Lotta di classe e democrazia ai tempi del Covid – Parte I

Partenone Atene - Democrazia e lotta di classe

L’uso smodato della decretazione d’urgenza, l’accentramento dei poteri in mano a pochi, la riduzione del numero dei Parlamentari, il sistema elettorale maggioritario, la polarizzazione del potere economico, l’emersione dei sovranismi, sono segnali di una democrazia in affanno che diviene morente quando scompare la lotta di classe. In questa prima parte vediamo i concetti di classi … Leggi tutto

Quanto è bello essere in una rete sociale

casa a corte rete sociale

L’anno scorso, verso novembre, avevo concordato con una ditta di imbianchini di effettuare dei lavori di risanamento e pitturazione di alcune pareti, sia in casa che in giardino. Si era concordato di farli verso marzo-aprile, quando le giornate sarebbero state buone. Qualche settimana fa il tipo della ditta mi chiama e mi dice: “senti barbù, … Leggi tutto

Eroi per 15 minuti

eroi

All’artista Andy Warhol si attribuisce la frase in futuro tutti avranno 15 minuti di fama. Non si sa se sia veramente sua, ma è la frase simbolo di un’intera filosofia artistica e sociale che ha rappresentato l’inizio di un percorso di orizzontalità dell’essere-per-apparire e di liquidità delle sovrastrutture sociali, tanto più evidente oggi che, con i social, ognuno può, con un poco di strategia, un pizzico di fortuna, contenuti tritati, semplicistici e a portata del più becero degli analfabeti funzionali nonché con l’aiuto di qualche esperton-santone di marketing digitale, assurgere alla gloria effimera della fama a tempo determinato.

Poi, siccome i media ci sguazzano con i fenomeni da baraccone del web e con tutti i fenomeni che potenzialmente possono vendere, allora creano una singolare commistione tra il quarto potere (la stampa), il quinto potere (la TV) e quello che oggi definisco il sesto potere (internet e i social in particolare).

Oddio, seguendo la ripartizione classica dei poteri (1, legislativo, 2, esecutivo, 3 giudiziario, 4, stampa e 5, tv) arriviamo ai social come sesto potere, ma seguendo una ripartizione più razionale e storicamente attinente, direi che TV, stampa e social sono diventati, tutti insieme, il primo potere post-mediatico che domina i tre classici poteri, tanto che, s’è visto, ormai la scena politica è influenzata dal sentiment della rete, ossia da quelle reazioni popolari che si evidenziano sui social ma che sono influenzate a loro volta da tutti quei commentatori, opinionisti, giornalisti, ma anche social media manager, markettari ed esperti di comunicazione che appartengono al quarto, quinto e sesto potere.

Quindi le influenze reciproche che si sostanziano in questi strumenti vanno poi a governare le scelte politiche che non sono più liberamente determinate da un’idea, un manifesto, un programma dettato da una visione del mondo, ma da contingenze sempre mutevoli come mutevole è il sentimento di quel popolo tanto idealizzato dalla destra sovranista quanto pericoloso perché (ovviamente) incapace di dettare la linea politica, privo di guida e di strumenti per decodificare il mondo e sempre influenzabile dalle mode e tendenze del momento.

In questo quadro in cui la politica insegue l’elettorato attraverso i social, i media influenzano la gente che poi riversa sui social la mutevole pappa pronta, l’analisi viene sostituita dall’emozione, la discussione cede il passo alla tifoseria, allora il gentismo da social è alla perenne ricerca non più di un’ideale o di una visione alternativa del mondo, ma di un simbolo, che possa guidare (per i 15 minuti simbolici di Warhol) le proprie emozioni individuali e collettive, ed ecco che nascono gli eroi.

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L’eroe non costruito (oggi non si costruisce più nulla, semmai si riprende, svuotando di contenuti) ma riadattato da quello di romanticista memoria, che esce fuori dagli schemi della storia, sente la propria legge morale più forte dell’etica o della legge positiva, si contrappone all’universalismo per difendere l’amor patrio, le proprie tradizioni identitarie, la giustizia naturale.

Dalla falsa riga dell’eroe romantico oggi nasce l’eroe post-mediatico, quello che sfida il potere, smuove le masse e le emozioni (non le coscienze), si fa portatore non tanto e non più di un’ideale, una visione, ma di uno o più temi, spesso di un’antistorica pretesa identitaria.

Richiamando quindi l’eroe romantico, oggi l’Italia conosce l’eroe sovranista, che sfida il potere, cavalca la paura del diverso e difende una presunta identità ormai storicamente superata nonché delle tradizioni abbondantemente distrutte dal modello consumista e che sono solo una teca da museo. Ma alla gente interessa che l’eroe salvi l’Italia dal declino, quel declino in cui lui stesso ci sguazza.

