunicarmi alcunché, effettuare i campionamenti ed emettere un provvedimento di estirpazione. Se io mi oppongo, perché – per esempio – sto seguendo dei protocolli scientifici alternativi a quelli imposti dalla normativa emergenziale (che si basano, lo ribadisco, su concetti antiscientifici), con l’obiettivo di curare le piante, sarò costretto o ad abbattere oppure a pagare una sanzione che va da 516 a 30 mila euro e mi vedrò comunque abbattere le piante coattivamente.

Tra l’altro la norma prevede anche un provvedimento liberticida contro il sacrosanto diritto di critica e di manifestazione pacifica, perché è previsto il doppio della sanzione contro tutti coloro (non solo proprietari, tutti) che si oppongono agli abbattimenti, in qualunque modo. La norma è una chiara reazione autoritaria nei confronti di quelli che, finora, hanno legittimamente manifestato nelle campagne per evitare gli abbattimenti. La norma va letta in relazione anche al decreto sicurezza, voluto da Salvini, che reintroduce il reato di blocco stradale (depenalizzato nel 1999) ed eleva la pena detentiva da 2 a 12 anni (chiedetelo ai pastori sardi, che prima sono stati illusi e poi…denunciati). Chiaramente qualunque forma di protesta può includere, anche incidentalmente, il blocco stradale. E’ sufficiente anche solo sostare lungo una strada pubblica, durante una manifestazione, per essere denunciati e rispondere del suddetto reato.

Comma 3 art. 18-bis – Forme di pubblicità idonee. Ossia eliminare il diritto di difesa

Il comma 3 dello stesso articolo 18-bis dispone che la comunicazione dei provvedimenti di emergenza fitosanitaria, che dispongono le misure fitosanitarie obbligatorie, può essere effettuata anche mediante forme di pubblicità idonee, secondo le modalità e i termini stabiliti dal Servizio fitosanitario competente per territorio. La medesima disposizione prevede altresì che, effettuate le forme di pubblicità di cui sopra, gli ispettori o gli agenti fitosanitari ed il personale di supporto muniti di autorizzazione del Servizio fitosanitario, ai fini dell’esercizio delle loro attribuzioni, accedono comunque ai fondi nei quali sono presenti piante infettate dagli organismi nocivi, al fine di attuare le misure fitosanitarie di emergenza. A tale scopo, i Servizi fitosanitari competenti per territorio possono chiedere l’ausilio della forza pubblica.

Oltre il danno anche la beffa. Perché non solo si effettuano pesanti deroghe alle normative ordinarie (e tra poco ne vedremo altre, ancora più gravi), non solo si restringe fortemente il diritto di proprietà, non solo si lede il diritto di difesa e contraddittorio da parte del proprietario terriero, ma si dice che tutti i provvedimenti (inclusi quelli di abbattimento) non vanno più notificati personalmente agli interessati, ma possono essere pubblicizzati con “forme idonee”.

Cosa sono queste forme idonee? Per esempio l’affissione del provvedimento presso l’albo pretorio del Comune in cui insistono gli alberi da abbattere. E, fatto ciò, gli agenti del servizio fitosanitario possono accedere al fondo ed attuare le misure.

Quindi può accadere una situazione del genere: il servizio fitosanitario emette un provvedimento di abbattimento, lo pubblica sull’albo pretorio (che, si sa, notoriamente tutti i cittadini consultano diligentemente ogni mattina, appena svegli, mentre sorseggiano un caffè), poi va nel mio fondo, abbatte gli alberi e contestualmente mi sanziona pure! Se io mi oppongo, loro mi rispondono che, per legge, hanno notificato il provvedimento e io non mi sono adeguato. Se gli dico che non ne sapevo nulla o che mi serve tempo per impugnare il provvedimento, mi diranno che quest’ultimo è dato per notificato perché pubblicato con forme idonee e che le deroghe consentono loro di evitare le impugnazioni. Quindi mi troverò all’oscuro di tutto, con una sanzione da pagare e con gli alberi abbattuti.

