Art. 7 del DL Fiscale e ASD

ASD Monviso-Venezia

In queste concitate ore la Lega ha finalmente trovato un accordo con il M5S in tema di condoni. Come ha osservato il Presidente Conte, si è trattato di un ravvedimento operoso nei confronti di una bozza di Decreto che regalava molte concessioni ad evasori fiscali e, probabilmente, anche alla criminalità organizzata. Tutto ciò fino a … Leggi tutto

Autonomia Veneto, la secessione è qui (ed è pericolosa)

veneto

Breve e semplice analisi della proposta di legge per maggiori forme di autonomia della Regione Veneto.  Con una proposta di legge ordinaria, al vaglio del Parlamento già a fine ottobre, il Veneto porta a compimento la prima fase di quello che appare essere a tutti gli effetti un processo di secessione di fatto (domani chissà, … Leggi tutto

Assemblea PD. Renzi e l’egemonia che si perde in 2 mesi.

Renzi Assemblea PD

Breve analisi dell’intervento di Matteo Renzi nell’Assemblea PD e di come per lui l’egemonia sia una cosa che si perde in due mesi.

Ho avuto modo di seguire buona parte degli interventi dell’Assemblea Nazionale del PD, incluso quello di Matteo Renzi.

Dalle mie parti c’è un proverbio che recita: “quannu lu ciucciu nu bole cu ‘mbie magari ca fischi!”, che, tradotto, significa: “quando l’asino non vuole bere è inutile fischiare”.

Per me rappresenta un po’ la sintesi di quanto è avvenuto in seno all’assemblea, dove sono stati tanti gli interventi critici, lucidi e ponderati, volti a riflettere sulle debolezze del partito e sulle possibili soluzioni per la sua ripresa, ma dove buona parte della platea ha accolto con freddezzadistacco le critiche e le proposte mentre ha applaudito con ovazioni da stadio l’intervento (a tratti banale ed eccessivamente egocentrico) dell’ex premier Matteo Renzi. Se il PD non vuole bere, è inutile fischiare!

Il discorso di Renzi all’Assemblea PD

Renzi, nel suo discorso, si è attribuito vaghe e indefinite responsabilità nel fallimento del suo partito, ma in sostanza ha dato la colpa ad altri aspetti: la scarsa presenza sui social da parte del PD, i toni troppo sobri in campagna elettorale, la mancanza di coraggio nel prendere decisioni sullo Ius Soli e sull’abolizione dei vitalizi nonché il non aver rinnovato la classe dirigente al Sud. Ha anche attribuito grandi responsabilità alla minoranza del partito, che, a suo dire, gli ha remato contro.
Il discorso di Renzi, sin dall’inizio, trasudava ego da tutti i pori, arrivando anche a dire che mai, nella storia, un partito come il suo è stato tanto egemone da conquistare addirittura 17 regioni su 20 e il 41% dei consensi.

“Nessun partito ha mai avuto il potere che abbiamo avuto noi in questi anni in Italia”.

Questo lo diceva con una punta d’orgoglio e con enfatico entusiasmo, come a voler dire che è grazie a lui che il PD, negli anni scorsi, è stato egemone. La realtà però è sotto gli occhi di tutti e si dev’essere davvero ingenui a pensare che l’attuale situazione in cui si trova il PD è figlia del contingente e non, invece, di una lenta erosione, che trova le sue origini in un lontano passato ma inizia ad essere percettibile proprio nel periodo in cui il PD, in preda alla crisi dei partiti e alla nascita dell’antipolitica, viveva i suoi più gravi momenti di debolezza.
Fu in quel periodo che Renzi, forte del suo processo di rottamazione (grottescamente figlio anch’esso dell’antipolitica) imponeva la sua egemonia all’interno del partito, credendo ingenuamente che la sua egemonia tra le mura del PD s’instillasse in tutta Italia e plasmasse le coscienze di quella popolazione che credeva di poter modellare con i suoi discorsi unti all’olio di oliva.