Ma l’eroe viene di volta in volta riproposto tra ciò che può avere clamore mediatico, che può vendere emozioni, ma anche generare visite, advertising, funnel e persino gadget. Ecco che il circo post-mediatico ricerca tra gli smartphone sempre connessi, simbolo del sesto potere, le condivisioni, le interazioni e il clamore suscitato dall’eroe del momento, così lo preleva, gli crea un simulacro maginifico intorno, lo stordisce, gli svuota tutti i contenuti lasciando solo il motto (o l’hastag) e lo rigetta nella mischia del gentismo che altro non vuole che riconoscersi in un simbolo, però temporaneo, che possa appagare l’emozione del momento e, come direbbe Bauman, regalare un momento piacevole, sopperire alla recondita paura dell’inadeguatezza con episodici momenti di eroismo altrui, in cui riconoscersi e per cui tifare, che regala una sensazione di rivalsa, un’emozione di subitanea giustizia, uno scuotimento momentaneo dal torpore di chi è invischiato nella melma del consumo, che altro non fa che recidere qualsiasi prospettiva programmatica, qualsiasi visione alternativa ma come contentino regala momentanee sensazioni di appagamento emotivo.

Greta, Simone, Ramy, Samir, che sono stati accomunati in quanto tutti ragazzini e tutti eroi, non sono gli eroi, sono invece diventati un oggetto di consumo del circo post-mediatico e subitaneamente gli opinionisti e i commentatori rappresentanti del gentismo interclassista e servi del modello consumistico e tardocapitalista che vuole che niente cambi ma che si regali l’illusione del cambiamentone hanno tessuto le lodi, additando invece chi, più adulto, è addormentato, incapace di reagire ai soprusi o di scuotere le coscienze. Cosa che invece questi ragazzini, rispettivamente nel proprio ambito d’azione, hanno fatto. 

Le parole più sagge che abbia sentito finora sono state quelle del padre di Simone, 50 anni, ex operaio Almaviva, (…) anche la sinistra non può accontentarsi dell’eroe di turno. Oggi è Simone, ieri era Mimmo Lucano, l’altro ieri era il consigliere di Rocca di Papa. C’è la persona che scalda gli animi per qualche ora, ma non un vero lavoro di organizzazione.

Tra i tanti commenti letti o ascoltati in queste settimane, partendo da Greta per poi giungere a Simone, tale pensiero è il più equilibrato e saggio e sintetizza lo sminuzzamento della dialettica che ci ha condotti a questo punto: liquefatta la società, crollate le ideologie e addormentati come se fossimo in Matrix, la gente acclama l’eroe e la politica si accoda osannante, insegue il sentiment della rete e si fa dominare e manipolare (consapevolmente o no) dal primo potere: il circo post-mediatico.

Da questa vischiosità non se ne esce se non si riannodano i fili con il passato, ossia con il lavoro dialettico di ricostruzione storica e ideale che parta dalle persone di buona volontà e dagli intellettuali, non quelli inutili  finti intellettuali che oggi lodano gli eroi, ma quelli che hanno anche il coraggio di evidenziarne il pericolo. E ce ne sono. Basta vedere quanti sono stati attaccati per aver espresso una voce fuori dal coro. Ricostruire la dialettica, soprattutto per mano degli intellettuali, significa anche avere il coraggio di affrontare il momento antitetico della negazione (ossia avere la gente contro) e di ritornare al momento sintetico dell’affermazione razionale come sintesi delle visioni alternative del mondo.

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Per concludere, lasciatemi approfondire il punto sul confronto tra generazioni.

Chi addita noi, generazione fallita, ossia quella dei nati tra gli anni Settanta e Novanta, dicendo che i giovani di oggi sono attivi, coscienti e lottano, mentre noi siamo addormentati e abbiamo abbandonato la lotta, ricordo che abbiamo vissuto le peggiori fasi del crollo degli ideali, della liquefazione della società, dell’interclassismo, siamo stati picchiati a Genova, dove hanno scientificamente distrutto una generazione, siamo stati annichiliti nell’ideale di ricostruzione di una società che nel frattempo si stava decostruendo, siamo stati beffeggiati e derisi quando parlavamo di antiglobalizzazione e proponevamo un modello solidale, mentre oggi subiamo le conseguenze della globalizzazione e la risposta è diventata il sovranismo (come cura peggiore del male). 

Siamo stati travolti dal consumismo, dall’edonismo voluto da chi, prima di noi, ha coscientemente iniziato il processo di abbandono dell’umanità, delle campagne, delle periferie della civiltà, della cultura popolare, per sposare la causa del benessere, dell’auto nuova, della seconda casa al mare, del cibo spazzatura edulcorato dall’invasiva pubblicità, degli status symbol, dei personaggi cicaleggianti nei talk show (mi perdoni Francesco se gli rubo l’espressione), delle copertine satinate che rappresentano modelli innaturali da perseguire a ogni costo e del conseguente edonismo di massa.

Ero bambino quando sono stato bombardato da un modello che tutti hanno preferito a quello scomodo e poco appetibile del socialismo, della solidarietà. Nei ruggenti anni Ottanta ci hanno insegnato a prevaricare, a far carriera, ad inseguire ideali materialisti, a svincolarci dai lacci e laccetti della morale cattolica o di qualsiasi altra morale, come fosse un macigno inutile al cospetto della leggerezza dell’avere.

