Capacità di intendere e volere e influenze culturali dominanti

capacità di intendere e volere cultura egemone edonismo e narcisismo

Quest’articolo vuol essere solo uno spunto di riflessione che parte dall’analisi di un cruento fatto di cronaca – l’assassinio di due giovani fidanzati ad opera di un loro coetaneo – per arrivare a chiedersi cosa sia in effetti la capacità di intendere e volere e quali influenze abbia in ciò la cultura egemone. Il fatto … Leggi tutto

5 motivi per cui si rischia l’analfabetismo di ritorno

leggere evita l'analfabetismo di ritorno

L’analfabetismo funzionale e il conseguente analfabetismo di ritorno, come sappiamo, è la condizione di una persona incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità. Questa definizione venne coniata dall’UNESCO addirittura nel 1984, proprio perché, … Leggi tutto

Gig economy, chi sono i big che comandano il mercato del food

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Per molti la Gig economy è un’opportunità e un’innovazione, per altri, come il Ministro Di Maio, un settore da regolamentare con contratti collettivi o concertazioni con le Aziende. In realtà è solo una nuova veste di un modello che punta allo sfruttamento e che porterà l’economia reale alla stagnazione e a nuovi e sempre maggiori … Leggi tutto

Il desiderio di droga

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Ogni anno, quando parte la stagione estiva, animata da feste, concerti, discoteche stracolme di gente desiderosa di ballo&sballo, parte puntualmente la rassegna stampa, ormai quasi quotidiana, in tema di droga: sequestri di droga, arresti di spacciatori, i pericoli nell’assunzione di droghe, gli effetti devastanti delle droghe sui giovani e via discorrendo.

Allora, partiamo da un assunto semplice: l’argomento è tanto vecchio quanto di attualità. Sempre, ogni anno, almeno dagli anni Ottanta ad oggi, viene proposto e riproposto in tutte le salse e fa sempre presa (così come il sesso, la violenza o l’ammoree). Quindi mi son chiesto: ma perché non ne parlo pure io? Magari ci butto dentro un po’ di pensieri, di teorie, di considerazioni personali e contribuisco ad ampliare la già tanto abbondante letteratura sul tema. Massì, dai, facciamolo.

Però, assunto che l’argomento è vecchio, trito e ritrito, vorrei porre l’accento su due concetti tanto banali quanto spesso trascurati: non esiste la droga, semmai esistono le droghe; concetto ovvio, direte voi, ebbene provate a dirlo a chi fa le pubblicità progresso, ai genitori o – peggio – ai giornalisti che dicono sempre – banalmente – che la droga fa male, non curandosi affatto di spiegare che ogni droga nasconde diversi desideri (e questo è il secondo concetto) e quindi diverse cause che danno origine alla voglia di droga. Ma, peggio ancora, trascurano un altro aspetto ancora più ovvio: anche le droghe legali fanno male.

La droga legale e quella illegale

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Lo sappiamo tutti e sembra inutile ripeterlo, ma anche alcool e sigarette sono forme di droga, no? Entrambe hanno le caratteristiche tipiche delle droghe: alterano lo stato psico-fisico, creano dipendenza e provocano – in caso di abuso – problemi di salute e, in casi estremi, a lungo andare, anche la morte. Eppure sono droghe legali, come legali sono tante tipologie di medicinali che contengono gli stessi principi attivi di altre droghe (illegali), però socialmente sono accettabili, perché sono consentite per legge.

Quindi, riflettendo meglio, che differenza c’è tra una bottiglia di Jack scolata in una sera, 20 gocce di Lorazepam, una canna o una pasticca di Prozac? Per quanto riguarda le cause per cui si assumono, gli effetti (desiderati e non) o le conseguenze psico-fisiche, nessuna. Ma proprio nessuna. Per quanto riguarda, invece, l’accettazione sociale, quest’ultima è influenzata dalla legge, quindi dalla politica che – in nome della salute pubblica, del monopolio di Stato e della comunità scientifica internazionale – stabilisce cosa è legale e cosa no.

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E’ facilissimo procurarsi droghe legali su internet

Non esiste un concetto univoco di droga

Questa scelta arbitraria di decidere quali sono le droghe illegali e quali quelle legali è dimostrata anche da un’altra cosa: non esiste, nel nostro sistema penale, una definizione univoca di droga.

Esiste per tante altre cose (si sa, per esempio, cos’è lo sfruttamento della prostituzione, cos’è la diffamazione o cos’è un atto sessuale), ma non per la droga, per cui esiste solo un elenco di sostanze psicotrope illegali continuamente aggiornato dal Ministero della Salute. Eppure sarebbe facile, per il Legislatore, definire il concetto di droga. Non viene fatto semplicemente perché, sennò, verrebbero ricompresi anche l’alcool, il tabacco e tutti i medicinali per l’ansia, la depressione, l’insonnia, ecc.

Quindi si preferisce agire così, a tentoni, includendo di volta in volta le nuove sostanze psicotrope. Il ché, come tutti ben sappiamo, lascia ampio margine di manovra a quelli che – ogni giorno – inventano nuove smart drug, cioè droghe legali, i cui principi attivi non fanno parte dell’elenco e quindi, teoricamente, fino ai successivi aggiornamenti dell’elenco, possono essere spacciate senza alcuna conseguenza penale.

