Ma quale ritorno al bipolarismo!

A margine dello spoglio elettorale in Emilia-Romagna e Calabria arrivano le prime riflessioni dei leader degli schieramenti in campo e dei commentatori politici, ormai tutti accomunati da un unico motto: si sta tornando al bipolarismo. Lo dice Zingaretti, affermando che: Si sta tornando a un sistema bipolare tra due grandi campi che si contendono la … Leggi tutto

Elezioni Europee: nessuno stravolgimento, ma la Lega esulta

elezioni europee 2019 salvini

I risultati delle ultime elezioni europee ci restituiscono due dati tra loro contrastanti, ma che devono essere analizzati unitariamente. Il primo: Nessun stravolgimento Non sembrano stravolti gli equilibri politici nel nuovo parlamento europeo, dato che Popolari, Socialisti e Liberali hanno ottenuto un’ampia maggioranza, come si vede nel prospetto sottostante: Ppe 23,83% – 179 seggi; S&D … Leggi tutto

Assemblea PD. Renzi e l’egemonia che si perde in 2 mesi.

Renzi Assemblea PD

Breve analisi dell’intervento di Matteo Renzi nell’Assemblea PD e di come per lui l’egemonia sia una cosa che si perde in due mesi.

Ho avuto modo di seguire buona parte degli interventi dell’Assemblea Nazionale del PD, incluso quello di Matteo Renzi.

Dalle mie parti c’è un proverbio che recita: “quannu lu ciucciu nu bole cu ‘mbie magari ca fischi!”, che, tradotto, significa: “quando l’asino non vuole bere è inutile fischiare”.

Per me rappresenta un po’ la sintesi di quanto è avvenuto in seno all’assemblea, dove sono stati tanti gli interventi critici, lucidi e ponderati, volti a riflettere sulle debolezze del partito e sulle possibili soluzioni per la sua ripresa, ma dove buona parte della platea ha accolto con freddezzadistacco le critiche e le proposte mentre ha applaudito con ovazioni da stadio l’intervento (a tratti banale ed eccessivamente egocentrico) dell’ex premier Matteo Renzi. Se il PD non vuole bere, è inutile fischiare!

Il discorso di Renzi all’Assemblea PD

Renzi, nel suo discorso, si è attribuito vaghe e indefinite responsabilità nel fallimento del suo partito, ma in sostanza ha dato la colpa ad altri aspetti: la scarsa presenza sui social da parte del PD, i toni troppo sobri in campagna elettorale, la mancanza di coraggio nel prendere decisioni sullo Ius Soli e sull’abolizione dei vitalizi nonché il non aver rinnovato la classe dirigente al Sud. Ha anche attribuito grandi responsabilità alla minoranza del partito, che, a suo dire, gli ha remato contro.
Il discorso di Renzi, sin dall’inizio, trasudava ego da tutti i pori, arrivando anche a dire che mai, nella storia, un partito come il suo è stato tanto egemone da conquistare addirittura 17 regioni su 20 e il 41% dei consensi.

“Nessun partito ha mai avuto il potere che abbiamo avuto noi in questi anni in Italia”.

Questo lo diceva con una punta d’orgoglio e con enfatico entusiasmo, come a voler dire che è grazie a lui che il PD, negli anni scorsi, è stato egemone. La realtà però è sotto gli occhi di tutti e si dev’essere davvero ingenui a pensare che l’attuale situazione in cui si trova il PD è figlia del contingente e non, invece, di una lenta erosione, che trova le sue origini in un lontano passato ma inizia ad essere percettibile proprio nel periodo in cui il PD, in preda alla crisi dei partiti e alla nascita dell’antipolitica, viveva i suoi più gravi momenti di debolezza.
Fu in quel periodo che Renzi, forte del suo processo di rottamazione (grottescamente figlio anch’esso dell’antipolitica) imponeva la sua egemonia all’interno del partito, credendo ingenuamente che la sua egemonia tra le mura del PD s’instillasse in tutta Italia e plasmasse le coscienze di quella popolazione che credeva di poter modellare con i suoi discorsi unti all’olio di oliva.

