Articolo semiserio sull’applicazione, in vari ambiti della vita, del proverbio A ci fatia na sarda a ci nu fatia na sarda e menza.

A ci fatia na sarda a ci nu fatia na sarda e menza è sempre stato uno dei miei proverbi preferiti.

Si traduce letteralmente con A chi lavora una sarda, a chi non lavora una sarda e mezzo.

Ma la traduzione letterale non rende affatto l’idea.

L’altro mio proverbio salentino preferito è di lu jabbu no ci mueri ma ci ccappi.

Anche la traduzione letterale di questo proverbio rende poco l’idea: della derisione non muori, ma ti capita.

Il ché sta a significare che se ti fai beffa di qualcuno, non succede niente. Mica si muore. Ma prima o poi qualcuno si farà beffa di te. Quindi, cortesemente – dice il proverbio – evita di prendere per culo la gente.

Insomma, questi due proverbi sono stati per me come una guida, un faro, un modo per orientarmi nel mondo. Del resto la millenaria cultura folklorica, derivante dalla Civiltà contadina, è stata in grado, per secoli, di dedurre come va il mondo, senza scole, né cultura alta (per i vari concetti di cultura, vedi qua), ma solo grazie alla comprensione dei rapporti umani, resa più semplice dalla profonda comprensione delle cose della Natura.

Da lì, il passo verso la sintesi è stato breve. Sintetizzare, in modo poetico, è stato uno degli elementi di maggior pregio della cultura contadina. Perché la sintesi è poesia e la poesia è sintesi. E solo osservando ed interiorizzando, si arriva ad entrambi.

Del resto i proverbi sono un po’ come i brocardi romani: indicano, in modo sintetico, una massima, un concetto giuridico, una regola che, se non è universale, ci manca poco. Ma di sicuro si applica in contesti molto diversi tra loro e, curiosamente, restano sempre di grande attualità.

A ci fatia na sarda a ci nu fatia na sarda e menza

Insomma, questo proverbio mi risuona nelle orecchie sin da quando ero un imberbe fanciullo e mi son trovato a recitarlo lungo tutto il corso della vita, anche oggi, in differenti contesti.

Me lo diceva mio nonno quando, di ritorno dalla campagna, mi mettevo a tavola e mia nonna mi riempiva il piatto all’inverosimile, e a lui toccava meno. Mi guardava e, sapendo che in campagna, anziché lavorare con lui, me ne stavo a rincorrere le lucertole, sbuffava ed esordiva, in ironico modo solenne, con A ci fatia na sarda a ci nu fatia na sarda e menza.

All’epoca non riuscivo a cogliere la sfumatura, difatti obiettavo che quella era pasta con le polpette e non con le sarde!

Lui mi guardava e, da buon contadino, rispondeva solo con il linguaggio paraverbale, tornando con la testa sopra al piatto.

Il proverbio a scuola

Crescendo ho iniziato ad apprezzare questo proverbio, quando a scuola, dopo aver scelto di fare il classico, mi facevo il culo per prendere buoni voti, ma spesso non ci riuscivo. E vedevo alcuni compagni di classe che, senza sforzi, prendevano ottimi voti.

Certo, non sono mai stato una cima, ma la differenza tra me e loro stava nelle condizioni di partenza. I miei genitori, bravi cristi, lavoratori, persone oneste, ma senza istruzione. Entrambi operai.

I loro genitori erano insegnanti, medici, professionisti affermati. Che, se non aiutavano direttamente i figli con i compiti, di sicuro avevano le disponibilità economiche per permettergli ottimi maestri di doposcuola che, con molta probabilità, facevano pure i compiti al posto loro, dato che, in classe, il giorno appresso, parlavano delle uscite del pomeriggio prima.

Loro escono e prendono ottimi voti. Jeu a casa a faticare e arrivo al massimo alla sufficienza. Ma vaff…A ci fatia na sarda a ci nu fatia na sarda e menza, pensavo tra me e me, ingoiando il rospo.

Il proverbio all’università

Le stesse scene le trovavo durante l’università, a giurisprudenza, quando ti capitava di fare lo stesso esame con il figlio del personaggio influente (un prof, un giudice, un avvocatone, persino mi è capitato con la figlia di un ex ministro).

Una scena fu eclatante. Era tipo il 2002 e dovevo sostenere l’esame di diritto romano. A me toccava circa a metà mattinata ed ero lì, in aula, a cazzeggiare e ad ascoltare gli esami degli altri candidati. Poco prima di me toccava al figlio di un noto prof dell’ateneo. Ad un certo punto il prof di diritto romano si libera e fa per chiamare il candidato successivo in lista.

Questi si alza e fa per andare verso la cattedra. Ma il prof vede il figlio del collega, seduto in seconda fila. Anzi, svaccato.

Ad un certo punto il prof di diritto romano farfuglia qualcosa, manda il candidato indietro dicendo che deve esaminare il figlio del prof perché “ha fatto un semina…cioè…ha fatto un cors…vabbè, questo lo esamino io”.

Incuriosito dalla vicenda, mi avvicino di qualche fila per ascoltare meglio l’esame. Il tizio, svaccato anche sulla cattedra, risponde a cazzo di cane ad ogni domanda. Il prof non si scompone, è evidentemente in imbarazzo, ma non gli imbarazza assolutamente suggerirgli le risposte. Lui, di tutto punto, non solo ripete a pappagallo le risposte date dal prof, ma inizia a parlare di argomenti che non c’entrano nulla. Lì, davanti a decine di studenti, a qualche assistente, con tutti gli occhi puntati addosso, penso: ora lo boccia.

30 e lode.

Quel giorno presi 24. Non feci un ottimo esame, ma di sicuro risposi meglio del figlio del prof.

