Il bisogno di narrazione, essere ed esserci

la narrazione di enea e la pietas

Il bisogno di narrazione diventa sempre più una necessità. Che provenga da un giornalista, un vip o da un comune frequentatore dei social, oramai pienamente assorbito in quel mondo virtuale, raccontare la propria realtà soggettiva – sempre più attraverso immagini, battute, meme o qualsivoglia altra rappresentazione semplificata – è un bisogno impellente. Si dice che … Leggi tutto

Grande Mahmood!

mahmood

Ieri sera si è tenuta la 64° edizione dell’Eurovision Song Contest. Il nostro Mahmood, con la canzone Soldi, ha ottenuto il secondo posto arrivando ad un ottimo piazzamento dell’Italia e ottenendo pure il premio per la miglior composizione. Primo è arrivato Duncan Laurence, dei Paesi Bassi, con la canzone Arcade. Terza la Russia. Secondo su 41 Su … Leggi tutto

La repressione dello striscione

striscione zorro salvini restiamo umani

Facciamo il gioco dello striscione. Dirò qualche frase e valuteremo insieme se sono mere informazioni che meritano di essere censurate e, nel peggiore dei casi, perseguite penalmente, oppure un libero parere. La differenza tra un’informazione e un parere sta in questo: l’informazione in sé afferma un fatto specifico. Quando è pretestuosa o addirittura falsa non … Leggi tutto

Cannabis light, giullari e mafiosi

Il Ministro dell’Interno, che tante volte appare come un giullare di corte, ha deciso in modo autoritario di far chiudere la fiera della cannabis a Torino e, tramite una circolare indirizzata ai questori, ha fatto chiudere due negozi in provincia di Macerata, annunciando di estendere la circolare a tutta Italia. Insomma, il Salvini giullare si … Leggi tutto

Eroi per 15 minuti

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All’artista Andy Warhol si attribuisce la frase in futuro tutti avranno 15 minuti di fama. Non si sa se sia veramente sua, ma è la frase simbolo di un’intera filosofia artistica e sociale che ha rappresentato l’inizio di un percorso di orizzontalità dell’essere-per-apparire e di liquidità delle sovrastrutture sociali, tanto più evidente oggi che, con i social, ognuno può, con un poco di strategia, un pizzico di fortuna, contenuti tritati, semplicistici e a portata del più becero degli analfabeti funzionali nonché con l’aiuto di qualche esperton-santone di marketing digitale, assurgere alla gloria effimera della fama a tempo determinato.

Poi, siccome i media ci sguazzano con i fenomeni da baraccone del web e con tutti i fenomeni che potenzialmente possono vendere, allora creano una singolare commistione tra il quarto potere (la stampa), il quinto potere (la TV) e quello che oggi definisco il sesto potere (internet e i social in particolare).

Oddio, seguendo la ripartizione classica dei poteri (1, legislativo, 2, esecutivo, 3 giudiziario, 4, stampa e 5, tv) arriviamo ai social come sesto potere, ma seguendo una ripartizione più razionale e storicamente attinente, direi che TV, stampa e social sono diventati, tutti insieme, il primo potere post-mediatico che domina i tre classici poteri, tanto che, s’è visto, ormai la scena politica è influenzata dal sentiment della rete, ossia da quelle reazioni popolari che si evidenziano sui social ma che sono influenzate a loro volta da tutti quei commentatori, opinionisti, giornalisti, ma anche social media manager, markettari ed esperti di comunicazione che appartengono al quarto, quinto e sesto potere.

Quindi le influenze reciproche che si sostanziano in questi strumenti vanno poi a governare le scelte politiche che non sono più liberamente determinate da un’idea, un manifesto, un programma dettato da una visione del mondo, ma da contingenze sempre mutevoli come mutevole è il sentimento di quel popolo tanto idealizzato dalla destra sovranista quanto pericoloso perché (ovviamente) incapace di dettare la linea politica, privo di guida e di strumenti per decodificare il mondo e sempre influenzabile dalle mode e tendenze del momento.