Insomma, se ci troviamo in questa situazione che ha del tragicomico (ma che è sì pericolosa, perché non sappiamo gli effetti delle nuove sostanze né con cosa vengono preparate) è solo colpa di scelte politiche che avevano senso negli anni Cinquanta, ma che oggi, per inerzia, perbenismo, lecchinaggio a Chiesa e case farmaceutiche, non vengono messe in discussione.

Il desiderio e il piacere

L’altro elemento che spesso molti trascurano è il desiderio.

Desiderio è una bella parola, ma che nasconde una forte dose d’inquietudine. Già, deriva dal latino de-sidus, cioè mancanza di stelle. Chi desidera, quindi, è insaziabile, perché brama qualcosa che non potrà mai avere e allora cerca di riempire la mancanza, ma non riempie nulla.

A questo concetto, prima dei latini, ci era arrivato Platone, con la metafora dei pivieri (charadriói), uccelli famosi perché si nutrono e defecano simultaneamente, quindi devono riempire un vuoto continuo, o dei morti dell’Ade, costretti a versare acqua in una giara forata, consapevoli che mai si riempirà.

Beh, in fondo anche ubriacarsi tutte le sere o prendere qualche goccia di valium è una forma di riempimento infinito di una giara bucata e drogarsi è quindi la stessa cosa: è desiderio, è voler riempire un vuoto che sarà pure sociale, individuale, causato dalla perdita dei valori, quello che è, fatto sta che è un vuoto incolmabile.

Lo sballo non è altro che una forma di alienazione dalla realtà, quindi un voler fuggire – per qualche ora – da quella vita normale fatta di noia, assenza di regole primarie (famiglia e scuola, in questo senso, hanno fallito miseramente) e di prospettive, difficoltà ad interagire nel mondo reale, isolamento, individualismo sfrenato, nichilismo dei valori e dell’affermazione del proprio sé sociale.

Il desiderio è sotteso al nulla, ad una mancanza

E con cosa colmi, almeno apparentemente e per poco tempo, quella mancanza? Con qualcosa di bello, di buono, di piacevole. Già, perché quasi tutti trascurano un aspetto essenziale nel comprendere il fenomeno, cioè che la droga è piacevole: le canne ti rimbambiscono e ti rilassano, l’ecstasy ti rende euforico e ti fa ballare tutta la notte, la cocaina ti eccita e ti stimola, l’eroina ti anestetizza e ti sottrae, per un po’ di tempo, alla fatica di vivere.

Se le droghe non fossero piacevoli non avrebbero senso di esistere e se è difficile uscirne non è perché ti rendono assuefatto (ciò vale forse per alcune droghe, non per tutte), ma perché non hai altri mezzi per riempire quel vuoto incolmabile e quella giara sempre più lesionata. Ma ad ogni droga corrisponde un desiderio e, in fondo, anche una funzione.

Le tipologie di droga e le funzioni sociali

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Hashish e Marijuana, le droghe leggere dei centri sociali

Le canne (o spinelli, anche se è una locuzione antica) sono tra le più diffuse droghe leggere in Italia e storicamente si attribuiscono a quegli ambienti alternativi, radicali, di sinistra, che molti identificano nei centri sociali.

Sia chiaro, le canne sono diffuse in modo capillare in tutti gli strati sociali, ma effettivamente si possono ricondurre a quella filosofia pacifista e non violenta tipica dei no-global alternativi, altromondisti e vagamente di sinistra. Perché? Primo perché si fumano quasi esclusivamente in compagnia (quindi è una droga socializzante) e poi perché le canne rilassano, rincoglioniscono e amplificano quel concetto del non ho voglia di fare un cazzo, molto diffuso in certi ambienti.

Si trova a costi bassi (da qui la capillare diffusione, anche tra gli strati sociali a basso reddito) ormai dappertutto, in particolare in eventi o locali alternativi (a cosa, non si sa più…).

Per il fatto che vengono annoverate tra le droghe leggere, si parla spesso di legalizzarle. L’argomento legalizzazione delle droghe leggere merita un approfondimento a sé e non mi pare il caso di trattarlo in questa sede, anche perché sull’argomento c’è molta confusione e un’abbondante letteratura, persino una proposta di legge.

L’ecstasy, la droga che toglie fatica e paura

E’ la droga più pericolosa per la salute ma la più diffusa nelle discoteche di tutta Italia. Ci sarà un perché? Se vogliamo sintetizzare gli effetti piacevoli dell’ecstasy, sono due: elimina la fatica fisica e riduce paure e tensioni sociali.

Insomma, chi assume questa droga può ballare tutta la notte, anche in modo esagerato, e non sentire fatica (da qui i numerosi casi di collasso cardiaco, perché il fisico, quando è stanco, ci lancia segnali che, invece, l’ecstasy nasconde), ma soprattutto perde quell’inibizione sociale che, spesso, è la prima causa delle frustrazioni nei primi approcci con una persona con cui si vorrebbe interagire.