Negli anni Novanta tutti plaudivano Prodi quando parlava di smantellare lo Stato sociale, privatizzare tutto ed alleggerire il mostro burocratico e nel frattempo, mentre le prime avvisaglie di una crisi non solo economica ma sociale iniziavano a palesarsi, tutti si sono fatti rimbecillire dal modello tette&culi proposto dalle reti televisive di Berlusconi (quindi dalla mercificazione della donna) e dall’americanizzazione invadente, fatta di armi di distrazione di massa e consumo usa&getta, che oggi vale non solo per le cose, ma anche nei rapporti umani.

Mentre accadeva ciò noi crescevamo, ci indignavamo, protestavamo in piazza e venivamo derisi dagli uni e abbandonati dagli altri, che nel frattempo distruggevano la quasi centenaria esperienza del PC e abbracciavano il riformismo e il modello capitalista. Insomma, lottavamo sia dentro che fuori le mura della politica domestica. E oggi quella stessa gente, unita a sconosciuti opinionisti venuti dal nulla del circo post-mediatico, addita noi e ci propone come modelli dei ragazzini che sì, sono migliori, lo sono sicuramente, ma sono dati in pasto agli squali

A questi ragazzi e a tutti gli adolescenti dico solo: non fatevi fregare anche voi. Quando vedete uno smartphone puntato in faccia, sputate nell’obiettivo. Quando vi additano come modelli o come eroi, spostate il dito da un’altra parte. Se noi venivamo derisi, voi sarete tritati, masticati e sputati nel circo post-mediatico, ad uso e consumo della gente.

Il congresso mondiale sulle famiglie è solo folklore

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E’ iniziato oggi a Verona il congresso mondiale sulla famiglia tradizionale e, tra mille polemiche, molti commentatori hanno evidenziato subito gli orrori che sono fuoriusciti dal convegno o al margine di esso, tra cui “i gay sono da curare”, “l’aborto è omicidio” oppure “la donna deve tornare a essere mamma” e altre amenità del genere. Ora, a parte le valutazioni politiche e le possibili ricadute politico-giuridiche di certe affermazioni (che non starò qui a trattare e che spetta alle opposizioni contrastare nelle dovute sedi), quello che invece va messo in risalto è l’aspetto grottesco, cinematografico e sotto molti aspetti folklorico (nella sua accezione più sprezzante) di tutto questo circo appena sbarcato a Verona.

Detto in estrema sintesi, la salvaguardia della famiglia tradizionale è una sciocchezza enorme, utile solo a creare dibattito, tenere impegnati i giornalisti e l’opinione pubblica e distogliere l’attenzione dal suo intento più intimo. Questa semplice affermazione trova legittimazione in due ancor più semplici considerazioni: la prima è che nell’attuale società post-moderna la famiglia, intesa in senso tradizionale e nell’accezione data dagli organizzatori dell’evento, non esiste più, è anacronistica e nessuna operazione politica o di carattere sociologico potrà mai riportarla in vita. La famiglia tradizionale è stata superata dalla Storia come è stata superata dalla Storia quella cultura dominante e le sovrastrutture che la tenevano in vita.

La seconda considerazione è invece più strettamente legata alla struttura di fondo della società dominante, ossia che con questo convegno e con le politiche volte alla tutela della famiglia tradizionale si sta disperatamente cercando di mettere una pezza alla dissoluzione di quel nucleo sociale fondamentale che rappresenta il più importante riferimento nella società dei consumi.

Spiegherò subito le due considerazioni, ma prima voglio sottolineare che i due aspetti, in apparenza antitetici, sono in realtà intimamente connessi perché si fondano su una visione post-moderna, consumistica ed edonistica del concetto di famiglia e tutti i principali sovranisti e conservatori, parlando di famiglia tradizionale, confondono ad arte significante e significato e parlano alla pancia di una (larga) parte del Paese che non ha ancora ben chiaro il mutamento sociale avvenuto negli ultimi decenni.

La famiglia tradizionale è scomparsa

Zygmunt Bauman
Zygmunt Bauman

Zygmunt Bauman, in La società dell’incertezza, scrive che le

reti di protezione, tessute e tutelate con mezzi propri, le “trincee di seconda linea” un tempo messe a disposizione dalle relazioni di vicinato o dai rapporti familiari, dove si poteva trovare rifugio e curare le ferite procurate nelle dure battaglie della vita esterna, se non sono del tutto smantellate hanno comunque subito un considerevole indebolimento. Parte della responsabilità è da attribuire alle nuove (ma sempre mutevoli) pragmatiche delle relazioni interpersonali, pervase ora dallo spirito dominante del consumismo che identifica nell’altro un potenziale mezzo per ottenere gradevoli esperienze. Qualsiasi cosa siano in grado di fare, le nuove pragmatiche non possono generare legami duraturi. Il tipo di legami che esse producono in abbondanza, incorpora clausole “a scadenza” e “a libera contrattazione” e non promettono né l’attribuzione né il conseguimento di diritti o di obbligazioni.

Diritti e obbligazioni che invece rappresentano, secondo una concezione tradizionale della famiglia, la struttura sulla quale imperniare il rapporto familiare.

