Autonomia differenziata, un favore alla Germania?

Il consiglio dei ministri, nella seduta del 2 febbraio 2023 ha dato il via libera all’Autonomia differenziata, con un disegno di legge a firma Calderoli. Ma cos’è l’Autonomia differenziata? E chi è Calderoli? Cosa ci azzecca il regionalismo differenziato con la riduzione del numero dei parlamentari? E’ solo una questione di divari Nord-Sud o c’entrano anche assetti politico-economici europei in mutamento?

Il tema dell’autonomia differenziata non è questione di questi giorni né è figlio dei leghisti. Ha una storia piuttosto vecchia. Una storia che affonda le radici intorno agli anni Ottanta del secolo scorso, per poi trovare legittimazione costituzionale nel 2001. Oggi, trova ragion d’essere nelle trasformazioni socio-economiche di un Europa sempre più avviluppata dagli interessi tedeschi.

E comunque se n’è parlato abbondantemente nel 2018, sotto il governo Gentiloni, quando la regione Veneto ha dato un impulso e, a ruota, l’hanno seguita Lombardia ed Emilia Romagna. Poi non se n’è parlato più. Fino ad oggi. Ma la proposta Calderoli è la prosecuzione di quanto già analizzato in quest’articolo.

Come di consueto, prima di arrivare al punto, vediamo un attimo di cosa stiamo parlando. In particolare guardiamo, anche se in breve, cos’è il regionalismo e com’è cambiato dalla sua nascita ad oggi.

La storia del regionalismo, in breve

La Costituzione, frutto dell’equilibrio tra opposte forze politiche (comunisti, cattolici, liberali, repubblicani, ecc.) aveva previsto un ordinamento democratico unitario, ma articolato in Regioni.

Fino al dopoguerra non esistevano le Regioni, semmai le Province, che avevano una storia antica, che prendeva origine dall’Impero romano.

Oddio, anche le regioni, non come le conosciamo adesso, sono un’invenzione romana, ma più che altro seguivano dei confini naturali costituiti da corsi d’acqua, catene montuose, ecc.

Il concetto di confine politico-amministrativo è frutto della visione liberale degli stati unitari.

Infatti nell’Ottocento, durante il regno d’Italia, per comodità burocratica, furono istituiti i mandamenti e i circondari, ossia assetti amministrativi ottimali che racchiudevano più province. Solo nei primi anni del ‘900 vennero istituite le regioni come articolazioni dello stato unitario. Ma il processo di regionalizzazione incontrò un ostacolo durante il fascismo, che, in quanto totalitarista, non ammetteva una ripartizione del potere, nemmeno amministrativo.

Fu solo con la Costituzione repubblicana che le regioni trovarono un riconoscimento, ma solo formale, perché, di fatto, restarono lettera morta fino agli anni Settanta, in cui si iniziò, lentamente, a devolvere loro alcune limitate funzioni. Questo perché all’epoca prevaleva l’idea dello Stato interventore, che si occupa di tutto, in particolare di economia e quindi deve accentrare le funzioni, per garantirne un esercizio unitario.

Gli anni Ottanta e lo Stato leggero

E’ solo negli anni Ottanta che si inizia a parlare di Stato leggero, cioè di uno Stato che non interviene più nell’economia, regolandola, ma che deve lasciar fare tutto ai privati. Al massimo può controllarla, attraverso quelle che, pochi decenni dopo, sarebbero diventate le Autorities.

Lo Stato deve dunque devolvere quanto più possibile le sue funzioni e alleggerirsi, per rispettare quelli che saranno, di lì a breve, gli accordi di Maastricht del 1992, tendenti ad impedire agli Stati di indebitarsi per riequilibrare gli squilibri prodotti dal mercato e salvaguardare le fasce deboli della popolazione.

Principio che, oggi, trova consacrazione costituzionale nell’art. 97 comma 1, secondo cui

Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico.

Un comma aggiunto, con Legge costituzionale n. 1/2012 durante il Governo Monti e che impedisce agli stati di perseguire politiche sociali (tipo la sanità pubblica, per capirci).

Inoltre, sempre l’appartenenza al sistema Europa, impone in quegli anni il principio di sussidiarietà, di derivazione tedesca, che prevede che tutte le funzioni siano svolte dagli enti più vicini al cittadino e solo quelle che prevedono l’esercizio unitario debbano essere svolte dallo Stato.