Insomma, è una droga che nasconde due fatiche: la fatica fisica e la fatica d’intessere rapporti. E’ per questo che è la più diffusa tra giovani e giovanissimi, perché sono i primi a subire gli effetti dell’incapacità di allacciare relazioni reali e sono i primi ad aver perso quel concetto di trasgressione tipico degli assuntori di droga.

L’ecstasy, quindi, non è una droga, è solo un qualcosa che sciogli in un cocktail e che ti fa ballare, ti fa divertire, ti fa conoscere quella tipa che balla accanto a te e con cui, in condizioni normali, non ti sogneresti mai di provarci. Non capire questa sottile trasformazione della percezione dell’ecstasy significa fallire qualsiasi campagna di sensibilizzazione e qualsiasi tentativo di repressione del fenomeno.

La cocaina, la droga dell’efficientismo

In una società sempre più evoluta, che ti spinge a dare sempre il massimo di te, che ti induce a prestazioni che vanno oltre la tua tolleranza soggettiva, che ti oggettivizza e ti parametra ad altri (migliori di te), che ti dice o raggiungi il massimo o sei fuori, tu non hai più legami con il tuo corpo, le tue sensazioni, la tua soglia di fatica, i tuoi limiti soggettivi; ti senti inadeguato, non perché lo sei, ma perché gli altri ti dicono che devi andare oltre. Oltre a cosa? Oltre agli altri.

Devi alzare la tua asticella sempre un centimetro sopra gli altri, sennò non vali, sei superato, fuori, qualcun altro, più efficiente di te, ti sostituirà. E poi, oltre dove? Oltre in tutto: nello sport, nel lavoro, nei rapporti sociali, in tutto. E quindi la cocaina è quella droga che ti stimola, ti fa sentire meno la fatica, ti rende più efficiente.

Peccato che, finito l’effetto, torni a competere con la tua inefficienza, che altro non è se non la pura e semplice normalità. La coca, quindi, è anti-umana, è la negazione dei limiti soggettivi e la risposta ad un vuoto interiore provocato da richieste di performance sempre più pressanti e competitive.

E’ vero che la coca è una droga socialmente snob (dato l’alto costo) e accettata, assunta, diffusa da personaggi d’alto rango, politici, imprenditori e gente che conta, ma un’inchiesta del 2008 di Loris Campetti intitolata “quanto tira la classe operaia” mise in luce l’uso eccessivo di coca tra la classe operaia, appunto per poter competere con i ritmi incessanti dell’efficientismo moderno.

Tra l’altro, negli attuali tempi della crisi economica, anche il costo della coca è sceso ed è appannaggio non solo degli snob, ma anche di ampi strati sociali.

L’eroina e il buco che torna

L’eroina è una droga sporca, la più condannata socialmente, dai media e dai benpensanti, ma la più diffusa tra gli anni ’70 e ’90. Nell’immaginario collettivo è la droga dei tossici, degli ultimi, di quelli che ciondolano per strada, con la faccia smunta e gli occhi ormai persi nel vuoto, per raccattare qualche spicciolo e comprarsi un’altra dose.

Pensavamo che fosse finita, ma in realtà oggi s’insidia tra i giovani e meno giovani e si apre ad ampi strati sociali, a causa anche del bassissimo costo a cui si trova. L’eroina è la droga sporca per via del fatto che bucandosi con la stessa siringa si rischia la diffusione di malattie infettive e pericolose, ma è la droga di chi cerca l’anestesia totale dal mondo, di chi vuol sentire quel piacere che non è sballo, ma è abbandono, è morte apparente, è un viaggio fuori dalla realtà.

Se la coca costa tanto, le canne si fumano in compagnia, l’ecstasy è la droga del sabato sera, l’eroina è l’infame compagna della quotidiana solitudine, dell’inadeguatezza di stare al mondo, quel mondo da cui fuggi per non sentirne il dolore.

Le campagne di sensibilizzazione sbagliate e la cultura dell’anti droga

Ogni droga, quindi, ha bisogno di diverse cure, di diverse campagne di sensibilizzazione. Dire la droga fa male oppure crea dipendenza è banale, inutile e fuorviante. Una vera campagna informativa contro le droghe (e non la droga) dovrebbe avere target differenti (come si dice nel gergo dei marchettari) e parlare linguaggi differenti, dovrebbe stuzzicare i destinatari sulle cause, non sulle conseguenze, ma soprattutto dovrebbe smettere di puntare l’attenzione sulle dipendenze.

L’assuefazione fisica e psichica è l’ultimo dei problemi, lo è nelle droghe come lo è nel fumo di sigaretta. Peccato che a leggere il sito del Ministero della Salute, troviamo molta ignoranza in materia, addirittura si afferma che la dipendenza psichica è una dipendenza che non passa mai del tutto. Chiaramente con questa rappresentazione meccanicistica del problema non si arriverà mai ad una soluzione.  

Sono le cause e il contesto sociale in cui si sviluppano queste forme patologiche ad essere il fulcro del problema

Bene fanno le comunità terapeutiche ad indagare il vissuto di ogni persona che le frequenta (tossicodipendente è un’espressione che non amo usare, troppo brutta e inesatta), ma sappiamo che anche questa metodologia lascia il tempo che trova.