A ci fatia na sarda a ci nu fatia na sarda e menza, pensai uscendo dall’aula.

Il dopo laurea

Mi laureai e, non sapendo esattamente cosa farci di quel pezzo di carta, dopo varie riflessioni, optai per il praticantato.

M’imbarcai in uno studio battente bandiera civilistica e amministrativistica.

Così fan tutti. Poi si vedrà.

Lì scoprii un mondo che non conoscevo affatto. Quello del cottimo al prezzo sugli atti giudiziari.

Scoprii anche un’altra cosa. Che gli avvocati sono taccagni! Durante tutto il praticantato venivo mandato come una trottola in giro per la regione a depositar atti o presenziare alle udienze meno importanti.

Fiumi di benzina.

Segna, segna, mi diceva il dominus.

E tutte le volte anticipavo il contributo unificato.

Segna, segna, mi rispondeva quello quando, tornato in studio, gli presentavo timidamente il conto.

Ogni tanto mi rimborsava qualcosa. Ma giusto qualcosa.

Parlando con i colleghi, scoprivo che era usanza comune. E, in quei discorsi, scoprii il cottimo forense. C’erano colleghi che, pur abilitati, non avevano mai visto un tribunale, perché il loro lavoro principale era quello di scrivere atti per i principi del foro.

20 euro un atto semplice, 50 euro per uno più complesso. Si arrivava ad un massimo di 100 euro per un ricorso in cassazione o davanti al Consiglio di Stato.

A volte si trattava di appalti pubblici, quindi di ricorsi o impugnative per affidamenti per centinaia di migliaia di euro (talvolta di milioni) dove il principe pigliava onorari da migliaia di euro.

Ma l’ossatura del procedimento la faceva il cottimista. Era quello che si studiava le carte (talvolta tonnellate di atti), le norme (complesse, farraginose, tecnicissime), che buttava giù appunti su appunti, si studiava tutta la giurisprudenza, si comprava libri di dottrina, manuali, per arrivare a scrivere un atto che vale…100 euro. Per lui. Almeno con due zeri di più per il principe.

A ci fatia na sarda a ci nu fatia na sarda e menza, pensavo quando sentivo quei discorsi.

La Pubblica amministrazione

Nella Pubblica amministrazione forse ci si trova dinanzi alla summa dell’applicazione del brocardo A ci fatia na sarda a ci nu fatia na sarda e menza, perché è il posto dove, più di ogni altro, si realizzano le disparità tra chi lavora e chi non fa na cippa.

Tra chi guadagna poco e chi guadagna tanto, mettendo solo una firmetta.

Ho avuto qualche esperienza nella PA e certo non posso dire che sia dappertutto così, ma da Nord a Sud una cosa in comune l’ho trovata: A ci fatia na sarda a ci nu fatia na sarda e menza.

Oggi si parla tanto di performance, di qualità del personale della PA, di responsabilizzazione del settore dirigenziale, di qualità, efficacia, efficienza, ecc. ecc.

La realtà è che i posti chiave dell’amministrazione – qualunque essa sia – sono spartiti secondo logiche eminentemente politiche o clientelari. Dato che la nomina dirigenziale è spesso discrezionale dell’organo politico, succede che il dirigente viene messo al suo posto dall’amico dell’amico o dal politico taldeitali che ha ricevuto un favore o per chissà quali altre ragioni.

Intuitu personae, si dice nel gergo. Il ché sta a significare che il Sindaco o il presidente del CdA o qualunque altro organo politico di qualsiasi amministrazione, può scegliere discrezionalmente (e, cosa più importante, senza alcuna motivazione) chi collocare nel ruolo dirigenziale della propria struttura.

Va da sé che non sempre questa scelta premia il merito.

E ti capita, per esempio, di seguire procedimenti complessi, di studiare a fondo una certa disciplina, di sbattere la testa sulle carte, di leggere fiumi di giurisprudenza, ponderare l’imponderabile, compilare schede, fare calcoli complessi, improvvisarti economo, ragioniere, ingegnere, per poter studiare una certa materia di una certa complessità. Poi, finito tutto, prepari l’atto che viene firmato dal dirigente.

Tutto lecito, sia chiaro. Ma il dirigente mette la firma. Tu (e tutto il tuo ufficio) ci metti anima, lacrime e sangue.

Lui prende 6000 euro al mese, più i premi produttività, performance, posizioni organizzative e cazzi&mazzi. Tu arrivi a mill’eccinque e ci devi pagare pure il malox plus con quei soldi.

Qualcuno sostiene che il motivo per cui gli incompetenti vengono promossi è per salvare l’amministrazione. Perché in questo modo firmano e basta e non fanno danni. Teoria originale, ma ti scazza comunque sapere che loro, in un anno di stipendio, ci comprano casa, tu ci cambi le gomme del pandino del 1999.

Ma si sa, è così che va il mondo. Finché un giorno non ti arriva un atto scritto direttamente dal dirigente.

Ou, finalmente un po’ di voglia di lavorà! Che gli sarà successo? Pensi.

E ti arriva con strafalcioni grammaticali, periodi scritti con tempi diversi, relazioni testuali fatte ad minchiam. Insomma, pare un post di facebook scritto da un bimbominchia anziché un atto amministrativo. Tanto che pensi: se me lo scrivevo da zero, facevo prima. E pensi anche: se correggo troppo, si offende. Se non correggo, ne va della mia autostima. Che faccio?

E che pensi in questi casi, mentre arriva l’ora di pranzo e lui va a mangiare al ristorante e tu ti sei portato i panini da casa pe sparagnu?

A ci fatia na sarda a ci nu fatia na sarda e menza. Chiaru lu proverbiu?

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