Un principio corretto sul piano formale, ma che limita oltremodo l’azione sinergica del potere, nelle sue articolazioni, tendente a riequilibrare le disparità tra le aree geografiche del paese e garantire il principio di uguaglianza sostanziale tra gli stessi cittadini della stessa Repubblica.

La riforma costituzionale del 2001…

Il treno in corsa del regionalismo incontra un importante snodo nel 2001, quando, con Legge costituzionale n. 3/2001, viene modificato il titolo V della Costituzione e vengono devolute importanti materie alle regioni che, ora, possono legiferare, con leggi di rango simile a quelle ordinarie dello Stato, su un lungo elenco di materie.

La riforma prevede due elenchi. Il primo è un elenco di materie di competenza esclusiva dello Stato, in cui la Regione, al massimo, ha un potere di regolamentazione. Il secondo è un elenco di materie di competenza concorrente, nel senso che lo Stato può emanare una legge quadro, poi spetta alla Regione emanare una legge di dettaglio. Poi c’è un comma, dell’art. 117 Cost., che prevede che “Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”. Sarebbe la cosiddetta competenza residuale.

La riforma è stata un po’ pasticciata, perché con il sistema degli elenchi e della competenza residuale, ha aperto ad un enorme contenzioso che, in 20 anni, ha provocato migliaia di ricorsi. Infatti la metà delle sentenze della Corte costituzionale riguardano le liti tra Stato e Regioni.

Per esempio, la materia della tutela del lavoro e dei rapporti internazionali è una materia concorrente. Ma che succede se la Regione emana una legge per garantire il lavoro degli stranieri, sulla base di un accordo con un paese estero? Lo Stato può dire che la materia dell’immigrazione è esclusiva e così impugna la legge regionale. Lo stesso accade per la materia della formazione professionale, oppure in materia di istruzione o di sanità, per cui ci sono stati centinaia di contenziosi.

…e l’autonomia differenziata nell’art. 116 Cost.

L’art. 116 comma terzo della Costituzione, così com’è stato modificato nel 2001, prevede che

Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata.

In pratica è possibile, su un lunghissimo elenco di materie, dare una competenza esclusiva alle regioni che ne facciano richiesta.

Qual è l’elenco di materie? Eccolo. Notate quante sono e quanto sono delicate alcune di esse.

rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.

Il Covid e la parentesi dell’accentramento

E’ ben noto come, durante la pandemia, ci siano stati continui attacchi tra regioni e governo sulla gestione pandemica e sulle norme in materia di governo del territorio, tanto che la gestione del Covid ha prodotto una forte crisi al riparto di competenze.

Quella del Governo Conte, però, è stata solo una parentesi.

Il suo governo, infatti, in contrasto con le regioni, ha accentrato a sé la gestione pandemica, mediante il sistema di regolazione dell’emergenza con i DPCM, ossia con strumenti amministrativi e non legislativi.

Lo ha fatto, usando una mostruosità giuridica, anche per regolare i diritti fondamentali di individui e formazioni sociali, generando un effetto uguale e contrario.

Cioè quel tipo di gestione accentrata, fatta di forza e in modo un po’ scriteriato, non ha fatto altro che dare un maggiore impulso al tema del regionalismo differenziato.

Ciò perché le regioni hanno contrapposto al Governo una modalità di gestione, almeno apparentemente, più democratica rispetto a quella posta in essere da Conte che, di fatto, ha delegittimato l’organo politico – in tutte le sue articolazioni – a vantaggio di quello amministrativo centrale, con effetti che subiamo ancora oggi (uno tra tutti, le sanzioni agli ultracinquantenni che non si sono vaccinati, anche per legittime – ma non riconosciute – ragioni).

L’Autonomia differenziata

E ora veniamo al punto della faccenda.

Abbiamo visto che il processo regionalista è in larga parte dovuto alla progressiva dissoluzione del concetto di Stato unitario, che, fluidamente, si sta dirigendo verso due mete.

La prima è una progressiva devoluzione di sempre più competenze verso l’esterno, quindi verso le strutture di potere europee, le quali hanno competenze su praticamente tutti i temi più rilevanti, nel campo economico, ma anche nel campo dei diritti sociali ed individuali.