Art. 8 Comma 2 del Decreto Emergenze

Eliminare gli ulivi monumentali con facilità

In questa disposizione si abroga l’art. 1, comma 661, della legge n. 145/2018 la quale prevede che agli ulivi che insistono nella zona infetta (di cui alla decisione di esecuzione 917 del 2018), ossia in tutta la Provincia di Lecce, la Provincia di Brindisi, buona parte della Provincia di Taranto e nel comune di Locorotondo (BA) non si applicano le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 9 del decreto ministeriale 23 ottobre 2014, recante “Istituzione dell’elenco degli alberi monumentali d’Italia e principi e criteri direttivi per il loro censimento”.

In altre parole, con questo panegirico giuridichese fatto di rinvii di norme, si dice che è possibile ora abbattere gli ulivi monumentali o irrorare di pesticidi i terreni in cui insistono, anche nella zona infetta, ossia in quella zona che, stante le normative attuali, non essendo più possibile eradicare il batterio, non è più necessario abbattere gli ulivi, anche monumentali, i quali sono tutelati dalla norma sopra indicata. Con l’abrogazione di questa norma, quindi, l’Amministrazione comunale può procedere all’abbattimento previa consulenza con chi? Con il servizio fitosanitario regionale.

Quindi è importante sapere che anche nella zona infetta, dove non vige(va) l’obbligo di abbattimento, sia i comuni che i proprietari possono abbattere, ma per questi ultimi sono previste ulteriori norme che analizzeremo nel prosieguo dell’articolo.

Qui basti citare, giusto per capirci, un rapporto sull’olivicoltura pugliese promosso da Confagricoltura Puglia nel 2012 (si trova qui), in cui si legge testualmente: “Gli ulivi monumentali oltre a rappresentare un vincolo di tipo tecnico-economico, a seguito degli ultimi provvedimenti regionali si configurano come un vero e proprio vincolo normativo. Infatti, proprio in relazione al valore ambientale e culturale degli oliveti pugliesi, la Regione Puglia ha voluto tutelare, con la legge regionale n. 14 del 2007 gli alberi di ulivo secolare che presentano caratteri di monumentalità. Tale legge obbliga di fatto gli olivicoltori, senza corresponsione alcuna, a regimi produttivi non remunerativi, limitando fortemente la capacità di sviluppo imprenditoriale, nel nome di benefici (ambientali, culturali, paesaggistici, ecc.) di cui gode la società intera”. Questo passaggio va letto parallelamente alla critica, da parte di Confagricoltura, sulle attuali tecniche di produzione dell’olio, specie nel Salento, che non sarebbero efficienti e competitive, poiché scarsamente industrializzate. Leggere queste considerazioni alla luce dell’attuale norma che prevede gli espianti semplificati e i reimpianti di specie resistenti (tra poco lo vediamo meglio), fa capire quali siano le reali intenzioni della normativa in oggetto.

Art. 8 Comma 3 del Decreto Emergenze

la norma incostituzionale che elimina ogni forma di tutela

Il comma 3 dell’articolo 8 prevede che all’art. 6, comma 4, del D.Lgs. 152/2006, (Testo unico in materia ambientale), sia aggiunta una nuova lettera, al fine di prevedere l’esclusione, in aggiunta a quelle già previste, dall’ambito di applicazione del testo unico, dei “piani, i programmi e i provvedimenti di difesa fitosanitaria adottati dal Servizio fitosanitario nazionale che danno applicazione a misure fitosanitarie di emergenza”.

Questa è la norma più gravemente lesiva dei diritti fondamentali delle persone che vivono nel territorio interessato dall’emergenza.

In altre parole si esclude la Valutazione Ambientale Strategica (VAS), la quale è obbligatoria per tutti i piani e i programmi che possono avere ricadute sull’ambiente e sulla salute.

Detto in termini più semplici, si potrà fare qualsiasi cosa senza il vincolo dell’impatto sull’ambiente o sulla salute umana delle misure fitosanitarie adottate. Quindi anche se si dimostrasse che, per esempio, irrorare i campi con erbicidi e insetticidi, provoca il tumore a chi abita intorno, lo si farà lo stesso, perché la norma prevede che la valutazione d’impatto è esclusa in caso di emergenze fitosanitarie. E ciò è ancora più grave in un territorio, come quello salentino, interessato da forti inquinamenti dei terreni e dell’aria (provocati dall’ex ILVA, dalla centrale a carbone di Cerano, ecc.) che ogni anno aumentano l’incidenza tumorale in molte zone del territorio.