Perché nel momento in cui hai disintossicato con i farmaci la persona e hai creato, in comunità, uno scudo sociale, lo hai effettivamente aiutato, ma quando tornerà nel suo ambiente originario, gli scudi si romperanno e la voglia di riprendere tornerà inesorabilmente. Un po’ come accade a Mark Renton in Trainspotting: smette di bucarsi, con grande impegno, poi ritrova i suoi vecchi amici eroinomani e torna a bucarsi, così tutti i suoi sforzi si vanificano nel giro di pochi minuti.

Come con il fumo di sigaretta, così con la droga non basta un semplice cartello “vietato fumare” per far smettere improvvisamente alla gente di fumare, occorre creare una vera cultura dell’antidroga. Quindi, così come se oggi accendo una sigaretta e il gestore del locale o gli avventori mi si palesano ostili e mi offendono, così in discoteca potrebbe accadere la stessa cosa, se il ruolo della scuola, della famiglia, dei gestori dei locali e degli avventori fosse proattivo e non passivo.

Sembra facile a dirsi, e in effetti lo è

Non è un processo che si svolge dall’oggi al domani, ma occorre avere consapevolezza che per ridurre un fenomeno bisogna conoscerne le cause, non solo gli effetti. Quindi una campagna di sensibilizzazione che punta sul fatto che la droga uccide e la vita è più importante, è completamente fuori strada, perché è proprio la vita che porta tanta gente a drogarsi. Anzi, non la vita in sé ma la malavoglia di vivere, quindi se vai a dire ad un ragazzo che la vita è importante e la droga fa male, lo convinci ancora di più a provare tutte le droghe possibili!

Allora proviamo un attimo a capire le cause del fenomeno, sempre tenendo a mente che ad ogni droga corrisponde un malessere di fondo ben diverso, come diverso è il contesto sociale o il beneficio che si vuole trarne, smettiamo di parlare di dipendenze (nessuno è dipendente e le droghe non creano nessun fenomeno irreversibile né fisico né psicologico) e soprattutto smettiamo di considerare le droghe come elementi trasgressivi. Non lo sono più, ormai fanno parte della normale fuga dalla normalità.

La trasgressione, da quando abbiamo tolto i paletti morali, non esiste più e quindi le droghe non sono trasgressive, perché, anche se vietate, sono facilmente reperibili. E poi, per favore, smettiamola con queste insulse campagne di sensibilizzazione che parlano di quanto è bello vivere e quanto è cattivo drogarsi. Dopo aver visto questo video mi vien voglia di farmi un cocktail a base di cicuta.

Uscite dai Social!

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Ovvero, la truffa dei Social Network che ci controllano, influenzano e decidono su di noi con oscure linee guida.

I social, si sa, sono nati per far interagire le persone, mantenerle in contatto, creare nuove relazioni, condividere ricordi, esperienze, pensieri, far conoscere prodotti o servizi, per vendere sé stessi e per far conoscere e diffondere battaglie sociali o ambientali.

Insomma, sono una cosa buona, almeno per come sono stati pensati all’inizio. Però dal 2006 ad oggi (anno in cui Facebook, il primo Social Network, ha iniziato a diffondersi in Italia) molto è cambiato, in particolare nella gestione delle relazioni da parte di una sempre più spudorata filosofia del controllo e delle influenze sociali, non tanto quella di Orwelliana memoria (che ha ispirato la concezione del Grande Fratello e che trova le sue radici nel Panopticon di Jeremy Bentham), ma più semplicemente e meschinamente quella della pianificazione strategica degli obiettivi aziendali.

Secondo tale visione gli utenti sono considerati dei meri prodotti da cui trarre ogni informazione possibile finalizzata a vendere prodotti e servizi cuciti su misura, ma, dato che la frammentazione è difficile da gestire, finalizzata soprattutto a influenzare gusti e tendenze per poter, al fine, attuare pratiche commerciali di massa precedute da esperimenti sociali di massa.

E’ evidente che in questo contesto la politica internazionale, di stampo capitalista, è attratta da questi modelli come una mosca è attratta dalla cacca, per cui entra con tutti e due i piedi nella gestione dei Social, favorisce e influenza le linee guida per la moderazione dei contenuti, decidendo cosa è conveniente diffondere e cosa, invece, va relegato nell’oblio delle relazioni sociali virtuali o, peggio, va deriso, annichilito, strumentalizzato.

Detto in altri termini, molto più sintetici, i Social sono nient’altro che prodotti per calmierare il mercato delle relazioni sociali e per controllare, gestire e razionalizzare la massa (a)critica di contenuti teoricamente liberi ma influenzati, mentre quelli potenzialmente dannosi per la tenuta del sistema sociale vengono marginalizzati, derisi (anche e soprattutto dagli stessi utenti) e, al limite, oscurati. Nemmeno così è chiaro? Allora ti rubo solo 2 minuti per spiegare meglio il concetto. Ma, come mi piace fare sempre, parto dagli inizi.

La genesi di Facebook

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Mark Zuckerberg, l’uomo da un miliardo di dollari l’anno

Tra il 2003 e il 2004 un giovanissimo Mark Zuckerberg creò un portale finalizzato a rendere interattivo sul Web il classico faccia-libro dei college americani (da qui il nome) che raccoglieva foto, nome e corsi frequentati da ogni studente.