A differenza che nel passato, nella visione classica del concetto di famiglia, influenzato certo dalla morale cattolica, ma basato sulla comunanza d’intenti e sull’assistenza morale e materiale, nella società post-moderna la morale cede il passo a rapporti umani frammentari e discontinui in cui le visioni della vita post-moderna sono in perenne lotta contro i “fili che legano” e le conseguenze di lunga durata, e militano contro la costruzione di reti di doveri e obblighi reciproci che siano permanenti, in quanto l’Altro (il partner) viene visto come oggetto di valutazione estetica, non morale, come una questione di gusto, non di responsabilità. L’autonomia individuale si schiera contro le responsabilità morali, si disimpegna ed evita di precostituirsi degli obblighi, sopprimendo di fatto il complesso etico-morale che è alla base del matrimonio e, dunque, della famiglia.

La società dei consumi ha prodotto l’individualismo e l’edonismo (lo rilevò persino Paolo VI nel 1968), ha spinto l’individuo a tal punto da disgregare quel complesso di norme morali che rappresentano la tradizione (non solo quella giudaico-cristiana su cui si basa l’Occidente europeo, ma anche quella della civiltà contadina stratificata, che fino a 60 anni fa era una sub-cultura strutturata nella cultura dominante) e, di conseguenza, la famiglia tradizionale.

Le famiglie nella società dei consumi

Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini

Ma la società dei consumi, dopo aver prodotto l’Uomo-edonista che rifiuta le responsabilità insite nel nucleo familiare, svuota di contenuto buona parte della sua cultura e la sostituisce con l’interesse, l’eccitazione, la soddisfazione o il piacere, si accorge di avere bisogno della famiglia e di considerarla il centro dell’interesse in quanto, come scrive Pasolini in Scritti Corsari,

la civiltà dei consumi ha bisogno della famiglia. Un singolo può non essere il consumatore che il produttore vuole. Cioè può essere un consumatore saltuario, imprevedibile, libero nelle scelte, sordo, capace magari del rifiuto: della rinuncia a quell’edonismo che è diventato la nuova religione. La nozione di «singolo» è per sua natura contraddittoria e inconciliabile con le esigenze del consumo. Bisogna distruggere il singolo. Esso deve essere sostituito (com’è noto) con l’uomo-massa. La famiglia è appunto l’unico possibile «exemplum» concreto di «massa». È in seno alla famiglia che l’uomo diventa veramente consumatore: prima per le esigenze sociali della coppia, poi per le esigenze sociali della famiglia vera e propria. Dunque, la Famiglia (…) che per tanti secoli e millenni era stata lo «specimen» minimo, insieme, della economia contadina e della civiltà religiosa, ora è diventata lo «specimen» minimo della civiltà consumistica di massa.

Come acutamente osserva Pasolini, la famiglia è il fulcro, la cellula primaria dell’interesse della società dei consumi e passa dall’essere centro del potere della Chiesa (o delle sub-culture contadine) a centro del potere del consumo, quindi del capitale. Sfaldare la famiglia secondo la logica post-moderna dell’edonismo e dell’interesse a breve termine (la velocità non crede nella ripetizione, è anticerimoniale, scriveva Franco Cassano) significa frammentare nel tempo e nello spazio risorse e strategie, perdere profitti, quote di mercato.

Da qui la considerazione iniziale che l’attuale congresso sia un momento folklorico. Lo è negli aspetti che molti commentatori stanno evidenziando in questi giorni, ma non lo è nel suo intento più intimo e non palese.

L’intento, non palesato, di chi propugna la famiglia tradizionale non è quello antistorico di tornare indietro, perché sennò si dovrebbe tornare al dominio culturale e spirituale della chiesa se non addirittura al latifondo, ma è quello attualissimo di ricostruire i brandelli di una sovrastruttura che possa reggere i colpi di una struttura ormai al collasso e che, proprio in questi momenti, mostra la sua maggior ferocia: la struttura economica del capitale.

Ecco perché Salvini è il politico più capace

salvini e fedriga

Il risultato elettorale in Friuli, che vede Massimiliano Fedriga con il 57% delle preferenze, non ci stupisce affatto. E non stupisce nemmeno il crollo del Movimento 5 Stelle che ha perso, in Friuli, quasi 15 punti percentuale rispetto alle scorse politiche. Non stupisce non perché, come qualcuno dice, ormai il M5S ha perso appeal tra l’elettorato. No, affatto. Il motivo è, banalmente quanto squisitamente, dipendente dall’ambito geografico, dal bacino elettorale nonché dal tipo di legge elettorale, ma soprattutto dal candidato, Fedriga, che rispecchia perfettamente la filosofia di fondo della Lega Nord di Salvini e ne ha assunto la capacità di linguaggio divulgativo e la lucida analisi della complessa (seppur schematicamente semplice) congerie culturale italiana d’oggi giorno.

E’ da questa capacità di analisi che parte il mio apprezzamento nei confronti di Matteo Salvini come figura politica e di tutti gli altri esponenti della Lega che, in questi anni, hanno saputo perfettamente leggere la realtà e trasformarla in slogan politici d’alto impatto. Sicuramente molti dei miei (pochi) lettori a questo punto staranno storcendo il naso oppure avranno già abbandonato la lettura. Poco importa. Chi avrà l’ardire di continuare capirà che personalmente non stimo né Salvini né la Lega Nord, che non li ho votati né credo che lo farei e, soprattutto, che la figura del politico che sa interpretare la realtà è molto distante dalla figura del politico che amministra un Paese. Da qui ne discende che occorre tener ben distinti i ruoli: non sempre la figura del politico analista e divulgatore coincide con la figura del politico amministratore. Quando avviene siamo di fronte allo Statista. Ma attualmente non credo ci siano figure tanto autorevoli nel panorama politico italiano.