La seconda è una devoluzione di un numero cospicuo di materie a regioni che, per motivi economici, geografici e di sviluppo del tessuto industriale, vogliono operare senza il fastidio del controllo democratico di un Parlamento che esprime (anzi, dovrebbe esprimere) le istanze delle categorie sociali di un intero paese.

Non è questione di soldi (non solo)

L’Autonomia differenziata poco c’entra con l’autonomia finanziaria, cioè con la gestione autonoma del gettito IVA o delle imposte o dei tributi statali che restano alla regione. Ha poco a che vedere con la volontà delle regioni del nord di staccarsi la palla al piede delle regioni meridionali.

Quindi poco c’entra il criterio della spesa storica o della spesa standard nella definizione dei fabbisogni regionali.

Non è questo. O meglio, non è solo questo.

Se così fosse, le regioni del Nord che intendono avvalersi delle “ulteriori forme di autonomia” avrebbero condotto una battaglia politica incentrata solo sul federalismo fiscale. Ma il regionalismo differenziato è molto di più.

Se, infatti, guardiamo alle materie in cui sono possibili ulteriori forme di autonomia, notiamo che l’autonomia differenziata ha a che fare con la gestione dei flussi migratori, con i rapporti tra regione ed Unione europea, con i rapporti internazionali, con la ricerca scientifica e tecnologica, con la gestione regionalizzata dei beni culturali, con la gestione dell’energia, e tante altre materie (in dettaglio, vedi qui, tanto la proposta Calderoli è sempre la stessa).

Se fosse solo una questione di soldi o di disparità di trattamento verso le regioni meridionali, la proposta del Veneto, fatta propria da Calderoli, non s’incentrerebbe su tutte le materie di cui all’art. 117 Cost. comma terzo. Sarebbe decisamente più snella, meno complessa (e dunque meno rischiosa sul piano politico) e riguarderebbe solo alcune materie, quelle che hanno a che fare direttamente con la gestione del denaro pubblico.

In realtà queste ulteriori forme di autonomia, unite a quanto dicevo prima sulla cessione di pezzi di sovranità tra il sovra e il sotto nazionale, nascondono una dinamica, ormai strutturata, di superamento degli stati nazionali in un Occidente che è giunto alla sua fase calante.

Nord Italia: il diciassettesimo Bundesländer

E’ storia vecchia che diversi gruppi economici tedeschi, legati all’industria e alla finanza, abbiano, negli anni Novanta, finanziato la nascita della Lega Nord, al fine di staccare il Nord produttivo e farne una costola del sistema produttivo tedesco.

Ne hanno parlato in pochi. Oggi non ne parla nessuno.

Ne parlò, tanto tempo fa, un senatore di Forza Italia, Saverio Vertone, in un’intervista a Limes (qui l’articolo di Repubblica del 1997, qui l’intervista, accessibile a pagamento), ma ne parlava anche in un suo libro del 1992 chiamato il ritorno della Germania, in cui esponeva le tesi per cui l’Europa unita favorisce il sistema produttivo della Germania, la quale ha bisogno di assorbire altri sistemi produttivi anche attraverso l’indebolimento degli stati unitari.

La Germania, secondo Vertone, ma non è il solo a pensarlo, sarà l’unica potenza economica europea a sopravvivere dalla dissoluzione, ormai alle porte, dell’Unione europea e, lato sensu, dell’Occidente tutto.

In questo quadro le regioni del Nord sbraitano per salvarsi da una crisi incipiente ed avere le mani libere per accordarsi a seconda di quali saranno gli esiti del processo, accelerati dal conflitto ucraino. Ecco perché il tema del regionalismo differenziato, dopo qualche anno di stasi, è tornato di grande attualità.

Guerra e secessionismo

La guerra in Ucraina, dunque, ha accelerato questo processo di dissoluzione degli stati unitari.

A livello geopolitico siamo in una fase di transizione. Una fase in cui il vecchio modello di dominio statunitense e di visione liberale degli stati unitari sta calando. Tutto a vantaggio di un mondo multipolare e più frammentato.

Un processo che, sappiamo bene, non è figlio di questi tempi.