Con questa deroga, quindi, tutto ciò che decide il servizio fitosanitario nazionale, incluso l’uso di pesticidi pericolosi per la salute umana, non è soggetto ad alcun controllo, ad alcun contraddittorio e ad alcuna valutazione di pericolosità. Del resto è palese che dall’enorme mole di documentazione prodotta finora (normative, documenti tecnici, audizioni, report, ecc.) emerga sempre la necessità di utilizzare erbicidi ed insetticidi per controllare gli insetti vettori del batterio. Tutto ciò è però in aperto contrasto con una buona parte della comunità scientifica che sostiene, invece, che l’uso di questi prodotti sia non solo dannoso per la salute umana, animale e vegetale, ma sia anche una fonte di aumento del problema dei disseccamenti, in quanto provoca un maggior impoverimento della materia organica del suolo e, di conseguenza, una maggiore debolezza della pianta, facilmente attaccabile da svariati patogeni (non solo dal batterio).

Tra l’altro se dovesse passare questo modello emergenziale così come imposto nella Puglia meridionale, con il pretesto di una fitopatia si potrebbe abrogare di fatto il testo unico ambientale in tutta Italia e dare al servizio fitosanitario centrale (controllato dal Ministero e le cui nomine sono di gestione lobbystica) il potere di fare qualunque cosa senza alcun controllo.

Del resto la logica che sta a fondo del decreto emergenze porta a considerare le fitopatie (che nascono nel mercato globale) e i cambiamenti climatici in atto come stati emergenziali da risolvere con strumenti emergenziali, in deroga a qualsiasi norma ordinaria. Quando in realtà cambiamenti climatici e fitopatie sono in atto, non sono reversibili e quindi vanno affrontati con provvedimenti strutturali e largamente condivisi da tutte le parti in causa: politica, industria, università, scienza indipendente, associazionismo, portatori d’interessi diffusi, sindacati, enti locali, ecc.

Articolo 8-bis del Decreto Emergenze

Modifica all’articolo 54 del D.Lgs. 214/2005 – Ossia normare la delazione

L’articolo 8-bis modifica il comma 5 dell’articolo 54 del D.Lgs. 214/2005 prevedendo, nella parte innovativa, un’apposita sanzione in caso di violazione degli obblighi di comunicazione da parte di chiunque venga a conoscenza della presenza di organismi nocivi. La sanzione introdotta consiste nel pagamento di una somma da euro 516 ad euro 30.000.

Non si sa come si realizzerà nella pratica questa norma. Se, passeggiando per le campagne e trovando un albero secco, non denuncio, come faranno a sanzionarmi?

In realtà la norma è chiaramente un invito alla delazione, con lo spauracchio della sanzione, e quindi avrà tre finalità: La prima. Uno strumento in mano ai sindaci per terrorizzare la popolazione; la seconda. Uno strumento per limitare la ricerca scientifica e le sperimentazioni indipendenti; la terza. Un modo per terrorizzare tutti i laboratori d’analisi che, per paura della sanzione, non faranno analisi indipendenti sugli alberi e saranno quindi costretti a comunicare al servizio fitosanitario competente la presenza di qualsiasi organismo nocivo.

Articolo 8-ter del Decreto Emergenze

Misure per il contenimento della diffusione del batterio Xylella fastidiosa

Comma 1 – Estirpiamo tutto

Questa norma prevede che per un periodo di sette anni, il proprietario, il conduttore o il detentore di terreni può estirpare, previa comunicazione alla regione, gli ulivi situati nella zona infetta, con esclusione di quelli ubicati nella zona di contenimento in deroga ad ogni disposizione vigente, anche in materia vincolistica nonché agli articoli 1 e 2 del decreto legislativo luogotenenziale 475/1945 (divieto di ingiustificato abbattimento degli alberi di ulivo).

Le deroghe sono pensate per eliminare ogni vincolo ambientale, paesaggistico, storico, ecc. e permettere agli olivicoltori di estirpare gli alberi senza alcun problema.

Va ribadito che nella c.d. zona infetta le estirpazioni non sono obbligatorie, ma questa norma le facilita ed elimina la burocrazia scomoda. Questa norma va letta in combinato disposto con l’art. 8-quater, che analizzeremo tra poco, nonché con le politiche delle associazioni di categoria di eliminare i mezzi di produzione obsoleti a vantaggio di quelli competitivi, ossia tendenti alle produzioni super-intensive.