Dato il massiccio successo del Social, questo si diffuse rapidamente anche fuori dai campus universitari, trasformandosi da un Social per studenti a un Social per chiunque. Non più solo studenti, ma tutte le persone potevano entrare in contatto: parenti, amici, ex compagni di scuola, colleghi di lavoro, ecc.

L’idea era buona e, di lì a poco, portò alla nascita di una nuova concezione del web: non più perso nell’anonimato di nick e avatar, ma popolato da persone reali, cioè da persone che – volontariamente – inserivano sul social i propri dati personali: nome, cognome, luogo e data di nascita, foto personali, ecc., il tutto nel nome dell’allaccio dei rapporti.

Una vera rivoluzione digitale, insomma. Non che il web sia cambiato da quel momento, attenzione, perché ancora oggi, a distanza di 13 anni, sopravvivono forum, blog o chat popolati da pseudonimi e nick, ma è innegabile che Facebook abbia contribuito alla identificazione degli utenti del web.

Ma il sistema non funzionava…

Però il “sistema”, dopo pochissimo tempo, iniziò a scricchiolare, perché in effetti la gente gradiva la possibilità di interagire con persone conosciute o di riallacciare i rapporti con persone perse nell’oblio dei ricordi e magari residenti in altre parti del mondo (tanto che, per anni, è sopravvissuta la moda di creare gruppi di gente con lo stesso cognome, per ritrovare radici comuni), ma non gradiva affatto il confronto di idee diametralmente opposte alle proprie.

Insomma, molte persone, restie al confronto e al dibattito, cominciavano a disaffezionarsi allo strumento perché sgradivano la presenza, sulla propria home, di contenuti dissimili dalle proprie convinzioni.

L’algoritmo che ti fa sentire a tuo agio

Zuckerberg, che non è fesso e che spesso ha usato gli strumenti statistici di gradimento del proprio social (abusandone a volte) per capire le tendenze dei propri utenti, ha corretto il tiro creando un algoritmo che si chiama EdgeRank, il quale sceglie i contenuti da far vedere agli utenti in base ai contenuti che essi gradiscono tramite like, commenti e condivisioni.

Oddio, l’algoritmo cattivo è nato “ufficialmente” per gestire l’enorme mole di contenuti pubblicata sul social (quindi sarebbe impossibile mostrare tutto ciò che viene pubblicato dai propri contatti), ma di fatto apre a un nuovo interessante scenario sociale: l’utente viene inserito in una sorta di area di confort, in cui vede solo ed esclusivamente i contenuti di persone con cui interagisce maggiormente e che, quindi, apprezza.

Quello che i cervelloni della Silicon Valley cercano di fare è di trattenere quanto più possibile i propri utenti sul Social, mostrando loro cose che apprezzano. E’ evidente che questo sistema da un lato evita il confronto (o lo scontro) di visioni opposte, ma dall’altro rimbambisce le coscienze perché contribuisce a creare una visione (seppur virtuale) di un mondo conforme alle proprie credenze, illusioni e aspirazioni.

Un modello vincente

E’ inutile dire che il successo di questo “modello” è stato mutuato da altri Social, come Twitter, You Tube e Google Plus ed è stato attenzionato dalla politica globale.

Già, perché Zuckerberg, Larry Page, Sergey Brin e oggi il nuovo CEO Sundar Pichai (vertici di Google) si incontrano regolarmente con la Casa Bianca e persino con il Pentagono per questioni di sicurezza nazionale, ma soprattutto per definire le politiche dell’informazione globale.

Eggià. E’ recente la notizia per cui i vertici di Facebook e di Google hanno siglato un accordo volto a ridurre le bufale e le fake-news su internet. Come? Attraverso potenti algoritmi in grado di riconoscere le notizie false e relegarle nell’oblio della rete (in settima o ottava pagina su Google o in fondo alla home su Facebook), perché al giorno d’oggi le notizie scomode (o false, chissà) non si cancellano più (altrimenti si griderebbe allo scandalo e alla censura) ma semplicemente si relegano in fondo, dove solo gli utenti più certosini arrivano, ma dove la massa di utenti non arriva.

L’Italia finalmente ha una scusa per regolamentare la rete

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Pare ovvio dire che questo rimedio è stato invocato dalla classe politica e dai media nostrani come un toccasana per l’informazione “vera” (leggasi: di regime), perché, con la scusa della lotta alle bufale e alle fake-news, finalmente si ha una scusa valida per regolamentare un settore delicato e oggetto – da quasi 20 anni ormai – di disegni di legge sempre discussi ma mai approvati.

Ora, invece, la proposta attuale prevede l’istituzione di un’Autority pubblica e indipendente (anche dal sistema giudiziario) che, attraverso le segnalazioni, provveda a far cancellare i contenuti falsi e diffamatori in modo rapido e autonomo, cioè senza il preventivo passaggio da un organo giudiziale che – data la lentezza delle procedure – non permetterebbe di rimuovere in tempo contenuti potenzialmente diffamatori o pericolosi.