Detto ciò e augurandomi di aver saputo comunicare la distinzione tra i due ruoli, non posso esimermi dal considerare Salvini un attento analista della realtà attuale. Chiunque voglia sconfiggerlo sul piano dialettico o affrontare l’ondata d’urto che la Lega prima o poi porterà nel tessuto sociale italiano dovrà anzitutto non minimizzare né demonizzare l’operato di Salvini, altrimenti ne uscirebbe sconfitto. Chi gli dà del fascista o del populista commette un ingenuo errore di valutazione.

Fermiamoci un attimo ad osservare com’è cambiata la realtà negli ultimi 40 anni.

Il mondo cambia. Superfluo documentare un fatto così grave e così esteso: cultura, costumi, ordinamenti, economia, tecnica, efficienza, bisogni, politica, mentalità, civiltà … tutto è in movimento, tutto in fase di mutamento. Così commentava Paolo VI già nel 1974 e, in una lucida analisi della realtà, si rendeva conto di come la Chiesa, ferma e rigida nei suoi immutabili dogmi, si allontanava sempre più dai propri fedeli, ormai ammaliati dai richiami edonistici del consumismo e chiusi nel proprio individualismo feroce. Sono proprio queste le chiavi di lettura che ci possono portare a scandagliare la realtà attuale e a capirne l’intima essenza: consumismo e individualismo. Il primo, giunto ormai a maturazione e figlio legittimo del pensiero unico capitalista, è la religione di tutte le religioni, è il mostro sacro per cui sono sparite – nel giro di 40 anni – intere civiltà. La Civiltà contadina, con i suoi miti e le sue regole sociali attentamente analizzati da De Martino, è stata sepolta e dalle sue ceneri è sorta un’Araba Fenice composta da un nuovo modello comportamentale: la divinazione del consumo.

L’individualismo, invece, che vede l’essere umano come monade isolata e come destinatario unico degli interessi della società del consumo, ha soppiantato le rigide e classiche forme sociali: la Civiltà contadina, come ho detto, è morta, com’è anche stata annichilita la borghesia, il ceto medio. Le classi sociali storicamente ben irreggimentate nelle loro concezioni della vita e della storia sono scomparse e al loro posto ha prevalso l’Ego. E’ chiaro che in questa liquidità della società (per usare un termine baumiano) è facile adeguarsi al conformismo di matrice capitalista, mosso dai costumi calati dall’alto, da efficaci quanto suadenti strategie di marketing (tradizionali e digitali) e improntato sulla regola aurea che muove ormai il mondo: vendere. In questo contesto la televisione, il mondo della musica, della cinematografia, i big della rete (Facebook e Google in primis che possono vantare anche l’arma della profilazione) persino lo sport sono fautori della religione delle religioni, in quanto propongono, anzi, persuadono gli utenti (non più persone) a fare del consumo un modello di vita. Da ciò ne discende che i comportamenti collettivi di massa altro non sono che forme nuove di interclassismo.

Apro una breve parentesi per spiegare meglio il concetto. Non è un caso che l’UNESCO, in questi ultimi 30 anni, abbia lanciato numerosi allarmi circa la scomparsa delle diversità culturali, ritenendo che la globalizzazione abbia disgregato il complesso coacervo culturale mondiale. La diversità culturale, minacciata dalla globalizzazione, è importante per l’Umanità quanto la biodiversità è importante in Natura. L’omologazione dei consumi, quindi, annienta le diversità e depaupera i gruppi sociali dei propri valori di riferimento, delle proprie millenarie credenze, dei miti e riti stratificati e trasmessi oralmente, delle convinzioni, della propria visione del mondo.

Inoltre non è un caso che Facebook, periodicamente, effettui esperimenti sociali per capire quante persone si conformano ad un certo richiamo. L’ho spiegato in quest’articolo. Questo lo fa periodicamente e in occasione di grandi eventi o eventi straordinari per capire quanto siano efficaci e pregnanti le proprie strategie ed, eventualmente, nell’ottica del miglioramento continuo, per modificarne i parametri.