“Per quattro anni il PD è stato l’argine del populismo in Italia. E se non avessimo fatto quello che abbiamo fatto nel 2014 l’ondata populista ci avrebbe sommersi”.

Anche questa frase trasuda tracotanza, dimostrando di non aver compreso che, invece, quei quattro anni sono serviti ad alimentare la demagogia dei suoi avversari in Italia e hanno contribuito a creare lo scollamento tra la sinistra nominalistica (il PD) e la popolazione che, poi, si è palesato alle ultime elezioni. In quei quattro anni il M5S ha rafforzato la sua presenza in rete e nei territori e la Lega ha dato maggior potere e struttura alle sue sedi territoriali e maggiore visibilità al suo leader, che incessantemente ha divulgato la sua linea politica girando in lungo e in largo per l’Italia e usando sapientemente i mezzi d’informazione.

Renzi e l’egemonia persa in due mesi

“Noi l’egemonia l’abbiamo persa tra maggio e giugno 2017, dopo le primarie”.

Questa frase, secondo me, rappresenta la summa dell’inadeguatezza renziana.
Come se l’egemonia fosse un abito che s’indossa e si dismette dall’oggi al domani. L’egemonia è un sistema di comando e controllo, culturale e politico, che si costruisce nel tempo e nel tempo si perde e che ha bisogno di un riscontro reale e di una sovrastruttura ideologica, creata dalla classe politica dominante per mezzo della propaganda ma soprattutto da quelli che Gramsci definiva intellettuali organici, cioè quegli intellettuali che difendono e rafforzano il potere della classe politica dominante.
Renzi non si è ancora reso conto che il PD ha perso la sua egemonia già molto prima della sua scalata politica e che i segnali – deboli ma inequivocabili – erano palesi già da diversi anni, più o meno dagli anni della rottamazione e dello sviluppo dell’antipolitica.

Perché se n’è accorto solo ora? Perché nella sua analisi politica ha tenuto presente solo i risultati delle elezioni scorse, non considerando che in un sistema bipolare, fino all’avvento del M5S e fino alla conclusione dell’opera di rafforzamento della Lega da parte di Salvini, non esistevano alternative valide al PD.

Per lungo tempo votare il meno peggio era una sorta di costrizione ideologica da parte dell’elettorato più riflessivo, mentre s’allargava sempre più la platea dell’astensionismo.

Del resto, negli anni scorsi, con un Centro-Destra frammentato dalle beghe interne e da diverse scissioni, il PD aveva vita facile, anche se il partito fino ad allora dominante era il partito dell’astensionismo. Oggi l’astensionismo ha lasciato il passo al M5S e alla Lega.

Come dimenticare le elezioni regionali in Emilia Romagna nel 2013 dove l’affluenza fu solo del 37%? Renzi allora cantò vittoria, ma ottenere il 49% del 37% degli aventi diritto al voto non può essere considerata una vittoria. Formalmente lo è, ma politicamente è una pesantissima sconfitta.
Quindi un Renzi che ritiene che il PD abbia perso la sua egemonia in un paio di mesi è un personaggio che le analisi proprio non le sa fare, offuscato com’è dalla sua immagine (tutta personale) di grande statista e grande comunicatore.

Il M5S

A proposito di analisi, vorrei soffermarmi un attimo su un altro punto del suo discorso, cioè quello in cui considera il M5S “la vecchia destra” (con tanto di applausi) e, addirittura, “una corrente della Lega”.
Ora vorrei fare un’ovvia considerazione, ossia che il M5S, attualmente, non rappresenta ideologicamente né una destra né una sinistra ma è interclassista esattamente come la popolazione che rappresenta.