Le intenzioni sono corrette, sì, ma senza un contraddittorio saremo certi che i contenuti siano effettivamente bufale, fake-news, diffamazioni o non invece articoli scomodi al sistema di potere? Se è vero che le Autority sono organismi indipendenti, è anche vero che sono – di fatto e immancabilmente – sbilanciati verso chi li ha nominati (o li controlla o semplicemente ne conosce componenti e dinamiche interne…) piuttosto che verso il semplice cittadino.

Del resto in Italia siamo abituati al fatto che ogni legge liberticida è lastricata di buone intenzioni.

Ma questo sistema che si vuole introdurre in Italia, è già di fatto applicato dai gestori dei Social e tutti quanti ne conosciamo l’uso e le finalità: le cosiddette “linee guida”.

Le linee guida per la moderazione e l’arma della segnalazione

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A chi non è mai capitato di segnalare a Facebook o a Twitter un contenuto ritenuto offensivo? Si tratti di pornografia, odio o violenza, offese o insulti, più o meno a tutti quanti è capitato di segnalare contenuti sgraditi.

E quante volte Facebook ci ha risposto che i contenuti non sono stati rimossi perché non violano le linee guida? Capita soprattutto quando si segnalano gruppi estremisti che inneggiano all’odio razziale, al fascismo o alla violenza.

Rispettano le linee guida, sì.

Ma l’immagine di un quadro, come il Cupido di Caravaggio, viene immediatamente censurata perché non rispetta le linee guida. Ciò accade da anni ed è successo per un quadro di Modigliani, il Nudo di Courbet e per tantissime altre opere d’arte che contengono pure un accenno di seno! E quindi? Che criteri usa Facebook per stabilire cosa è conforme e cosa no? Per non appesantire la lettura, vi rimando a quest’ottima inchiesta del Guardian.

La realtà è che i Social hanno regole tutte loro per decidere cosa è sconveniente e cosa no, regole che – ovviamente – non sono né democratiche né socialmente condivise da chi usufruisce del servizio, semplicemente sono imposte e decise dagli sviluppatori e dai CEO dei Social, in combutta con la politica e, chiaramente, con i finanziatori.

E’ qui che casca l’asino.

Il caso Tartaglia

Ricordate il caso Tartaglia? L’assalitore di Berlusconi? Successe nel 2009. Dopo il fatto, nacquero diversi gruppi su Facebook, che inneggiavano all’assalitore. Nessuna segnalazione fu sufficiente a rimuoverli, ma bastò una telefonata dell’ex Ministro Maroni al CEO di Facebook per far rimuovere i contenuti.

Ecco, questa è la summa della democrazia sui social. E attenzione, badate bene, non è un problema di poco conto. Qualcuno risponderebbe che i vertici dell’Azienda possono decidere liberamente cosa far pubblicare e cosa no, perché in fondo il Social è casa loro e noi siamo “ospiti”. Ma oggi non è più così.

I social sono una cosa pubblica

I Social influenzano pesantemente ogni singolo aspetto della vita di una persona, persino della vita di un’Azienda o di una formazione politica, sono entrati così capillarmente nelle nostre vite e nelle nostre scelte quotidiane da esserne ormai parte integrante, quindi una discussione sulla democratizzazione dei Social sarebbe più che opportuna.

Andrebbe fatta almeno per riflettere su cosa sia davvero preminente per la tenuta sociale e democratica di un Paese, cioè se contano più le Costituzioni e le Leggi o il capriccio di un CEO che vive dall’altra parte del Mondo e decide le sorti di persone, gruppi, partiti o Aziende, così, magari di testa sua oppure influenzato da finanziatori e potenziali avversari delle sopracitate.

Il problema, come vedete, non è banale e comprende molti aspetti politici e giuridici: dalla gestione dei dati personali alla privacy degli utenti, all’educazione dei figli (come crescerà un figlio se sui social ha accesso libero a contenuti di odio e violenza?), alla diffusione di ideologie e concetti distorti, all’alfabetizzazione emotiva e, non ultimo, alla governance del web.

Gli esperimenti social

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Una cosa di non poco conto (se non vi bastassero quelle appena raccontate) è che Facebook ci usa costantemente per esperimenti sociali di vario tipo.

Per esempio, nel 2012 ha controllato quanti utenti iniziassero a digitare uno status che superava i 5 caratteri e che non veniva pubblicato entro 10 minuti dalla composizione. Ciò per capire cosa avrebbero scritto e cosa ha spinto gli utenti a non pubblicare il proprio aggiornamento. Ma non solo.

Le foto profilo con l’arcobaleno (per appoggiare i diritti dei gay) o con la bandiera francese (in segno di vicinanza ai francesi, colpiti dagli attacchi terroristici) non sono altro che esperimenti su cavie di laboratorio (cioè gli utenti che l’hanno fatto…) per capire quante persone si adeguano agli atteggiamenti collettivi e, quindi, sono facilmente influenzabili dalla viralità dei contenuti.

Tra l’altro la sempre più invasiva diffusione di contenuti di bassa qualità, per non parlare delle fake news, alza sempre più l’asticella dell’analfabetismo funzionale, che già in Italia ha raggiunto livelli allarmanti.