Comma 3 – contributi ai comuni

Il comma 3 aggiunge, tra le finalità per le quali possono essere concessi contributi ai comuni per l’anno 2019, quella relativa agli interventi finalizzati al contenimento della diffusione della Xylella fastidiosa previsti dal decreto del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali del 13 febbraio 2018.

I contributi previsti dalla legge di bilancio per il 2019, finalizzati ad investimenti per la messa in sicurezza di strade, scuole, edifici pubblici e patrimonio culturale (che il M5S ha tanto sbandierato), saranno così vincolati anche all’impegno, da parte delle amministrazioni comunali interessate, di contenere la diffusione del batterio anche con l’ausilio di pesticidi (come già detto) pericolosi per la salute umana.

Comma 4 – Norma pro-bioeconomia

Il comma 4 prevede che la legna pregiata che deriva da capitozzature e espianti, se è destinata a utilizzi diversi dall’incenerimento, può essere stoccata anche nei frantoi, se questi ne fanno richiesta alla Regione. Le parti legno prive di ogni vegetazione e provenienti da piante risultate positivo al batterio della Xylella possono essere liberamente movimentate all’esterno dell’area delimitata.

La norma è chiaramente finalizzata all’utilizzo della legna per le biomasse e, più in generale, per quel progetto di respiro europeo inserito nell’ambito delle politiche sulla bioeconomia, di cui ho accennato brevemente in quest’articolo. In altre parole la legna sarà utilizzata per la produzione di energia elettrica, ma anche per produzioni industriali alternative alle fonti fossili (ossia la plastica) che deriveranno, invece, da fonti rinnovabili (ossia da prodotti agricoli) e non è un caso che proprio a Bari sia stato presentato il quinto rapporto dedicato alla bioeconomia in Europa da parte di Intesa Sanpaolo e Assobiotec, come non è un caso che le varietà di alberi previste per le produzioni super-intensive (di cui parleremo tra poco) abbiano un ciclo di vita di circa 10/12 anni, quindi destinate all’economia circolare (in cui entrano solo le industrie, dato che sono antieconomiche per i piccoli produttori) e ad alimentare il sistema nascente di bioeconomia, in cui Coldiretti è in prima linea, avendo già stipulato un patto con Eni anche in materia di produzione di biogas agricolo.

Quest’argomento, che andrebbe trattato con un articolo a parte, è molto importante, perché apre la strada all’utilizzo distorto della terra: non più destinata a soddisfare i bisogni alimentari, ma quelli industriali. E quando una grande azienda agricola si troverà davanti alla scelta di optare per la produzione di bioplastiche ad alto profitto o per continuare la produzione alimentare con bassi margini, cosa sceglierà?

Articolo 8-quater del decreto emergenze

(Piano straordinario per la rigenerazione olivicola del Salento)

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Non si possono analizzare tutte le norme precedenti senza leggerle in relazione con l’art. 8-quater, fortemente voluto dagli industriali e dalle associazioni di categoria per eliminare l’ingombro delle piante non produttive, efficientare i sistemi di produzione e commercializzazione dell’olio d’oliva, essere competitivi sul mercato globale sia in termini di costi che di brand commerciali nonché, cosa più importante, ottenere ingenti quantitativi di scarti (cioè alberi) da utilizzare nel ciclo della bioeconomia circolare.

Dalle premesse del dossier sulle modifiche al decreto Emergenze si evince che si vuol puntare sulla competitività con paesi che hanno optato per produzioni superintensive.

Difatti si legge nel testo che “rimane negativo il confronto dei prezzi dell’extravergine su base annua anche per la pressione determinata dal mercato spagnolo che, di contro, può contare su una campagna produttiva abbondante. Secondo le ultime stime, la produzione iberica sfiora infatti 1,6 milioni di tonnellate (24%) sul 2017, determinando una flessione dei listini spagnoli e condizionando anche il mercato greco e tunisino, dove invece la produzione è prevista in calo di oltre il 30%”.

Quindi per capire le logiche che stanno dietro l’art. 8-quater del decreto emergenze bisogna conoscere il progetto di sostituzione degli ulivi (in particolar modo secolari, tutelati da diverse norme, almeno fino ad oggi) con specie più produttive. Ma per farlo, queste specie devono essere considerate resistenti al batterio, altrimenti non si può giustificare la sostituzione e non si può accedere alle ingenti risorse messe in campo dal Ministro Centinaio.