In questo quadro in cui la politica insegue l’elettorato attraverso i social, i media influenzano la gente che poi riversa sui social la mutevole pappa pronta, l’analisi viene sostituita dall’emozione, la discussione cede il passo alla tifoseria, allora il gentismo da social è alla perenne ricerca non più di un’ideale o di una visione alternativa del mondo, ma di un simbolo, che possa guidare (per i 15 minuti simbolici di Warhol) le proprie emozioni individuali e collettive, ed ecco che nascono gli eroi.

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L’eroe non costruito (oggi non si costruisce più nulla, semmai si riprende, svuotando di contenuti) ma riadattato da quello di romanticista memoria, che esce fuori dagli schemi della storia, sente la propria legge morale più forte dell’etica o della legge positiva, si contrappone all’universalismo per difendere l’amor patrio, le proprie tradizioni identitarie, la giustizia naturale.

Dalla falsa riga dell’eroe romantico oggi nasce l’eroe post-mediatico, quello che sfida il potere, smuove le masse e le emozioni (non le coscienze), si fa portatore non tanto e non più di un’ideale, una visione, ma di uno o più temi, spesso di un’antistorica pretesa identitaria.

Richiamando quindi l’eroe romantico, oggi l’Italia conosce l’eroe sovranista, che sfida il potere, cavalca la paura del diverso e difende una presunta identità ormai storicamente superata nonché delle tradizioni abbondantemente distrutte dal modello consumista e che sono solo una teca da museo. Ma alla gente interessa che l’eroe salvi l’Italia dal declino, quel declino in cui lui stesso ci sguazza.

Ma l’eroe viene di volta in volta riproposto tra ciò che può avere clamore mediatico, che può vendere emozioni, ma anche generare visite, advertising, funnel e persino gadget. Ecco che il circo post-mediatico ricerca tra gli smartphone sempre connessi, simbolo del sesto potere, le condivisioni, le interazioni e il clamore suscitato dall’eroe del momento, così lo preleva, gli crea un simulacro maginifico intorno, lo stordisce, gli svuota tutti i contenuti lasciando solo il motto (o l’hastag) e lo rigetta nella mischia del gentismo che altro non vuole che riconoscersi in un simbolo, però temporaneo, che possa appagare l’emozione del momento e, come direbbe Bauman, regalare un momento piacevole, sopperire alla recondita paura dell’inadeguatezza con episodici momenti di eroismo altrui, in cui riconoscersi e per cui tifare, che regala una sensazione di rivalsa, un’emozione di subitanea giustizia, uno scuotimento momentaneo dal torpore di chi è invischiato nella melma del consumo, che altro non fa che recidere qualsiasi prospettiva programmatica, qualsiasi visione alternativa ma come contentino regala momentanee sensazioni di appagamento emotivo.

Greta, Simone, Ramy, Samir, che sono stati accomunati in quanto tutti ragazzini e tutti eroi, non sono gli eroi, sono invece diventati un oggetto di consumo del circo post-mediatico e subitaneamente gli opinionisti e i commentatori rappresentanti del gentismo interclassista e servi del modello consumistico e tardocapitalista che vuole che niente cambi ma che si regali l’illusione del cambiamentone hanno tessuto le lodi, additando invece chi, più adulto, è addormentato, incapace di reagire ai soprusi o di scuotere le coscienze. Cosa che invece questi ragazzini, rispettivamente nel proprio ambito d’azione, hanno fatto. 

Le parole più sagge che abbia sentito finora sono state quelle del padre di Simone, 50 anni, ex operaio Almaviva, (…) anche la sinistra non può accontentarsi dell’eroe di turno. Oggi è Simone, ieri era Mimmo Lucano, l’altro ieri era il consigliere di Rocca di Papa. C’è la persona che scalda gli animi per qualche ora, ma non un vero lavoro di organizzazione.

Tra i tanti commenti letti o ascoltati in queste settimane, partendo da Greta per poi giungere a Simone, tale pensiero è il più equilibrato e saggio e sintetizza lo sminuzzamento della dialettica che ci ha condotti a questo punto: liquefatta la società, crollate le ideologie e addormentati come se fossimo in Matrix, la gente acclama l’eroe e la politica si accoda osannante, insegue il sentiment della rete e si fa dominare e manipolare (consapevolmente o no) dal primo potere: il circo post-mediatico.