Nel momento in cui si ricostruirà un fondo di coscienza tra i poveri, i precari e gli sfruttati in genere (che in Italia sono la maggior parte, più di quanto l’ISTAT evidenzia) nonché un terreno culturale in cui far crescere la propria consapevolezza e, soprattutto, quando si porrà un freno al dilagare di quell’analfabetismo funzionale che, invece, è il terreno ideale in cui proliferano i nazionalismi e le demagogie più becere, forse solo allora si potrà tornare a parlare di sinistra e, di conseguenza, di destra come antitesi ai valori dell’equità e della giustizia sociale.
Questa è un’operazione che spetterebbe a quegli intellettuali organici che, invece, oggi sono tutti preda del radicalismo fricchettone qualunquista, per cui si riempiono la bocca di concetti come umanità e accoglienza nei confronti dei fenomeni migratori (senza curarsi di interrogarsi sulle cause e gli effetti) e ignorano volutamente l’opinione pubblica bollandola come ignorante, xenofoba e razzista. Insomma, gli intellettuali di oggi non fanno altro che alimentare il nazionalismo e allontanare la gente comune dalla ragionevolezza politica.

Quindi da un lato gli intellettuali hanno smarrito la propria funzione e dall’altro lato uno come Renzi liquida subito il fenomeno 5 Stelle come un movimento di destra, senza curarsi di ragionare sulla sua composizione così multiforme, liquida e orizzontale e sulle cause che hanno spinto un movimento così scoordinato e di recente costituzione a diventare la prima forza politica in Italia.
In altre parole, invece che scusarsi davanti alla platea per aver fatto perdere al PD la sua egemonia culturale (che, però, come detto, in realtà hanno perso da molto tempo) e per non essere stato capace di gestire il malessere di una popolazione che ha dato la responsabilità ai fenomeni migratori (quando, invece, la responsabilità è di un sistema economico-finanziario malato e volto a creare disuguaglianze), ha liquidato subito il consenso del M5S come qualcosa di destra.

Mai un cenno al fatto che la gente guarda al PD come al partito delle banche e quindi, di fatto, colpevole di essere uno strumento nelle mani del capitalismo finanziario globale; mai una critica ad un partito la cui linea politica è centralizzata e in mano a poche persone e in cui le periferie non contano granché. Niente. Nessuna critica, solo pura esaltazione contornata da vaghe ammissioni di responsabilità senza però alcun concreto effetto sulla futura linea di governo del partito. Del resto la riconferma di Martina a Segretario ne è la prova più evidente.

Le critiche

Andando a vedere gli altri interventi s’intravedono, infatti, alcune precise critiche nei confronti di un partito ormai congelato e incapace di analizzare la realtà socio-economica e di intraprendere il giusto percorso per correggere le storture di un capitalismo finanziario che sta producendo gravi danni alle economie e alla tenuta sociale degli Stati in cui ha avuto libero accesso e legittimazione politica. Altre critiche più puntuali hanno messo in luce lo scarso coinvolgimento della base da parte del partito e, soprattutto, il fatto che i circoli del PD non hanno alcun ruolo nel definirne la linea politica. Ragionamenti puntuali che mettono in rilievo il distacco del partito dai territori che, invece, dovrebbero rappresentarne la linfa vitale e il termometro politico.

Eppure queste critiche sono state accolte dalla platea con freddezza e un certo distacco.

Già, perché l’Assemblea PD è il prolungamento del suo vertice e ne rappresenta solo il contorno scenografico grazie al quale dimostrare davanti all’opinione pubblica che il PD è un partito democratico, in cui si discute e si detta insieme la linea politica. Nella realtà, però, non è così. La discussione c’è, ma l’egemonia di Renzi e del vertice (Martina, Orfini, ecc.) è tale che la discussione assume solo un ruolo formale. Le decisioni vengono prese da pochi e il resto del partito non conta.
Conterà solo alle primarie, quando si deciderà chi sarà il nuovo Segretario. Nemmeno il Congresso conterà molto. E poi la decisione di fare il Congresso e le primarie a ridosso delle elezioni europee del 2019 fa capire che alla Segreteria del PD non interessa conoscere l’opinione dei suoi iscritti e rimettere in piedi il partito, ma solo assicurarsi una riconferma dell’attuale vertice in prossimità delle elezioni europee. Il tempo sarà così breve che, giocoforza, si riconfermeranno le stesse persone.