Gli esperimenti più nascosti riguardano i gusti e le tendenze commerciali

Quindi ogni volta che partecipi a un test tipo “cosa farò da grande” o “quale personaggio storico sarei” o, ancora, “chi ero in una vita precedente”, sappi che Facebook o aziende controllate, stanno studiando i tuoi comportamenti, i tuoi gusti e le tue tendenze. Perché? Per capire chi sei, cosa fai, cosa ti piace, per chi voteresti (esperimento già fatto nel 2010, con successo, e per cui le influenze sono state significative negli USA…), che gusti sessuali hai, come ti poni con la gente, ecc. Tutto nel nome del “sano divertimento social”, che per te è inoffensivo, certo, ma per loro rappresenta una forma di guadagno, di controllo e di influenza, commerciale e soprattutto politica.

Quindi se ti dichiari antisistema, ma poi partecipi a questi test (inconsapevolmente, ovvio), sappi che sei ben integrato nel sistema e ne esci fuori solo in un modo.

Uscite dai social!

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Uscite dai social non è un’esortazione, perché so benissimo che – almeno nel breve e medio periodo – ciò non accadrà e che ormai siamo tutti assuefatti dalla droga sociale e dal nostro alterego virtuale che ci consente di buttare sui Social tutte le nostre inadeguatezze reali e di crearci un personaggio, più o meno credibile e famoso.

Io, per esempio, non ci sto più. Sopravvivo solo su twitter, consapevole che, purtroppo, è un modo per far conoscere i miei quattro articoli ai miei quattro lettori.

Tra l’altro sappiamo tutti benissimo che la fama sui Social non corrisponde né alla fama reale né ad un nostro appagamento spirituale (né tanto meno materiale…), però anche questo fa parte della pia illusione – tutta moderna – che l’apparire virtuale conta più dell’essere reale.

Uscire è l’unico modo per salvarci

Uscite dai Social non è un’esortazione, è solo la lucida consapevolezza che è l’unico modo per salvarci, per smettere di essere cavie, per finirla di essere influenzati, per tornare ad essere persone e non prodotti e, per l’effetto, per ripristinare – questo sì nel lungo periodo – quel minimo di socialità e senso critico che ci consentirà, un giorno, di riprendere in mano le sorti del nostro Paese e di tornare a leggere, informarci e discutere faccia a faccia, magari arrabbiandoci a voce alta (e non pigiando con forza sulla tastiera e reprimendo quella rabbia annebbiata dalla luce del pc o del telefono).

Insomma, di tornare a quella vita reale fatta di scelte consapevoli che i cosiddetti nativi digitali non riescono nemmeno ad immaginare. Ma ciò non vuol dire abbandonare internet, semplicemente vuol dire abbandonare i Social, che di sociale – francamente – hanno un bel nulla e che ci stanno facendo dimenticare – a poco a poco – la vera socialità, quella fatta di sguardi, parole, toni e gesti che rappresentano la vita vera.

Quella vera, non quella che passiamo rincoglioniti davanti ad uno schermo, illudendoci di essere connessi col mondo ma in cui siamo solo prodotti marci, da svendere al primo inserzionista di turno, per venderci cazzate che non ci servono o per estorcerci (volontariamente, ma in modo indotto) voti e consensi, modificando, senza che noi ce ne accorgessimo, pensieri, ragionamenti, sogni e illusioni.

Il tutto mentre clicchiamo sull’ennesimo like o postiamo il buongiorno caffè? a un contatto, amico e compaesano, che non sa nemmeno chi cazzo siamo. Lui non lo sa, ma un tizio, dall’altra parte del Mondo, lo sa benissimo. E si sfrega le mani.

Le rapine e…la bella vita!

rapine bella vita

Proprio oggi ho letto sul quotidiano locale di una delle tante rapine al supermercato dove ogni tanto vado a fare la spesa. A memoria, in 10 anni da quando è stato aperto, è stato rapinato circa 15-20 volte.

E’ sempre lo stesso scenario: arrivano di sera, poco prima della chiusura, e razziano l’incasso. A volte è magro, come l’ultima volta (quando sono stati “prelevati” 900,00 €), a volte è più corposo (un’altra rapina, di circa 1 anno fa, ha fruttato ai malviventi circa 2000,00 €). Spesso i rapinatori sono stati individuati e sempre si trattava di giovani italiani, incensurati (o con precedenti di spaccio) e di “buona famiglia”.

Questo fatto mi ha fatto riflettere su un aspetto tipico del momento storico in cui viviamo, cioè che non si ruba più per fame, ma per lusso.

Dai, pensiamoci un attimo. Andiamo a spulciare la cronaca locale oppure i dati snocciolati ogni anno dal Viminale e scopriamo che il “grosso” delle rapine (o delle attività di spaccio) è svolto da giovani ragazzi, perlopiù incensurati e provenienti da ambienti “bene” o quantomeno dal “ceto medio”. Non sto parlando di criminalità balorda, tipica delle “periferie” e degli ambienti degradati, ma di micro-criminalità borghese.

Ora mi viene da pensare che a questi ragazzi, in fondo, non manca niente. Probabilmente sono studenti oppure giovani disoccupati che cercano di sbarcare il lunario come meglio possono. E non è un caso che sempre oggi è uscita un’indagine della Commissione Europea che indica l’Italia come il primo paese europeo per presenza di “neet”, cioè di giovani (15-24 anni) che non fanno niente: non studiano, non lavorano né cercano un lavoro. Sono il 19,9% (rispetto alla media europea del 11,5%).