Sempre citando il report di Confagricoltura del 2012, si legge: “La produttività delle aziende olivicole pugliesi è, in molti casi, fortemente condizionata dalla rigidità strutturale connessa alla diffusa presenza di piante secolari. Queste, spesso aventi un carattere monumentale, male si conciliano con un esercizio efficiente e redditizio. I costi di produzione sono proibitivi per queste realtà aziendali, specie per le aziende che puntano alla qualità”.

Non è un mistero che tutte le Associazioni di categoria, in questi anni, hanno sfruttato la questione Xylella per chiedere una ristrutturazione del comparto olivicolo, generando il cavallo di battaglia della resistenza di piante non autoctone, tra cui la specie Leccina e FS-17 (anche detta Favolosa) e altre specie non italiane che in futuro si potranno dimostrare – sulla base di presunte sperimentazioni di campo e senza rilievi scientifici – resistenti. Ciò aprirà le porte all’introduzione di specie ancor più economiche (nelle logiche delle economie di scala) e utilizzabili con modalità ancora più intensive, modalità che tra l’altro prevedono un massiccio utilizzo di risorse fondamentali (tipo l’acqua) di cui la Puglia non dispone.

Giusto per fare un esempio su come si dia estrema importanza al progetto di sostituzione degli ulivi, in una recente audizione presso la Camera dei deputati (dicembre 2018), Giacomo Carreras, presidente dell’Ordine dei dottori agronomi e forestali della provincia di Bari ha evidenziato che la sostituzione degli esemplari espiantati con varietà tolleranti o resistenti alla Xylella fastidiosa (tolleranza o resistenza che scientificamente non è mai stata provata) già presenti sul mercato come la Leccino o la FS-17, consentirebbe la creazione di barriere naturali in grado di ostacolare la diffusione del patogeno. Stessa opinione del prof. Pierfederico La Notte, di David Granieri, presidente dell’Unione nazionale tra le associazioni di produttori di olive (Unaprol), di Gennaro Sicolo, presidente del Consorzio nazionale olivicoltori (CNO), Elia Pellegrino, vicepresidente dell’Associazione italiana frantoiani oleari (AIFO) e Luigi Canino, presidente dell’Unasco.

Addirittura, sempre nella stessa audizione, Maria Lodovica Gullino, presidente della Società italiana di patologia vegetale, ha persino paventato l’ipotesi di rafforzare le tecniche di miglioramento genetico nei confronti degli ulivi resistenti proponendo correzioni sul genoma delle piante. Ciò rende la paura di molti, che parlavano di ulivi OGM (e venivano presi in giro da larghe fette di opinionisti), meno complottistica e più concreta.

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Ulivo di specie Leccina, secco (Gallipoli, LE)

Non è un caso che, sempre citando il report di Confagricoltura, “La bassa produttività degli oliveti pugliesi rappresenta un grave freno alla ripartenza del settore: l’enorme patrimonio olivicolo tradizionale non è in grado di reggere il passo con i moderni modelli superintensivi di altre realtà produttive. Qui è necessario fare una scelta: privilegiare i valori culturali e paesaggistici degli oliveti o quelli strettamente economico-produttivi? La Regione Puglia, con gli ultimi provvedimenti sulla tutela degli ulivi monumentali, sembra aver deciso per la prima opzione, così come ha deciso che debbano essere gli olivicoltori a farsi intero carico del costo sociale di tale scelta. La ristrutturazione degli oliveti obsoleti è un passaggio imprescindibile per la sopravvivenza del comparto: gli attuali costi di produzione e la produttività in campo non sono compatibili con un’olivicoltura redditizia.”

E’ questo l’obiettivo ormai non più nascosto: adattare l’ambiente al profitto e non viceversa. Ed è questo l’obiettivo del decreto Emergenze: rendere facili gli espianti di ulivi non produttivi e favorire, attraverso finanziamenti ad hoc, gli impianti di ulivi più produttivi, ossia super-intensivi.

Gli effetti del decreto, però, apriranno la via a quello che molti definiscono un nuovo latifondo, poiché i tanti piccoli proprietari di uliveti, quando si vedranno espiantare gli ulivi (con le modalità antidemocratiche e autoritarie che abbiamo visto prima) – complice anche il disinteresse verso la terra da parte di molti – preferiranno svendere i propri terreni. A chi? A chi ha ingenti risorse finanziarie per acquistarli, risorse derivanti anche da finanziamenti pubblici, a cui potranno accedervi in pochi.