E’ ovvio che con questi presupposti il PD non vedrà alcuna risalita e, anzi, continuerà a perdere consensi. Perché il consenso è figlio dell’egemonia, quella cosa che non si perde né si acquista in un paio di mesi o in congressi-farsa a ridosso delle elezioni.

In requiem del PD

renzi pd

Un commento sulla ventura morte di un PD appena adolescente, nato malformato e con poche speranze di guarigione. Era il lontano 2004 quando DS, Margherita, Socialisti Democratici Italiani e Movimento dei Repubblicani Europei si presentarono insieme alle elezioni europee con la lista dell’Ulivo. Lo stesso accadde per le elezioni regionali del 2005. Nel 2006 si … Leggi tutto

Elezioni politiche 2018. Prima e dopo.

parlamento

Sono due le cose che ormai non ci stupiscono più in tema elettorale: le promesse puntualmente non mantenute e il ricambio di governo. Sul primo punto le varie liste che si presentano alla tornata elettorale si stanno sfidando a suon di soliti proclami: tasse da abbassare, pensioni da aumentare, ambiente da difendere, redditi da regalare.

Eh vabbè, ci siamo abituati. Un vecchio adagio dice: “prima delle elezioni promesse a milioni, dopo eletti, hai voglia se aspetti”. I proverbi, si sa, hanno sempre ragione.

Sul secondo punto sembra chiaro – anche se il dubbio è regola aurea – che a questo giro il PD, che ha perso qualche “pezzo grosso” confluito in “Liberi e Uguali” (e che se li tenessero pure), non ha grandi speranze di tornare al Governo, non almeno in questo cupo scenario sociale in cui ci stiamo gradualmente abituando a vivere, intriso di populismi e preda di estremismi più o meno lampanti e più o meno facilitati ad ottenere la scena mediatica, quindi, a quanto ne possiamo sapere basandoci sui sondaggi e su come tira l’aria, la partita si giocherà tra la coalizione di destra (composta da Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e Noi con l’Italia-Udc) e il Movimento 5 Stelle, i quali – nonostante le batoste prese di recente (in tema di rimborsi e con la vicenda dell’imprenditore Caiata), possono pur sempre contare su una base elettorale tutt’oggi inquantificabile, liquida e quindi idonea a rappresentare l’ago della bilancia di un movimento anch’esso liquido e senza una chiara e precisa ideologia politica. Se è vero che le destre ottengono consensi striscianti e invisibili è anche vero che il M5S conta sempre sulla fetta più importante dell’elettorato italiano: gli indecisi e i disillusi.

Ciò detto e fermamente convinto che il PD ha concluso la sua fase di governo e che la regola della turnazione può assurgere a legge naturale della res politica, resta da capire cos’è che promette sta gente all’elettorato.

I programmi dei partiti e le promesse elettorali

C’è un aspetto che è cambiato molto rispetto al vecchio modo di fare politica. Se prima i partiti, nel bene e nel male, avevano un’idea più o meno chiara dei propri obiettivi e quindi ragionavano in termini di rapporto tra ideologia, obiettivi e visione della cosa pubblica, i partiti di oggi, al contrario, non avendo una chiara ideologia né obiettivi a lungo termine, inseguono le esigenze dell’elettorato e, con il solo obiettivo di accalappiare quanti più voti possibile, si appiattiscono ideologicamente e finiscono per promettere tutti le stesse cose, pur se con linguaggi diversi. Inoltre, sempre a differenza del vecchio modo di fare politica, si finisce per promettere la luna senza però fare i conti con la realtà, ossia con la copertura finanziaria di ciò che si va a promettere. Tanto – penseranno loro – l’importante è promettere, non importa attuare.

Ma cosa promettono?