“Per quattro anni il PD è stato l’argine del populismo in Italia. E se non avessimo fatto quello che abbiamo fatto nel 2014 l’ondata populista ci avrebbe sommersi”.

Anche questa frase trasuda tracotanza, dimostrando di non aver compreso che, invece, quei quattro anni sono serviti ad alimentare la demagogia dei suoi avversari in Italia e hanno contribuito a creare lo scollamento tra la sinistra nominalistica (il PD) e la popolazione che, poi, si è palesato alle ultime elezioni. In quei quattro anni il M5S ha rafforzato la sua presenza in rete e nei territori e la Lega ha dato maggior potere e struttura alle sue sedi territoriali e maggiore visibilità al suo leader, che incessantemente ha divulgato la sua linea politica girando in lungo e in largo per l’Italia e usando sapientemente i mezzi d’informazione.

Renzi e l’egemonia persa in due mesi

“Noi l’egemonia l’abbiamo persa tra maggio e giugno 2017, dopo le primarie”.

Questa frase, secondo me, rappresenta la summa dell’inadeguatezza renziana.
Come se l’egemonia fosse un abito che s’indossa e si dismette dall’oggi al domani. L’egemonia è un sistema di comando e controllo, culturale e politico, che si costruisce nel tempo e nel tempo si perde e che ha bisogno di un riscontro reale e di una sovrastruttura ideologica, creata dalla classe politica dominante per mezzo della propaganda ma soprattutto da quelli che Gramsci definiva intellettuali organici, cioè quegli intellettuali che difendono e rafforzano il potere della classe politica dominante.
Renzi non si è ancora reso conto che il PD ha perso la sua egemonia già molto prima della sua scalata politica e che i segnali – deboli ma inequivocabili – erano palesi già da diversi anni, più o meno dagli anni della rottamazione e dello sviluppo dell’antipolitica.

Perché se n’è accorto solo ora? Perché nella sua analisi politica ha tenuto presente solo i risultati delle elezioni scorse, non considerando che in un sistema bipolare, fino all’avvento del M5S e fino alla conclusione dell’opera di rafforzamento della Lega da parte di Salvini, non esistevano alternative valide al PD.

Per lungo tempo votare il meno peggio era una sorta di costrizione ideologica da parte dell’elettorato più riflessivo, mentre s’allargava sempre più la platea dell’astensionismo.

Del resto, negli anni scorsi, con un Centro-Destra frammentato dalle beghe interne e da diverse scissioni, il PD aveva vita facile, anche se il partito fino ad allora dominante era il partito dell’astensionismo. Oggi l’astensionismo ha lasciato il passo al M5S e alla Lega.

Come dimenticare le elezioni regionali in Emilia Romagna nel 2013 dove l’affluenza fu solo del 37%? Renzi allora cantò vittoria, ma ottenere il 49% del 37% degli aventi diritto al voto non può essere considerata una vittoria. Formalmente lo è, ma politicamente è una pesantissima sconfitta.
Quindi un Renzi che ritiene che il PD abbia perso la sua egemonia in un paio di mesi è un personaggio che le analisi proprio non le sa fare, offuscato com’è dalla sua immagine (tutta personale) di grande statista e grande comunicatore.

Il M5S

A proposito di analisi, vorrei soffermarmi un attimo su un altro punto del suo discorso, cioè quello in cui considera il M5S “la vecchia destra” (con tanto di applausi) e, addirittura, “una corrente della Lega”.
Ora vorrei fare un’ovvia considerazione, ossia che il M5S, attualmente, non rappresenta ideologicamente né una destra né una sinistra ma è interclassista esattamente come la popolazione che rappresenta.