La nuova cultura interclassista – o liquida sempre usando l’intuizione geniale di Bauman – si è quindi ormai imperniata sul modello consumista, tanto da aver naturalmente abiurato tutte le forme sociali del passato. In altre parole ha scelto il benessere, la qualità di vita migliore, l’automobile, il telefonino, il week-end al mare, i viaggi, la sicurezza del proprio patrimonio e della propria casa, insomma, il proprio modello di vita che potremmo definire liberal-consumistico. Che differenza c’è tra chi ha i mezzi per poter avere una vita agiata e chi invece non li ha? Una volta questo era un elemento del conflitto di classe, oggi invece il conflitto è sparito ed è stato soppiantato dal sogno di ottenere quei mezzi, a tutti i costi. Non più dal lavoro (non c’è) né dal sacrificio né tantomeno dal merito. Il merito viene allineato da una scuola nozionistica, in continua riforma (verso il basso) e con docenti svogliati, impreparati e impauriti, il sacrificio (o, come si diceva in passato, la gavetta) viene confuso con lo sfruttamento (e spesso mischiato) e il conflitto non può esistere se non esistono due (o più) classi con visioni diverse del mondo e della storia. Ecco che, magicamente, si spiega il perché l’unico Dio per tanti è il sogno di vincere al gratta e vinci o al superenalotto o perché tanti figli uccidono i propri genitori per ottenerne l’eredità o, peggio, qualche spicciolo oppure perché molti preferiscono lo spaccio, attività più redditizia del lavoro. Non è certo questa l’unica spiegazione, ma va vista come una chiave di lettura.

Ecco perché, infine, per molti (è inutile nascondersi dietro un dito) il reddito di cittadinanza, o d’inclusione o comunque lo si voglia chiamare, è il leit-motiv che spinge a votare, per raggiungere il tanto sognato benessere.

Cosa c’entra tutto questo con Salvini?

C’è da chiedersi come abbia fatto un personaggio a portare un partito prettamente territorialista, fermo al 4%, ad un partito ormai di fatto nazionalista che vanta il 18% di consensi, con un buon bacino elettorale persino al Sud. La risposta appare semplice quanto scontata. Ha saputo anzitutto dialogare con la gente, sia al Nord che al Sud e ha capito che le distinzioni di classe o le distinzioni territoriali sono ormai dei meri sfottò privi di qualsiasi substrato culturale, quindi è riuscito – in pochi anni – ad entrare nella pancia delle persone parlando un linguaggio comune e intercettando i desideri e le paure della gente.

Ammettiamolo pure candidamente. E’ stato l’unico, oggi, a capire che le distinzioni tra fascismo e comunismo sono ormai evidenti solo sul piano letterale e in nostalgici e sbiaditi ricordi della storia e che anch’esse si sono liquefatte e mischiate nella realtà di tutti i giorni.

Tutti sappiamo che, statisticamente, i reati commessi da italiani sono di gran lunga superiori ai reati commessi da stranieri, eppur nessuno può obiettare che la lotta all’immigrazione sia uno dei capisaldi della Lega e sia generalmente sentita come una necessità da parte di larghe fette della popolazione.

Nella storia abbiamo sempre assistito a scontri sociali. La comunità diventa compatta e coesa quando ha un nemico comune. Dai vecchi campanilismi (le lotte tra paesi) tipiche del Medioevo (e che ci siamo portati finora come retaggio) alle lotte di classe di Sessantottiana memoria, fino a giungere agli scontri Nord-Sud, nella dialettica politica degli anni Ottanta e Novanta, oggi, con una società interclassista, il nemico da combattere viene dal mare, ha un colore di pelle diverso, parla una lingua diversa e, preso dalla disperazione e dalla dicotomia tra la cultura d’appartenenza e il nuovo modello sociale d’approdo, fa – statisticamente in misura inferiore – quello che farebbe un qualsiasi ragazzo italiano alla ricerca disperata di soldi: delinque. Ne ho parlato brevemente in un vecchio articolo sullo Ius Soli.

Individuare un nemico comune, parlare un linguaggio semplice e comprensibile, stare tra la gente e capirne bisogni e desideri, questo è ciò che Salvini ha fatto, in modo talmente semplice da essere rivoluzionario. Perché mentre gli altri partiti (e persino la Chiesa, fino al 2013) ancora non avevano ben chiara la portata rivoluzionaria del modello capitalista, che ha sfalciato via le classi sociali, la Lega di Salvini, con un certosino lavoro sui territori, ha ben capito tutto ciò e l’ha tradotto in propaganda politica.

Da parte sua anche il Movimento 5 Stelle ha fatto altrettanto, solo con un grossolano errore di valutazione: non ha dato importanza alle istanze dei territori, si è affidata quasi esclusivamente alla rete come termometro sociale, quando invece la rete spesso si è dimostrata fuorviante per capire i bisogni e i desideri della gente. Le sedi territoriali della Lega, invece, a differenza dei MeetUp dei 5 Stelle, hanno rappresentato il vero termometro sociale grazie al quale Salvini ha ottenuto quei dati che, come dicono tutti gli esperti di marketing digitale, rappresentano l’unico vero strumento per operare precise strategie di marketing. E la Lega, anche rispetto al M5S, ha saputo leggere e interpretare i dati per poi offrire alla gente un prodotto appetibile e altamente profilato.

Ora vedremo se la Lega avrà (prima o poi) le stesse capacità nel gestire le Istituzioni in cui siederà. Ad ogni modo mi auguro che questo contributo non sia preso come un mero elogio alla Lega ma per quello che è: l’analisi di chi le analisi le sa fare.