PD + altre liste minori

renzi

Il PD parte dal tema lavoro e promette un lavoro di qualità. Come, non si sa. Se il jobs act è l’embrione del concetto di “lavoro di qualità”, allora lo scarto tra promessa e realtà (il cui sinonimo sta qua) appare essere alquanto evidente. Chiaramente non può mancare la promessa della riduzione delle tasse per le famiglie e le imprese né l’immancabile aumento dell’indennità di accompagnamento per i non autosufficienti. Poi c’è il tema delle opere pubbliche, pallino fisso dell’ex premier Renzi, il quale si azzarda anche in un volo pindarico volto alla chiusura e riconversione delle centrali a carbone. Infine la promessa di aumentare il numero di ricercatori e stabilizzarli nonché quella dello ius soli, ma a determinate condizioni.

La destra

salvini

Qui si sono sbizzarriti assai. Poco c’è mancato che promettessero ricchi premi e cotillon e un viaggio gratis alle Maldive. In 11 pagine di programma elettorale ci troviamo di tutto: si va dall’aumento delle pensioni minime alle pensioni alle mamme, dal raddoppio dell’assegno minimo per le pensioni d’invalidità ad un piano straordinario di riqualificazione delle periferie, passando dagli asili nido gratuiti all’abolizione di bollo auto, delle tasse di successione e di equitalia. L’idea principale della destra è la flax tax, cioè una tassa unica su famiglie e imprese che Berlusconi vorrebbe al 23% e Salvini al 15%. Tuttavia nel programma non si fa riferimento a numeri o coperture finanziarie, rendendo il programma una mera promessa senza prospettive di attuazione. Sul piano sociale è immancabile la voce rimpatrio di tutti i clandestini e l’allargamento del concetto di legittima difesa, tema caro all’estrema destra e appoggiato da Berlusconi solo al fine di mantenere salda la coalizione.

Il M5S

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Partendo dall’assunto che l’Italia ha circa 200.000 leggi, quindi una giungla normativa, il M5S mette in programma l’abolizione delle leggi inutili, senza però specificare quali. Gli altri punti – ormai noti – sono il Reddito di cittadinanza e una nuova concezione di lavoro smart, mettendo al centro le nuove tecnologie e nuove forme di lavoro. Su questo versante il M5S parla di riforma dei centri per l’impiego e di riduzione dei cuneo fiscale e dell’Irap, tassa citata da tutti gli altri contendenti e di cui si parla, senza alcuna attuazione, sin dai tempi del compianto governo Prodi. Come ogni buon programma elettorale che si rispetti, anche il M5S parla di aumenti di personale (nelle forze dell’ordine, nelle commissioni locali per la gestione dei migranti, nella sanità pubblica e nell’istruzione, ecc.) e di tagli delle spese inutili. Tuttavia, come i loro concorrenti, nel programma non vengono indicate le misure necessarie per l’attuazione del programma.

Obiettivi chiari e misurabili

Chi mi legge e mastica un po’ di gestione aziendale o, più semplicemente, ha mai partecipato a un bando pubblico, conosce benissimo il concetto di obiettivo misurabile. Tu puoi promettere il mondo sulla carta, ma quando lo fai devi anche dare degli indicatori obiettivi grazie ai quali puoi misurare il tuo operato, controllarlo, agire e, all’occorrenza, correggere gli errori. Un programma elettorale non è un libro dei sogni, ma un piano a breve, medio e lungo termine, in cui si esplicitano gli obiettivi e si dice come e con quali mezzi s’intende raggiungerli. Se parlo di “tagliare le tasse”, devo poi spiegare come, con quali entrate o con quali altri tagli posso raggiungere quest’obiettivo. Poi i numeri possono anche essere sbagliati. E’ umano, è normale. Ma l’importante è indicarli. Nei programmi attualmente presentati non v’è traccia, se non qualcuna sporadica, ma buttata lì, quasi per caso.

Cosa succederà dopo?

Non è difficile immaginare cosa accadrà dopo le elezioni. Ma facciamo una proiezione.