Difatti l’art. 8-quater del decreto emergenze prevede una dotazione finanziaria del Piano pari a 300 milioni di euro per gli anni 2020 e 2021 e riguarderà, guardacaso, la zona infetta (comma 1), ossia quella zona che, sempre stando al report di cui sopra, soffre le maggiori criticità in termini di efficienza produttiva: le province di Lecce e Brindisi.

Ma altre risorse sono previste da parte del PSR Puglia 2014-2020 o dal Fondo per lo sviluppo e la coesione che, tra l’altro, prevede una dotazione complessiva di 6.351 milioni nel 2019, 6.850 milioni nel 2020 e 7 miliardi nel 2021. Parte di queste ingenti risorse saranno destinate alla concretizzazione dei programmi di cui sopra (bioeconomia, ristrutturazione del comparto agricolo, ecc.). E chi gestirà questi finanziamenti sul territorio? La risposta pare scontata.

Mi auguro che da questa lunga e a tratti ostica lettura del decreto emergenze si sia capito che qui non si parla di complottismi, ma di un’analisi obiettiva di fatti e norme, che vanno letti organicamente e che la prospettiva delle azioni venture, da parte dell’industria, secondo la logica del profitto e in un regime di oligopolio, porterà presto all’espropriazione di fatto delle terre, a un profondo mutamento delle economie dei territori, con conseguente maggiore impoverimento di enormi masse di persone, e alla spoliazione dei più elementari diritti democratici, in primis quello alla salute.

Da qui il mio invito a ripensare l’agricoltura secondo un modello socializzato e orizzontale.

Un centinaio di false emergenze. Parte I – Il latte

Affrontare problemi strutturali con metodi emergenziali, derogare alle norme ordinarie in materia di salute e ambiente, aiutare finanziariamente i grandi e lasciare i piccoli fuori. Queste e tante altre le criticità del c.d. Decreto Emergenze, promosso dal Ministro Centinaio, ampiamente discusso in Parlamento e, addirittura, peggiorato rispetto alla formulazione originaria, grazie agli emendamenti di M5S e PD, sia nelle commissioni (agricoltura e bilancio) che in aula.

Il testo, approvato alla Camera (e ora passerà in Senato per l’approvazione definitiva), si propone di sostenere le imprese agricole dei settori olivicolo-oleario, agrumicolo e lattiero caseario del comparto del latte ovi-caprino in quanto colpite da perduranti crisi a causa di problematiche legate al prezzo di vendita del latte, di eventi atmosferici avversi di carattere eccezionale e dalle infezioni di organismi nocivi ai vegetali.

Dunque il Decreto mira ad aiutare imprese che soffrono crisi perduranti nel tempo e dipendenti non da fattori contingenti ma strutturali.

Dov’è l’emergenza?

Già da questa prima contraddizione in termini s’intuisce l’inefficacia degli interventi e la finalità (non tanto) nascosta dei provvedimenti. Anzitutto è facile capire che i presupposti su cui si basa una misura emergenziale non ci sono affatto. Come recita il testo “il susseguirsi di calamità naturali dovute anche ai cambiamenti climatici” o “il perdurare degli effetti dei danni causati dagli eventi atmosferici avversi di carattere eccezionale e dalle infezioni di organismi nocivi ai vegetali” non sono situazioni emergenziali, bensì ormai abituali. Del resto già il termine cambiamenti climatici presuppone una situazione di fatto mutata o mutanda che va affrontata con strumenti normativi ordinari e non straordinari, dato che i cambiamenti climatici sono in atto, non sono di durata limitata, non sono reversibili (se non con lunghi e complessi interventi di riduzione delle emissioni a carattere globale) e vanno affrontati con un piano d’intervento non emergenziale bensì strutturale.

Come non è più un’emergenza la questione Xylella, poiché esiste ormai dal 2009 (anno delle prime segnalazioni dei disseccamenti degli ulivi) ed è stata già (infelicemente e infruttuosamente) gestita con metodi emergenziali nel 2015né può essere considerata un’emergenza la crisi del settore lattiero e caseario, poiché si basa sullo sfruttamento perdurante, continuo, costante e strutturale di un intero settore produttivo ad opera del mercato interno e globale.