Come campano questi ragazzi?

Ogni giorno, percorrendo le strade del mio paesello, vedo tanti ragazzi (giovanissimi!) che circolano con macchinoni tipo SUV o grosse berline, che passano le serate nei locali a bere o che si sfondano di aperitivi al mare, negli stabilimenti, dove solo per prendere un caffè paghi l’ira di dio.

Io, da piccolo imprenditore quale sono, provo ogni volta un senso di vergogna e di disgusto a cacciare tre euro e cinquanta per una Tennent’s, mentre guardo il tavolo di un gruppo di adolescenti pieni di acne che ne ha consumate almeno una trentina. E mi faccio i conti.

Quindi è detto fatto? Ci sta una “generazione” di ragazzi che non vogliono studiare, di lavorare manco l’ombra, però devono comunque “apparire in società” e, di conseguenza, spendere. Allora è forse spiegato perché c’è una così ampia recrudescenza di rapine, furti e spaccio? Forse, probabile. Non è così difficile fare due+due.

Del resto la vita oggi è cara e la bella vita costa anche di più. Poi se ci metti la precarietà del lavoro, gli alti costi e le innumerevoli incertezze del lavoro in proprio, nonché il fatto che “il lavoro stanca e non rende” unito al ripudio della fatica come antidoto ai mali del passato in cui i nostri nonni si sono “fatti il culo” e per cui i giovani provano una profonda antipatia, capisci che la via più semplice è quella di far soldi con facilità e oggi i modi sono pochi: o sfondi su internet (cosa che riescono a fare agevolmente solo i veri idioti) o vivi di rendita (cosa che fanno in pochi, cioè i sopravvissuti della crisi economica), oppure commetti reati (tipo: spaccio, rapine, furti…).

Lo stress dell’edonismo

Cioè pensa allo stress a cui è sottoposto un giovane d’oggi. Un pacchetto di sigarette costa 5 euro, un cocktail costa dalle 5 alle 15 euro (a seconda di dove vai…), un ingresso in discoteca (di quelle che contano) costa almeno 10 euro e a volte la consumazione non è inclusa. E che fai? Non ti prendi almeno 2-3 consumazioni? Poi metti il pre e il post serata: tra birre, panini, cocktail e sigarette, almeno almeno ti spari quelle 50-60 euro. Se poi “rimorchi” allora la spesa raddoppia, e lì so’ cazzi. Perché non puoi sfigurare davanti all’imposizione implicita di una consumazione offerta. Calcola che una volta si usciva il sabato e basta (se ti andava bene), mentre oggi si fa il pre-finesettimana il giovedì e poi il finesettimana il venerdì e il sabato. E ogni giorno so’ spese, e grosse pure.

E poi…un tatuaggio stupido, piccolo piccolo, costa 30 euro, e c’è chi se ne fa minimo 2-3, perché con uno non conti. E poi il macchinone, i vestiti griffati (cosa vuoi? Che indossi i vestiti del mercato?), l’orologio buono e gli occhiali da sole ray-ban. Ohi, che pensi? A occhio ci vogliono almeno 1000 euro di imprinting, oltre alle basilari 50 euro a sera, giusto per “apparire” e non sfigurare.

Paga papà? Paga il nonno? Sì, a volte. Ma a volte no. E quindi i soldi da dove vengono?

Il lusso costa

Tutto sommato, sti ragazzi che non lavorano, non studiano né hanno ben chiaro il proprio futuro, ma vivono nel confine tra la rendita e l’illegalità, supportati dalle paghette dei nonni e dai sotterfugi per “campare”, hanno ben impresso nella mente il principio del vivere moderno: non è la fame ciò che ci comanda, ma il lusso, o almeno la sua apparenza. L’apparenza è sostanza e la sostanza ha un costo. Non sono ladri di polli, che rubano per fame, sono ladri di supermarket o spacciatori di erba e cocaina e rubano e spacciano per un cocktail e per un tatuaggio o un aperitivo al mare. Del resto come dargli torto? Sono il frutto di ciò che abbiamo costruito finora, dei modelli a cui ci siamo ispirati, senza troppo pensarci, mentre abbiamo abiurato il passato, come un cattivo male da dimenticare. Sono loro, i nostri figli, i ragazzi che abbiamo educato davanti alla tv mentre noi distrattamente sceglievamo il modello di macchina più tecnologico e, per non sentire i loro pianti, li abbiamo viziati e gli abbiamo insegnato che chi lavora è un fesso, mentre chi fa il furbo è un dritto.

Solo una cosa mi fa sghignazzare: il momento, e sarà a momenti, in cui scenderanno con il culo per terra e vi ripudieranno, voi, genitori del cazzo che non siete stati in grado di insegnarli a riconoscere un albero ma siete stati bravissimi a fargli capire la differenza tra un cambio manuale e un sequenziale. Tempo qualche anno e i vostri figli tireranno i conti. Giusto il tempo di far morire i vostri genitori e le loro pensioni. Poi, giuro, mi gongolerò nel vedervi annaspare nel nulla, mentre troverete giustificazioni al vostro nulla educativo.