Governo PD (poco probabile)

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Con Renzi premier l’Europa tira un sospiro di sollievo. Il PD attualmente è l’unico partito che può dare stabilità al paese. Ma a che prezzo? Al prezzo della svendita dell’Italia alle regole imposte da paesi forti come Francia e Germania, che – dopo aver spolpato la Grecia e imposto i propri diktat a Tsipras, ora contano di fare lo stesso con l’Italia. Quando nel 2011 cadde il governo Berlusconi, fu a causa delle pressioni che Francia e Germania fecero sull’Italia, in quanto l’inaffidabilità del premier pesava sulle rigide manovre imposte dai due governi in Europa. I mercati erano incerti e lo spread era incontrollabile, come le emorroidi della Merkel. Fu per questo che fu imposto a Napolitano di individuare un nuovo esecutivo. E la scelta cadde su Monti, con grande gioia dei galletti e dei crucchi.

Tuttavia la “svendita” dell’Italia, con un governo a timbro PD, è bilanciata dalla stabilità economica e da una crescita di un 0,001 punto percentuale che – alla lunga – potrebbe rendere ottimistici i mercati interni e internazionali. Insomma, un po’ come comprare a 100 e vendere a 10. Hai l’illusione di vendere, ma non guadagni. Però vendi. Comunque, sullo scenario politico attuale, è l’unico partito che ogni tanto dà qualche contentino alle aziende.

Governo delle destre (alta probabilità)

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Un governo a firma Berlusconi, Salvini e Meloni farebbe tremare l’Europa. I mercati subirebbero un colpo tremendo e la finanza europea brucerebbe in un solo giorno (il 5 marzo) qualche milione di euro. Gli investitori stranieri scapperebbero dall’Italia (il ché non è per forza un male) e tutto ciò peserebbe sui delicati rapporti europei ed internazionali. Il governo potrebbe durare dai 2 mesi ad un anno, poi i dissidi interni si paleserebbero in modo incontrovertibile e l’Europa ne approfitterebbe per spingere Mattarella a formare un nuovo esecutivo. Del resto una coalizione tenuta insieme con la sputazza non è il massimo per la stabilità del paese e per la credibilità internazionale.

Governo a 5 stelle (probabilità incerta)

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Loro rappresentano l’unica incognita nello scenario politico interno. L’unico paragone che si può fare – a livello di governo – è quello della città di Roma, ma non sarebbe sufficiente per esprimere un giudizio preventivo sull’operato di governo. Come accade con gli altri partiti, il programma non è idoneo per essere preso a modello del futuro operato, in quanto manca di indicatori chiari e misurabili nel breve e medio termine. Data l’inesperienza politica e una base liquida e multiforme, l’unico modo che hanno per sopravvivere al governo sarebbe quello di arroccarsi in un vertice forte e composto da persone preparate e capaci di mediare con l’opinione pubblica, le lobby, l’Europa e la comunità internazionale. Ne saranno capaci? Anche in questo caso la comunità europea e i mercati storcerebbero il naso e non è da escludersi il rischio di rimpasti e cadute del governo sia per dissidi interni che per mano estera.

In conclusione

Votare è un dovere ed è una conquista che sembra sbiadita, ma che ci è costata tanto sangue e dolore, quasi 70 anni fa. Ci sono anziani, ancora vivi, che ricordano i tempi in cui la democrazia sembrava un sogno. Il voto sembra una cosa inutile e ci sono tante persone che nemmeno 2 anni fa si lamentavano di non avere diritto al voto, quando Renzi diventò premier senza passare dal voto. Quanta gente gridò allo scandalo perché non gli fu concesso di votare? Oggi quella stessa gente propende per l’astensionismo e, stupidamente, rinnega quel diritto che poco tempo fa pretendeva. Quindi vai a votare. Lo so che è difficile scegliere, che qua si tratta di votare tra una peretta gigante o un panino alla merda. Ma vota. La scelta è sempre tra una peretta gigante e un panino alla merda.