Le spinte secessioniste sono un po’ una costante in tutta Europa. Basti vedere quello che è accaduto in Catalogna qualche anno fa, per non parlare dei paesi baschi. Oppure quanto avviene in Belgio. Senza contare la Scozia che vuole staccarsi dal Regno Unito, come, del resto, l’Irlanda del Nord. O che dire della Corsica, che vuole abbandonare la Francia?

Insomma, le spinte separatiste sono un fenomeno di rigetto spontaneo degli stati nazionali.

Il concetto di nazione è nient’altro che un’idea liberale, artificiale, che è servita alla borghesia, ossia alla classe dominante, per espandere il proprio dominio, sotto l’egida di una democrazia formale che – è sotto gli occhi di tutti – avvantaggia i ricchi a discapito delle classi subalterne.

Infatti gli stati unitari – e questa è una costante un po’ in tutta Europa – hanno riprodotto le medesime dinamiche dei sistemi capitalistici. Un esempio? La disparità tra città e periferia. Un processo ormai inarrestabile di abbandono delle aree rurali a tutto vantaggio delle città o delle aree più industrializzate.

Oppure la dinamica Nord-Sud, che riproduce l’esatta dinamica tra sfruttati e sfruttatori. In altre parole, per poter funzionare, il sistema capitalistico ha bisogno di aree di consumo e aree povere, cui attingere risorse e forza lavoro a basso costo.

E’ chiaro che, in questo contesto, unito anche a radici identitarie e culturali differenti, molti territori si sono ribellati (e continuano a farlo) perché vogliono determinare in autonomia le proprie politiche di sviluppo.

Autonomia differenziata e taglio dei parlamentari

In altri articoli di questo blog ho raccontato le mie perplessità in tema di taglio dei parlamentari, snocciolando gli aspetti più critici che riguardavano, soprattutto, l’indebolimento della rappresentanza politica a tutto vantaggio del potere esecutivo.

Ma il taglio dei parlamentari avrà ripercussioni anche sul tema dell’Autonomia differenziata.

Ciò perché la riduzione del numero dei parlamentari, unitamente ad una legge elettorale maggioritaria con ampie soglie di sbarramento, ne riduce la rappresentatività, le voci critiche, il processo democratico che, per sua natura, dev’essere lento, perché deve prendere in considerazione, con più voci e più punti di vista, un ampio ventaglio di aspetti.

Insomma, se nel 2001 la riforma costituzionale del titolo V è stata una mezza porcata (e s’è visto), figurarsi questa, con un parlamento ridotto, sia qualitativamente che quantitativamente.

In questo quadro le istanze regionaliste delle Regioni più ricche e che possono contare su un esecutivo a loro vicino, avranno la meglio e non troveranno alcun ostacolo politico.

Chi è Calderoli

Il regionalismo differenziato è dunque un processo fortemente voluto e che troverà la strada spianata nei palazzi del potere.

Certo, affidarlo nelle mani di Calderoli è una mossa a dir poco azzardata.

Ovvio che dietro Calderoli ci sono menti ben più complesse. Ma è grottesco immaginare che la fine dello Stato unitario venga messo nelle mani di un personaggio condannato perché, in un comizio, aveva definito “orango” l’ex ministra Kyenge.

Per non parlare della sua geniale mossa di abrogare, con il decreto taglianorme del 2009, le leggi che fondavano il Comune di Follonica, Sabaudia, Aprilia e Carbonia.

Numerose furono le critiche e le ilarità prodotte da quella sua leggerezza. Ma pensate che abbia smesso lì? Nemmeno un anno dopo ci ha riprovato.

Nel decreto ammazzanorme del 16 dicembre 2010, avallato anche dal ministro della Giustizia Alfano e pure dal presidente del Consiglio Berlusconi è finito anche il Regio Decreto 3300 del 4 novembre del 1866 con il quale “le provincie della Venezia e quelle di Mantova fanno parte integrante del Regno d’Italia”.

Insomma, quello che non sono riusciti a fare gli indipendentisti veneti per decenni, l’ha fatto lui per errore.

La sua grandiosa opera è finita in modo teatralmente criminale, mettendo letteralmente a fuoco interi scatoloni di leggi da lui abrogate, per cui son dovuti intervenire i Vigili del fuoco.

Insomma, l’Italia s’appresta a dirsi addio per mano d’un incendiario, pregiudicato e di verde vestito. Nulla di nuovo sotto il sole.

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