Una civiltà che brucia

civiltà che brucia

Ogni giorno, quando apro un giornale o accedo a internet o accendo la TV, leggo sempre le stesse storie: la disoccupazione in aumento (o in leggerissimo calo, salvo smentite del mese dopo), gente che si ammazza a vicenda spesso per motivi futili, liti familiari sfociate nel sangue, masse di gente disperata che migra (forzosamente) verso il nostro martoriato Paese accanto a masse di giovani (e persino pensionati) che invece emigrano dall’Italia verso Paesi più ricchi, ospitali ed economicamente più accessibili oltre che – ogni estate – roghi e incendi che divampano in tutta Italia, particolarmente al Sud.

I roghi dolosi

In queste ore, per esempio, stiamo assistendo alla distruzione programmata del Vesuvio e si dice che siano stati usati anche dei gatti bruciati vivi per estendere il fuoco. Il tutto, chiaramente, per motivi economici. Smettiamola di pensare che la gran parte degli incendi sia dovuta al fantomatico mozzicone di sigaretta. No, la maggior parte degli incendi è di origine dolosa. Perché? Perché molte zone sono inedificabili, a vincolo paesaggistico o idrogeologico o semplicemente fondi a destinazione agricola. E allora, anziché attendere una lottizzazione (che probabilmente non avverrà mai) è più facile appicciare un fuoco e distruggere la vegetazione. C’è il vincolo di inedificabilità? Chi se ne frega, tanto in Italia nessuno controlla e un amico al Comune o in Regione si trova sempre.

Già, perché la legge 353/2000 non consente destinazioni d’uso diverse da quelle precedenti l’incendio per almeno 15 anni dal rogo e nel 10 anni successivi sono vietate, nelle zone incendiate, costruzioni di qualsiasi tipo. La legge è stata fatta per evitare abusi edilizi. Sì, ma chi controlla? Il Corpo Forestale dello Stato, che ormai è stato smantellato e inglobato nell’Arma dei Carabinieri. Quindi basta aspettare che si calmino le acque e presentare il progetto in Comune. Tanto, male che vada, ci sono sempre le deroghe, le sanatorie e i condoni, per cui tanto si incendia, si attende qualche anno e – puff! – compaiono le prime palazzine o i centri commerciali nei terreni incendiati qualche anno prima.

La crisi morale, demografica ed economica

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La storia ce lo insegna, basta saperla leggere. Ogni civiltà ha un suo epilogo più o meno lungo. Noi siamo arrivati alla fine della nostra civiltà (oddio, rabbrividisco nel chiamarla così). I fatti di sangue cruenti e inspiegabili, i genitori ammazzati dai figli per motivi futili, il tizio che insegue e investe due motociclisti, ammazzandone uno, la ragazzina che accoltella la madre perché scoperta a fumare una canna o i tizi che ammazzano l’amico così per scherzo durante un festino a base di coca e alcool, casi del genere sono inspiegabili se presi così, singolarmente, ma hanno una spiegazione storica.

Sì, lo sappiamo tutti, abbiamo perso i valori, la società è diventata liquida (usando le parole del compianto Bauman) e l’etica capitalistica ha sconfitto l’umanesimo, l’illuminismo, il razionalismo e persino l’idea di Dio sostituendoli con il padre denaro e i figli status simbol, nonché con il nichilismo morale ed etico. Dio è morto, ma è morta anche la ragione, la conoscenza, persino la filosofia morale di Kantiana memoria. L’ideale romantico e il concetto di identità di ottocentesca memoria hanno soppiantato l’uso della ragione. I romantici, che in un certo modo hanno dato via al nazionalismo e al successivo totalitarismo del Novecento, hanno introdotto il concetto di “intuizione”, di “spirito” e persino di “genio”, concetto oggi abusato in ogni contesto, persino quando un idiota fa una cazzata e la posta sui social. Sì, il genio, così come lo intendiamo oggi, non è il “genio” rinascimentale come Leonardo o il “genio” concepito dagli illuministi, ossia quell’individuo che usa la ragione e le conoscenze più alte per creare, ma è chi intuisce usando il senso e il sentimento, ossia una sfera interiore che non può essere misurata in termini oggettivi. E a proposito di individuo, è proprio qui che si sviluppa in modo deforme e difforme rispetto all’Umanesimo il concetto dell’individualismo: nel rapporto tra uomo e Natura, tra uomo e Storia, tra uomo e Società, ogni individuo è diverso perché ogni sentimento, ogni istinto, ogni stato d’animo sono diversi. Ciò che accomuna gli individui non è più la ragione e la conoscenza (che si possono misurare), ma è il sentimento, che però è diverso da persona a persona. Ecco che nasce l’esaltazione della personalità, la rivalutazione dell’Eroe (secondo una distorta rilettura dei miti) e quindi, di conseguenza, lo sviluppo degli istinti più bassi guidati e gestiti dall’Eroe di turno (guardacaso un leader carismatico).

Oggi il sistema capitalistico sfrutta la concezione romantica dell’individualismo per vendere e il sistema politico è imperniato sulla stimolazione degli istinti e la creazione costante di leader in cui riconoscersi e in cui credere ciecamente. Chiunque di noi ha avuto piena fiducia in un personaggio carismatico (che prontamente ha poi deluso le nostre aspettative): un sindaco, un presidente di Regione o anche semplicemente un personaggio noto. E’ l’individuo che ricerca costantemente una figura in cui riconoscersi e sperare, una società coesa e istruita non lo farebbe mai.