Nel momento in cui si ricostruirà un fondo di coscienza tra i poveri, i precari e gli sfruttati in genere (che in Italia sono la maggior parte, più di quanto l’ISTAT evidenzia) nonché un terreno culturale in cui far crescere la propria consapevolezza e, soprattutto, quando si porrà un freno al dilagare di quell’analfabetismo funzionale che, invece, è il terreno ideale in cui proliferano i nazionalismi e le demagogie più becere, forse solo allora si potrà tornare a parlare di sinistra e, di conseguenza, di destra come antitesi ai valori dell’equità e della giustizia sociale.
Questa è un’operazione che spetterebbe a quegli intellettuali organici che, invece, oggi sono tutti preda del radicalismo fricchettone qualunquista, per cui si riempiono la bocca di concetti come umanità e accoglienza nei confronti dei fenomeni migratori (senza curarsi di interrogarsi sulle cause e gli effetti) e ignorano volutamente l’opinione pubblica bollandola come ignorante, xenofoba e razzista. Insomma, gli intellettuali di oggi non fanno altro che alimentare il nazionalismo e allontanare la gente comune dalla ragionevolezza politica.

Quindi da un lato gli intellettuali hanno smarrito la propria funzione e dall’altro lato uno come Renzi liquida subito il fenomeno 5 Stelle come un movimento di destra, senza curarsi di ragionare sulla sua composizione così multiforme, liquida e orizzontale e sulle cause che hanno spinto un movimento così scoordinato e di recente costituzione a diventare la prima forza politica in Italia.
In altre parole, invece che scusarsi davanti alla platea per aver fatto perdere al PD la sua egemonia culturale (che, però, come detto, in realtà hanno perso da molto tempo) e per non essere stato capace di gestire il malessere di una popolazione che ha dato la responsabilità ai fenomeni migratori (quando, invece, la responsabilità è di un sistema economico-finanziario malato e volto a creare disuguaglianze), ha liquidato subito il consenso del M5S come qualcosa di destra.

Mai un cenno al fatto che la gente guarda al PD come al partito delle banche e quindi, di fatto, colpevole di essere uno strumento nelle mani del capitalismo finanziario globale; mai una critica ad un partito la cui linea politica è centralizzata e in mano a poche persone e in cui le periferie non contano granché. Niente. Nessuna critica, solo pura esaltazione contornata da vaghe ammissioni di responsabilità senza però alcun concreto effetto sulla futura linea di governo del partito. Del resto la riconferma di Martina a Segretario ne è la prova più evidente.

Le critiche

Andando a vedere gli altri interventi s’intravedono, infatti, alcune precise critiche nei confronti di un partito ormai congelato e incapace di analizzare la realtà socio-economica e di intraprendere il giusto percorso per correggere le storture di un capitalismo finanziario che sta producendo gravi danni alle economie e alla tenuta sociale degli Stati in cui ha avuto libero accesso e legittimazione politica. Altre critiche più puntuali hanno messo in luce lo scarso coinvolgimento della base da parte del partito e, soprattutto, il fatto che i circoli del PD non hanno alcun ruolo nel definirne la linea politica. Ragionamenti puntuali che mettono in rilievo il distacco del partito dai territori che, invece, dovrebbero rappresentarne la linfa vitale e il termometro politico.

Eppure queste critiche sono state accolte dalla platea con freddezza e un certo distacco.

Già, perché l’Assemblea PD è il prolungamento del suo vertice e ne rappresenta solo il contorno scenografico grazie al quale dimostrare davanti all’opinione pubblica che il PD è un partito democratico, in cui si discute e si detta insieme la linea politica. Nella realtà, però, non è così. La discussione c’è, ma l’egemonia di Renzi e del vertice (Martina, Orfini, ecc.) è tale che la discussione assume solo un ruolo formale. Le decisioni vengono prese da pochi e il resto del partito non conta.
Conterà solo alle primarie, quando si deciderà chi sarà il nuovo Segretario. Nemmeno il Congresso conterà molto. E poi la decisione di fare il Congresso e le primarie a ridosso delle elezioni europee del 2019 fa capire che alla Segreteria del PD non interessa conoscere l’opinione dei suoi iscritti e rimettere in piedi il partito, ma solo assicurarsi una riconferma dell’attuale vertice in prossimità delle elezioni europee. Il tempo sarà così breve che, giocoforza, si riconfermeranno le stesse persone.