Dov’è l’emergenza? Solo perché i pastori sardi si sono lamentati (l’hanno fatto anche nel 2003 con una protesta plateale, ma sono decenni che vivono queste condizioni di sfruttamento), allora si parla di emergenza? Solo perché i disseccamenti degli ulivi hanno toccato (e superato, ampiamente) la provincia di Bari e le Associazioni di categoria chiedono a gran voce di ristrutturare tutto il comparto agricolo a svantaggio dei piccoli produttori, si può parlare di emergenza?

La realtà è che il testo della Legge si muove in tre direzioni: la prima. Tutela solo gli industriali e le grandi associazioni di categoria. La seconda. Pone una longa manus statale sulla produzione casearia ma senza riconoscere alcun contributo ai pastori, per favorire gli accordi di filiera a vantaggio della grande distribuzione e delle banche. La terza. Per la gestione delle fitopatie, impone interventi che derogano ad ogni norma ordinaria (persino costituzionale!) posta a tutela della salute, dell’ambiente, del paesaggio e dei diritti fondamentali dei cittadini italiani.

Andiamo con ordine e affrontiamo prima il problema legato alla produzione del latte e poi la questione degli ulivi pugliesi in un articolo separato.

Il decreto tutela gli industriali

L’industria detta il prezzo e si specula sul pecorino romano.

Sapete quanto veniva pagato un litro di latte ovino e caprino ai pastori? In pochi anni si è passati da 1,05 € al litro a 0,85 € per poi arrivare a 0,56 € nel 2019. Mentre, in media, ai pastori sardi la produzione di un litro di latte costa 0,70 €. In poche parole nel 2019 andavano sotto di 14 centesimi per ogni litro prodotto. Ora capite perché durante le proteste preferivano buttarlo per strada? E chi detta il prezzo di mercato? Gli industriali. In altre parole l’industria del pecorino romano. I pastori vendono il loro latte alle aziende casearie che hanno rapporti con l’industria del formaggio e la Grande Distribuzione Organizzata (GDO), la quale ha rapporti con il mercato interno, europeo e americano.

Perché il prezzo è crollato?

Perché ci sono anni in cui si produce di meno (e il prezzo aumenta), mentre negli anni in cui si produce di più il prezzo scende. Ma se scende sotto il costo di produzione, qualcosa non va. Già. Non va perché ad un certo punto, quando il mercato americano ha aumentato la richiesta di pecorino romano, gli industriali hanno fatto cartello e hanno imposto il loro prezzo alle aziende casearie, le quali hanno fatto altrettanto nei confronti dei pastori. E i pastori, che per anni hanno conferito il latte nelle aziende casearie di fiducia, precludendosi in pratica ogni altra alternativa di vendita, che hanno dovuto fare? Hanno dovuto sottostare al prezzo imposto.

Lo spiego in altri termini. Io, pastore, ogni anno vendo 100 litri del mio latte all’azienda casearia X, che me lo paga 1050 €. Dato che mi costa 700 € per produrlo, mi restano in tasca 350 €. l’Azienda X produce il pecorino che vende agli industriali. Gli industriali dicono ai caseifici: “produci più formaggio, che la domanda è alta!”. E allora i caseifici dicono ai pastori: “fai più latte, che mi serve!”. I pastori quindi comprano più pecore e capre, producono più latte e fanno quanto gli è stato chiesto. Se un altro cliente gli chiede il latte per fare il formaggio, gli rispondono: “non posso, il caseificio X è il mio unico cliente”. Quindi, in poche parole, il pastore perde tutti i clienti, eccetto il caseificio X. Ma ad un certo punto il caseificio X dice ai pastori: “siccome c’è troppo latte in giro, i prezzi sono caduti, al massimo ti posso dare 56 centesimi al litro”. “Ma che dici?” risponde tutto agitato il pastore “così non copro nemmeno i costi!”. “Purtroppo a me hanno fatto questi prezzi e non posso andare oltre”, risponde il caseificio X. 

Siccome a soffrire dell’imposizione dei prezzi bassi è anche il caseificio X, quest’ultimo, per ridurre i costi di produzione è costretto a comprare il latte estero, che costa meno e che viene importato e venduto da quelle stesse aziende che fanno parte della GDO. Entrambi, aziende casearie e pastori, sono vittime. E’ chiaro che ci sono anche aziende che comprano il latte estero per speculare, ma ciò non influisce sul sistema di imposizione dei prezzi stabilito dalla grande industria.