Ecco perché la destrutturazione del sistema scolastico, la nascita della conoscenza in pillole ormai strutturata su internet e la diffusione di contenuti tesi a rimbambire le masse sono un’arma contro lo sviluppo della ragione.

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Una scena del film The Island

Un po’ come nel film “The Island”, dove gli individui creati in provetta e pezzi di ricambio di gente ricca e famosa, sono appositamente tenuti nell’ignoranza, con il livello di istruzione di un bambino di terza elementare, proprio perché non devono conoscere, quindi ribellarsi contro il sistema che li sfrutta e li usa come pezzi di ricambio e quindi essere liberi. Il film è a lieto fine: la gente scopre la verità e diventa consapevole del proprio ruolo. Nella realtà, invece, siamo lontani da questa consapevolezza e ci stupiamo di ogni fatto di cronaca inspiegabile, ma che invece rappresenta il campanello d’allarme di una società in declino. Le migrazioni forzose e di massa, le guerre, l’economia stagnante, i fatti di sangue, persino la bassa natalità sono gli elementi che ci segnalano la morte della nostra società.

Noi siamo la curva calante di un percorso storico ormai alla fine. Proprio come l’Impero Romano d’Occidente.

La caduta dell’Impero Romano e gli elementi in comune con la nostra civiltà

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Già, l’Impero Romano cadde perché era giunto all’apice della sua grandezza e le spinte indipendentiste da parte della Periferia dell’Impero erano molte. Secondo molti storiografi l’Impero cadde soprattutto per questi motivi:

  • enorme calo demografico (dovuto a guerre, carestie e alle malattie);
  • crisi economico-produttiva che aveva provocato un’alta inflazione e il crollo dei commerci;
  • enorme migrazione dei romani di città (cioè dei cittadini dell’Impero) sia a causa delle guerre, ma soprattutto della povertà;
  • ingiustizia sociale, che vedeva i poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, contribuendo alla perdita di coesione sociale;
  • corruzione politica, eccessivo peso fiscale e mancanza di fiducia nel potere centrale di Roma.

Non so voi, ma a me sembra che ci siano gli stessi identici elementi che caratterizzano la nostra società: calo demografico e calo delle nascite, crisi economica e produttiva, con aziende che chiudono o delocalizzano gli stabilimenti all’Estero e piccole attività commerciali che falliscono; “fuga dei cervelli” e dei pensionati all’Estero, i primi per cercare opportunità lavorative e i secondi per cercare di campare con la misera pensione italiana; ingiustizia sociale netta ed evidente, con la scomparsa della classe media e l’acuirsi della forbice sociale tra ricchi e poveri; corruzione politica sia centrale che periferica (ogni giorno sentiamo di politici, amministratori o imprenditori arrestati per corruzione), eccessiva pressione fiscale e scarsa fiducia nella politica da parte degli italiani, tanto che oggi si parla spesso di “antipolitica”.

Le migrazioni incontrollate

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So che apparirò antipatico e impopolare nel parlare di questo argomento, ma le migrazioni di massa che si stanno verificando negli ultimi anni non sono certo paragonabili alle invasioni barbariche della caduta dell’Impero Romano, ma hanno elementi in comune. Anzitutto i numeri eccessivi, che non permettono il lento e graduale processo di integrazione, poi la gestione incontrollata e spesso approssimativa, che li costringe a vivere per lungo tempo in centri di accoglienza simili a carceri, in cui si acuisce lo scontro sociale e si formano i primi germogli di intolleranza, poi le città, che spesso vengono “suddivise” di fatto in quartieri auto-ghettizzati in cui i processi d’integrazione sono difficili se non addirittura osteggiati. Per non parlare poi dello sfruttamento del lavoro nero e schiavizzato, oltre a quello della prostituzione, che non rendono facile il processo d’integrazione, anzi, contribuiscono allo scollamento e all’odio sociale. Dati i numeri elevati, le crisi che attanagliano l’Occidente e l’incapacità effettiva di creare una società multietnica e pacifista, arrivo a pensare che si tratti di invasione. E attenzione, non di invasione volontaria da parte dei migranti. Non andiamo a guardare le singole storie, altrimenti perdiamo di vista il macro-processo. No, parlo di invasione di fatto, a tratti spontanea e a tratti forzata, che porterà presto alla disgregazione sociale e all’acuirsi dell’odio razziale, un odio che ci portiamo dietro dal romanticismo e dal nazionalismo e che è figlio della cultura individualista di stampo ottocentesco.

Dalla storia, come sappiamo, non abbiamo imparato niente. Né dal crollo dell’Impero romano né dalla formazione dei totalitarismi. Niente.

Tutto sommato, però, va bene così. Ogni civiltà nasce, cresce e muore, a volte nel peggiore dei modi. L’unico mio cruccio è che né io né i miei figli e forse nemmeno i figli dei miei figli vedranno il sorgere della nuova civiltà. Peccato. Spero solo nella prossima vita di rinascere gatto. Quello sì che è il vero eroe e simbolo dei nostri tempi.