E’ ovvio che con questi presupposti il PD non vedrà alcuna risalita e, anzi, continuerà a perdere consensi. Perché il consenso è figlio dell’egemonia, quella cosa che non si perde né si acquista in un paio di mesi o in congressi-farsa a ridosso delle elezioni.

Ecco perché Salvini è il politico più capace

salvini e fedriga

Il risultato elettorale in Friuli, che vede Massimiliano Fedriga con il 57% delle preferenze, non ci stupisce affatto. E non stupisce nemmeno il crollo del Movimento 5 Stelle che ha perso, in Friuli, quasi 15 punti percentuale rispetto alle scorse politiche. Non stupisce non perché, come qualcuno dice, ormai il M5S ha perso appeal tra l’elettorato. No, affatto. Il motivo è, banalmente quanto squisitamente, dipendente dall’ambito geografico, dal bacino elettorale nonché dal tipo di legge elettorale, ma soprattutto dal candidato, Fedriga, che rispecchia perfettamente la filosofia di fondo della Lega Nord di Salvini e ne ha assunto la capacità di linguaggio divulgativo e la lucida analisi della complessa (seppur schematicamente semplice) congerie culturale italiana d’oggi giorno.

E’ da questa capacità di analisi che parte il mio apprezzamento nei confronti di Matteo Salvini come figura politica e di tutti gli altri esponenti della Lega che, in questi anni, hanno saputo perfettamente leggere la realtà e trasformarla in slogan politici d’alto impatto. Sicuramente molti dei miei (pochi) lettori a questo punto staranno storcendo il naso oppure avranno già abbandonato la lettura. Poco importa. Chi avrà l’ardire di continuare capirà che personalmente non stimo né Salvini né la Lega Nord, che non li ho votati né credo che lo farei e, soprattutto, che la figura del politico che sa interpretare la realtà è molto distante dalla figura del politico che amministra un Paese. Da qui ne discende che occorre tener ben distinti i ruoli: non sempre la figura del politico analista e divulgatore coincide con la figura del politico amministratore. Quando avviene siamo di fronte allo Statista. Ma attualmente non credo ci siano figure tanto autorevoli nel panorama politico italiano.

Detto ciò e augurandomi di aver saputo comunicare la distinzione tra i due ruoli, non posso esimermi dal considerare Salvini un attento analista della realtà attuale. Chiunque voglia sconfiggerlo sul piano dialettico o affrontare l’ondata d’urto che la Lega prima o poi porterà nel tessuto sociale italiano dovrà anzitutto non minimizzare né demonizzare l’operato di Salvini, altrimenti ne uscirebbe sconfitto. Chi gli dà del fascista o del populista commette un ingenuo errore di valutazione.

Fermiamoci un attimo ad osservare com’è cambiata la realtà negli ultimi 40 anni.

Il mondo cambia. Superfluo documentare un fatto così grave e così esteso: cultura, costumi, ordinamenti, economia, tecnica, efficienza, bisogni, politica, mentalità, civiltà … tutto è in movimento, tutto in fase di mutamento. Così commentava Paolo VI già nel 1974 e, in una lucida analisi della realtà, si rendeva conto di come la Chiesa, ferma e rigida nei suoi immutabili dogmi, si allontanava sempre più dai propri fedeli, ormai ammaliati dai richiami edonistici del consumismo e chiusi nel proprio individualismo feroce. Sono proprio queste le chiavi di lettura che ci possono portare a scandagliare la realtà attuale e a capirne l’intima essenza: consumismo e individualismo. Il primo, giunto ormai a maturazione e figlio legittimo del pensiero unico capitalista, è la religione di tutte le religioni, è il mostro sacro per cui sono sparite – nel giro di 40 anni – intere civiltà. La Civiltà contadina, con i suoi miti e le sue regole sociali attentamente analizzati da De Martino, è stata sepolta e dalle sue ceneri è sorta un’Araba Fenice composta da un nuovo modello comportamentale: la divinazione del consumo.