E così siamo arrivati a oggi.

Morale della favola? Il mercato viene controllato da poche persone che gestiscono il grosso della filiera. E così entra in scena il prode Salvini, che dice “aumenterò il prezzo di acquisto a 1 euro al litro!”. Questo prima delle elezioni regionali in Sardegna. Poi dopo le elezioni si scopre che l’accordo tra industriali, caseifici e pastori, arriva a 72 centesimi al litro. Ai pastori, quindi, restano solo 2 centesimi. E’ una presa in giro. Ma non l’unica! L’ennesima presa in giro arriva dal decreto Emergenze.

Il Decreto Emergenze tra illusioni e certezze

Per il settore lattiero caseario il decreto stanzia due tipi di fondi:

Un fondo di 10 milioni di euro per sostenere i contratti e promuovere gli interventi dei regolazione dell’offerta di formaggi ovini DOP e un fondo di 5 milioni di euro per la copertura, totale o parziale, dei costi sostenuti per gli interessi sui mutui bancari contratti, entro il 31 dicembre 2018, dalle imprese che operano nel settore del latte ovino caprino. Anzitutto i fondi sono destinati alle imprese ed escludono tutti quei piccoli allevatori senza P.IVA che, per vendere, si iscrivono ad una cooperativa la quale, spesso, è gestita come un’azienda di fatto, quindi a trarre vantaggio dai contributi non saranno i soci, ma solo i titolari della cooperativa. Ai soci, forse, pagheranno un prezzo un po’ più alto, grazie al contributo pubblico.

La cosa più grave, però, è che queste misure non intaccano minimamente il sistema su cui si basa l’ingiustizia di fondo: ossia che i prezzi sono dettati dagli industriali non in un regime di libero mercato né in un regime di mercato controllato dallo Stato, ma in un regime di oligopolio.

In altre parole si stanno buttando soldi pubblici per mettere a tacere per qualche anno le lamentele delle piccole aziende del settore, le quali avranno quindi più soldi (pubblici) per pagare (forse) un po’ di più il latte ai pastori, ma quando i rubinetti si chiuderanno, il sistema tornerà ad essere lo stesso di sempre. E la cosa più grottesca è che quei soldi (pubblici) ritorneranno sotto altra forma nelle mani degli industriali, in quanto una parte dei costi verranno pagati con soldi (pubblici) e si potrà speculare sul prezzo al ribasso del pecorino, esattamente come accade oggi.

Anche quei 5 milioni destinati a ripagare gli interessi bancari sono soldi (pubblici) che andranno a finire nelle mani delle banche (amiche degli industriali). E così saranno tutti contenti, eccetto i pastori e le piccole aziende casearie, le quali con questo decreto avranno anche l’onere di segnalare al Sistema informativo nazionale (SIAN) i quantitativi di latte ovino e caprino e il relativo tenore di materia grassa consegnati loro dai singoli produttori nazionali, i quantitativi di latte e i prodotti lattiero-caseari semilavorati introdotti nei propri stabilimenti ed importati da altri Paesi dell’Unione europea o da Paesi terzi.

Come al solito a pagare il prezzo più alto saranno le piccole aziende, le quali si vedranno comminare multe salatissime (da 5.000 a 20.000 €) se non adempieranno. Si colpisce, in questo modo, l’effetto del problema e non la causa. L’effetto è semplice: se gli industriali impongono un prezzo troppo basso, le piccole aziende devono per forza ridurre i costi. Se invece si va a incidere sulla formazione del prezzo a monte, allora è lì che si ottengono i risultati, ma si sa, la Lega è amica degli industriali, non dei pastori. Mentre il M5S viene controllato da soggetti economici che hanno bisogno degli industriali per prosperare, quindi non possono calpestargli i piedi.

Solo con l’autoproduzione si esce dalla crisi

Sia per i pastori sardi che per gli olivicoltori pugliesi l’unica soluzione è l’autoproduzione, ossia costituire una filiera orizzontale, tra i vari produttori e trasformare da se i prodotti, utilizzando canali alternativi di vendita. Per approfondire leggi il contributo per una nuova riforma agraria.

Leggi anche l’approfondimento sul Decreto Emergenze in relazione alla questione Xylella in Puglia.