Affrontare problemi strutturali con metodi emergenziali, derogare alle norme ordinarie in materia di salute e ambiente, aiutare finanziariamente i grandi e lasciare i piccoli fuori. Queste e tante altre le criticità del c.d. Decreto Emergenze, promosso dal Ministro Centinaio, ampiamente discusso in Parlamento e, addirittura, peggiorato rispetto alla formulazione originaria, grazie agli emendamenti di M5S e PD, sia nelle commissioni (agricoltura e bilancio) che in aula.

Il testo, approvato alla Camera (e ora passerà in Senato per l’approvazione definitiva), si propone di sostenere le imprese agricole dei settori olivicolo-oleario, agrumicolo e lattiero caseario del comparto del latte ovi-caprino in quanto colpite da perduranti crisi a causa di problematiche legate al prezzo di vendita del latte, di eventi atmosferici avversi di carattere eccezionale e dalle infezioni di organismi nocivi ai vegetali.

Dunque il Decreto mira ad aiutare imprese che soffrono crisi perduranti nel tempo e dipendenti non da fattori contingenti ma strutturali.

Dov’è l’emergenza?

Già da questa prima contraddizione in termini s’intuisce l’inefficacia degli interventi e la finalità (non tanto) nascosta dei provvedimenti. Anzitutto è facile capire che i presupposti su cui si basa una misura emergenziale non ci sono affatto. Come recita il testo “il susseguirsi di calamità naturali dovute anche ai cambiamenti climatici” o “il perdurare degli effetti dei danni causati dagli eventi atmosferici avversi di carattere eccezionale e dalle infezioni di organismi nocivi ai vegetali” non sono situazioni emergenziali, bensì ormai abituali. Del resto già il termine cambiamenti climatici presuppone una situazione di fatto mutata o mutanda che va affrontata con strumenti normativi ordinari e non straordinari, dato che i cambiamenti climatici sono in atto, non sono di durata limitata, non sono reversibili (se non con lunghi e complessi interventi di riduzione delle emissioni a carattere globale) e vanno affrontati con un piano d’intervento non emergenziale bensì strutturale.

Come non è più un’emergenza la questione Xylella, poiché esiste ormai dal 2009 (anno delle prime segnalazioni dei disseccamenti degli ulivi) ed è stata già (infelicemente e infruttuosamente) gestita con metodi emergenziali nel 2015né può essere considerata un’emergenza la crisi del settore lattiero e caseario, poiché si basa sullo sfruttamento perdurante, continuo, costante e strutturale di un intero settore produttivo ad opera del mercato interno e globale.

Dov’è l’emergenza? Solo perché i pastori sardi si sono lamentati (l’hanno fatto anche nel 2003 con una protesta plateale, ma sono decenni che vivono queste condizioni di sfruttamento), allora si parla di emergenza? Solo perché i disseccamenti degli ulivi hanno toccato (e superato, ampiamente) la provincia di Bari e le Associazioni di categoria chiedono a gran voce di ristrutturare tutto il comparto agricolo a svantaggio dei piccoli produttori, si può parlare di emergenza?

La realtà è che il testo della Legge si muove in tre direzioni: la prima. Tutela solo gli industriali e le grandi associazioni di categoria. La seconda. Pone una longa manus statale sulla produzione casearia ma senza riconoscere alcun contributo ai pastori, per favorire gli accordi di filiera a vantaggio della grande distribuzione e delle banche. La terza. Per la gestione delle fitopatie, impone interventi che derogano ad ogni norma ordinaria (persino costituzionale!) posta a tutela della salute, dell’ambiente, del paesaggio e dei diritti fondamentali dei cittadini italiani.

Andiamo con ordine e affrontiamo prima il problema legato alla produzione del latte e poi la questione degli ulivi pugliesi in un articolo separato.

Il decreto tutela gli industriali

L’industria detta il prezzo e si specula sul pecorino romano.

Sapete quanto veniva pagato un litro di latte ovino e caprino ai pastori? In pochi anni si è passati da 1,05 € al litro a 0,85 € per poi arrivare a 0,56 € nel 2019. Mentre, in media, ai pastori sardi la produzione di un litro di latte costa 0,70 €. In poche parole nel 2019 andavano sotto di 14 centesimi per ogni litro prodotto. Ora capite perché durante le proteste preferivano buttarlo per strada? E chi detta il prezzo di mercato? Gli industriali. In altre parole l’industria del pecorino romano. I pastori vendono il loro latte alle aziende casearie che hanno rapporti con l’industria del formaggio e la Grande Distribuzione Organizzata (GDO), la quale ha rapporti con il mercato interno, europeo e americano.

Perché il prezzo è crollato?

Perché ci sono anni in cui si produce di meno (e il prezzo aumenta), mentre negli anni in cui si produce di più il prezzo scende. Ma se scende sotto il costo di produzione, qualcosa non va. Già. Non va perché ad un certo punto, quando il mercato americano ha aumentato la richiesta di pecorino romano, gli industriali hanno fatto cartello e hanno imposto il loro prezzo alle aziende casearie, le quali hanno fatto altrettanto nei confronti dei pastori. E i pastori, che per anni hanno conferito il latte nelle aziende casearie di fiducia, precludendosi in pratica ogni altra alternativa di vendita, che hanno dovuto fare? Hanno dovuto sottostare al prezzo imposto.