L’individualismo, invece, che vede l’essere umano come monade isolata e come destinatario unico degli interessi della società del consumo, ha soppiantato le rigide e classiche forme sociali: la Civiltà contadina, come ho detto, è morta, com’è anche stata annichilita la borghesia, il ceto medio. Le classi sociali storicamente ben irreggimentate nelle loro concezioni della vita e della storia sono scomparse e al loro posto ha prevalso l’Ego. E’ chiaro che in questa liquidità della società (per usare un termine baumiano) è facile adeguarsi al conformismo di matrice capitalista, mosso dai costumi calati dall’alto, da efficaci quanto suadenti strategie di marketing (tradizionali e digitali) e improntato sulla regola aurea che muove ormai il mondo: vendere. In questo contesto la televisione, il mondo della musica, della cinematografia, i big della rete (Facebook e Google in primis che possono vantare anche l’arma della profilazione) persino lo sport sono fautori della religione delle religioni, in quanto propongono, anzi, persuadono gli utenti (non più persone) a fare del consumo un modello di vita. Da ciò ne discende che i comportamenti collettivi di massa altro non sono che forme nuove di interclassismo.

Apro una breve parentesi per spiegare meglio il concetto. Non è un caso che l’UNESCO, in questi ultimi 30 anni, abbia lanciato numerosi allarmi circa la scomparsa delle diversità culturali, ritenendo che la globalizzazione abbia disgregato il complesso coacervo culturale mondiale. La diversità culturale, minacciata dalla globalizzazione, è importante per l’Umanità quanto la biodiversità è importante in Natura. L’omologazione dei consumi, quindi, annienta le diversità e depaupera i gruppi sociali dei propri valori di riferimento, delle proprie millenarie credenze, dei miti e riti stratificati e trasmessi oralmente, delle convinzioni, della propria visione del mondo.

Inoltre non è un caso che Facebook, periodicamente, effettui esperimenti sociali per capire quante persone si conformano ad un certo richiamo. L’ho spiegato in quest’articolo. Questo lo fa periodicamente e in occasione di grandi eventi o eventi straordinari per capire quanto siano efficaci e pregnanti le proprie strategie ed, eventualmente, nell’ottica del miglioramento continuo, per modificarne i parametri.

La nuova cultura interclassista – o liquida sempre usando l’intuizione geniale di Bauman – si è quindi ormai imperniata sul modello consumista, tanto da aver naturalmente abiurato tutte le forme sociali del passato. In altre parole ha scelto il benessere, la qualità di vita migliore, l’automobile, il telefonino, il week-end al mare, i viaggi, la sicurezza del proprio patrimonio e della propria casa, insomma, il proprio modello di vita che potremmo definire liberal-consumistico. Che differenza c’è tra chi ha i mezzi per poter avere una vita agiata e chi invece non li ha? Una volta questo era un elemento del conflitto di classe, oggi invece il conflitto è sparito ed è stato soppiantato dal sogno di ottenere quei mezzi, a tutti i costi. Non più dal lavoro (non c’è) né dal sacrificio né tantomeno dal merito. Il merito viene allineato da una scuola nozionistica, in continua riforma (verso il basso) e con docenti svogliati, impreparati e impauriti, il sacrificio (o, come si diceva in passato, la gavetta) viene confuso con lo sfruttamento (e spesso mischiato) e il conflitto non può esistere se non esistono due (o più) classi con visioni diverse del mondo e della storia. Ecco che, magicamente, si spiega il perché l’unico Dio per tanti è il sogno di vincere al gratta e vinci o al superenalotto o perché tanti figli uccidono i propri genitori per ottenerne l’eredità o, peggio, qualche spicciolo oppure perché molti preferiscono lo spaccio, attività più redditizia del lavoro. Non è certo questa l’unica spiegazione, ma va vista come una chiave di lettura.