Lo spiego in altri termini. Io, pastore, ogni anno vendo 100 litri del mio latte all’azienda casearia X, che me lo paga 1050 €. Dato che mi costa 700 € per produrlo, mi restano in tasca 350 €. l’Azienda X produce il pecorino che vende agli industriali. Gli industriali dicono ai caseifici: “produci più formaggio, che la domanda è alta!”. E allora i caseifici dicono ai pastori: “fai più latte, che mi serve!”. I pastori quindi comprano più pecore e capre, producono più latte e fanno quanto gli è stato chiesto. Se un altro cliente gli chiede il latte per fare il formaggio, gli rispondono: “non posso, il caseificio X è il mio unico cliente”. Quindi, in poche parole, il pastore perde tutti i clienti, eccetto il caseificio X. Ma ad un certo punto il caseificio X dice ai pastori: “siccome c’è troppo latte in giro, i prezzi sono caduti, al massimo ti posso dare 56 centesimi al litro”. “Ma che dici?” risponde tutto agitato il pastore “così non copro nemmeno i costi!”. “Purtroppo a me hanno fatto questi prezzi e non posso andare oltre”, risponde il caseificio X. 

Siccome a soffrire dell’imposizione dei prezzi bassi è anche il caseificio X, quest’ultimo, per ridurre i costi di produzione è costretto a comprare il latte estero, che costa meno e che viene importato e venduto da quelle stesse aziende che fanno parte della GDO. Entrambi, aziende casearie e pastori, sono vittime. E’ chiaro che ci sono anche aziende che comprano il latte estero per speculare, ma ciò non influisce sul sistema di imposizione dei prezzi stabilito dalla grande industria.

E così siamo arrivati a oggi.

Morale della favola? Il mercato viene controllato da poche persone che gestiscono il grosso della filiera. E così entra in scena il prode Salvini, che dice “aumenterò il prezzo di acquisto a 1 euro al litro!”. Questo prima delle elezioni regionali in Sardegna. Poi dopo le elezioni si scopre che l’accordo tra industriali, caseifici e pastori, arriva a 72 centesimi al litro. Ai pastori, quindi, restano solo 2 centesimi. E’ una presa in giro. Ma non l’unica! L’ennesima presa in giro arriva dal decreto Emergenze.

Il Decreto Emergenze tra illusioni e certezze

Per il settore lattiero caseario il decreto stanzia due tipi di fondi:

Un fondo di 10 milioni di euro per sostenere i contratti e promuovere gli interventi dei regolazione dell’offerta di formaggi ovini DOP e un fondo di 5 milioni di euro per la copertura, totale o parziale, dei costi sostenuti per gli interessi sui mutui bancari contratti, entro il 31 dicembre 2018, dalle imprese che operano nel settore del latte ovino caprino. Anzitutto i fondi sono destinati alle imprese ed escludono tutti quei piccoli allevatori senza P.IVA che, per vendere, si iscrivono ad una cooperativa la quale, spesso, è gestita come un’azienda di fatto, quindi a trarre vantaggio dai contributi non saranno i soci, ma solo i titolari della cooperativa. Ai soci, forse, pagheranno un prezzo un po’ più alto, grazie al contributo pubblico.

La cosa più grave, però, è che queste misure non intaccano minimamente il sistema su cui si basa l’ingiustizia di fondo: ossia che i prezzi sono dettati dagli industriali non in un regime di libero mercato né in un regime di mercato controllato dallo Stato, ma in un regime di oligopolio.

In altre parole si stanno buttando soldi pubblici per mettere a tacere per qualche anno le lamentele delle piccole aziende del settore, le quali avranno quindi più soldi (pubblici) per pagare (forse) un po’ di più il latte ai pastori, ma quando i rubinetti si chiuderanno, il sistema tornerà ad essere lo stesso di sempre. E la cosa più grottesca è che quei soldi (pubblici) ritorneranno sotto altra forma nelle mani degli industriali, in quanto una parte dei costi verranno pagati con soldi (pubblici) e si potrà speculare sul prezzo al ribasso del pecorino, esattamente come accade oggi.

Anche quei 5 milioni destinati a ripagare gli interessi bancari sono soldi (pubblici) che andranno a finire nelle mani delle banche (amiche degli industriali). E così saranno tutti contenti, eccetto i pastori e le piccole aziende casearie, le quali con questo decreto avranno anche l’onere di segnalare al Sistema informativo nazionale (SIAN) i quantitativi di latte ovino e caprino e il relativo tenore di materia grassa consegnati loro dai singoli produttori nazionali, i quantitativi di latte e i prodotti lattiero-caseari semilavorati introdotti nei propri stabilimenti ed importati da altri Paesi dell’Unione europea o da Paesi terzi.

Come al solito a pagare il prezzo più alto saranno le piccole aziende, le quali si vedranno comminare multe salatissime (da 5.000 a 20.000 €) se non adempieranno. Si colpisce, in questo modo, l’effetto del problema e non la causa. L’effetto è semplice: se gli industriali impongono un prezzo troppo basso, le piccole aziende devono per forza ridurre i costi. Se invece si va a incidere sulla formazione del prezzo a monte, allora è lì che si ottengono i risultati, ma si sa, la Lega è amica degli industriali, non dei pastori. Mentre il M5S viene controllato da soggetti economici che hanno bisogno degli industriali per prosperare, quindi non possono calpestargli i piedi.

Solo con l’autoproduzione si esce dalla crisi

Sia per i pastori sardi che per gli olivicoltori pugliesi l’unica soluzione è l’autoproduzione, ossia costituire una filiera orizzontale, tra i vari produttori e trasformare da se i prodotti, utilizzando canali alternativi di vendita. Per approfondire leggi il contributo per una nuova riforma agraria.

Leggi anche l’approfondimento sul Decreto Emergenze in relazione alla questione Xylella in Puglia.

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