Ecco perché, infine, per molti (è inutile nascondersi dietro un dito) il reddito di cittadinanza, o d’inclusione o comunque lo si voglia chiamare, è il leit-motiv che spinge a votare, per raggiungere il tanto sognato benessere.

Cosa c’entra tutto questo con Salvini?

C’è da chiedersi come abbia fatto un personaggio a portare un partito prettamente territorialista, fermo al 4%, ad un partito ormai di fatto nazionalista che vanta il 18% di consensi, con un buon bacino elettorale persino al Sud. La risposta appare semplice quanto scontata. Ha saputo anzitutto dialogare con la gente, sia al Nord che al Sud e ha capito che le distinzioni di classe o le distinzioni territoriali sono ormai dei meri sfottò privi di qualsiasi substrato culturale, quindi è riuscito – in pochi anni – ad entrare nella pancia delle persone parlando un linguaggio comune e intercettando i desideri e le paure della gente.

Ammettiamolo pure candidamente. E’ stato l’unico, oggi, a capire che le distinzioni tra fascismo e comunismo sono ormai evidenti solo sul piano letterale e in nostalgici e sbiaditi ricordi della storia e che anch’esse si sono liquefatte e mischiate nella realtà di tutti i giorni.

Tutti sappiamo che, statisticamente, i reati commessi da italiani sono di gran lunga superiori ai reati commessi da stranieri, eppur nessuno può obiettare che la lotta all’immigrazione sia uno dei capisaldi della Lega e sia generalmente sentita come una necessità da parte di larghe fette della popolazione.

Nella storia abbiamo sempre assistito a scontri sociali. La comunità diventa compatta e coesa quando ha un nemico comune. Dai vecchi campanilismi (le lotte tra paesi) tipiche del Medioevo (e che ci siamo portati finora come retaggio) alle lotte di classe di Sessantottiana memoria, fino a giungere agli scontri Nord-Sud, nella dialettica politica degli anni Ottanta e Novanta, oggi, con una società interclassista, il nemico da combattere viene dal mare, ha un colore di pelle diverso, parla una lingua diversa e, preso dalla disperazione e dalla dicotomia tra la cultura d’appartenenza e il nuovo modello sociale d’approdo, fa – statisticamente in misura inferiore – quello che farebbe un qualsiasi ragazzo italiano alla ricerca disperata di soldi: delinque. Ne ho parlato brevemente in un vecchio articolo sullo Ius Soli.

Individuare un nemico comune, parlare un linguaggio semplice e comprensibile, stare tra la gente e capirne bisogni e desideri, questo è ciò che Salvini ha fatto, in modo talmente semplice da essere rivoluzionario. Perché mentre gli altri partiti (e persino la Chiesa, fino al 2013) ancora non avevano ben chiara la portata rivoluzionaria del modello capitalista, che ha sfalciato via le classi sociali, la Lega di Salvini, con un certosino lavoro sui territori, ha ben capito tutto ciò e l’ha tradotto in propaganda politica.

Da parte sua anche il Movimento 5 Stelle ha fatto altrettanto, solo con un grossolano errore di valutazione: non ha dato importanza alle istanze dei territori, si è affidata quasi esclusivamente alla rete come termometro sociale, quando invece la rete spesso si è dimostrata fuorviante per capire i bisogni e i desideri della gente. Le sedi territoriali della Lega, invece, a differenza dei MeetUp dei 5 Stelle, hanno rappresentato il vero termometro sociale grazie al quale Salvini ha ottenuto quei dati che, come dicono tutti gli esperti di marketing digitale, rappresentano l’unico vero strumento per operare precise strategie di marketing. E la Lega, anche rispetto al M5S, ha saputo leggere e interpretare i dati per poi offrire alla gente un prodotto appetibile e altamente profilato.

Ora vedremo se la Lega avrà (prima o poi) le stesse capacità nel gestire le Istituzioni in cui siederà. Ad ogni modo mi auguro che questo contributo non sia preso come un mero elogio alla Lega ma per quello che è: l’analisi di chi le analisi le sa fare.