Da questa vischiosità non se ne esce se non si riannodano i fili con il passato, ossia con il lavoro dialettico di ricostruzione storica e ideale che parta dalle persone di buona volontà e dagli intellettuali, non quelli inutili  finti intellettuali che oggi lodano gli eroi, ma quelli che hanno anche il coraggio di evidenziarne il pericolo. E ce ne sono. Basta vedere quanti sono stati attaccati per aver espresso una voce fuori dal coro. Ricostruire la dialettica, soprattutto per mano degli intellettuali, significa anche avere il coraggio di affrontare il momento antitetico della negazione (ossia avere la gente contro) e di ritornare al momento sintetico dell’affermazione razionale come sintesi delle visioni alternative del mondo.

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Per concludere, lasciatemi approfondire il punto sul confronto tra generazioni.

Chi addita noi, generazione fallita, ossia quella dei nati tra gli anni Settanta e Novanta, dicendo che i giovani di oggi sono attivi, coscienti e lottano, mentre noi siamo addormentati e abbiamo abbandonato la lotta, ricordo che abbiamo vissuto le peggiori fasi del crollo degli ideali, della liquefazione della società, dell’interclassismo, siamo stati picchiati a Genova, dove hanno scientificamente distrutto una generazione, siamo stati annichiliti nell’ideale di ricostruzione di una società che nel frattempo si stava decostruendo, siamo stati beffeggiati e derisi quando parlavamo di antiglobalizzazione e proponevamo un modello solidale, mentre oggi subiamo le conseguenze della globalizzazione e la risposta è diventata il sovranismo (come cura peggiore del male). 

Siamo stati travolti dal consumismo, dall’edonismo voluto da chi, prima di noi, ha coscientemente iniziato il processo di abbandono dell’umanità, delle campagne, delle periferie della civiltà, della cultura popolare, per sposare la causa del benessere, dell’auto nuova, della seconda casa al mare, del cibo spazzatura edulcorato dall’invasiva pubblicità, degli status symbol, dei personaggi cicaleggianti nei talk show (mi perdoni Francesco se gli rubo l’espressione), delle copertine satinate che rappresentano modelli innaturali da perseguire a ogni costo e del conseguente edonismo di massa.

Ero bambino quando sono stato bombardato da un modello che tutti hanno preferito a quello scomodo e poco appetibile del socialismo, della solidarietà. Nei ruggenti anni Ottanta ci hanno insegnato a prevaricare, a far carriera, ad inseguire ideali materialisti, a svincolarci dai lacci e laccetti della morale cattolica o di qualsiasi altra morale, come fosse un macigno inutile al cospetto della leggerezza dell’avere.

Negli anni Novanta tutti plaudivano Prodi quando parlava di smantellare lo Stato sociale, privatizzare tutto ed alleggerire il mostro burocratico e nel frattempo, mentre le prime avvisaglie di una crisi non solo economica ma sociale iniziavano a palesarsi, tutti si sono fatti rimbecillire dal modello tette&culi proposto dalle reti televisive di Berlusconi (quindi dalla mercificazione della donna) e dall’americanizzazione invadente, fatta di armi di distrazione di massa e consumo usa&getta, che oggi vale non solo per le cose, ma anche nei rapporti umani.

Mentre accadeva ciò noi crescevamo, ci indignavamo, protestavamo in piazza e venivamo derisi dagli uni e abbandonati dagli altri, che nel frattempo distruggevano la quasi centenaria esperienza del PC e abbracciavano il riformismo e il modello capitalista. Insomma, lottavamo sia dentro che fuori le mura della politica domestica. E oggi quella stessa gente, unita a sconosciuti opinionisti venuti dal nulla del circo post-mediatico, addita noi e ci propone come modelli dei ragazzini che sì, sono migliori, lo sono sicuramente, ma sono dati in pasto agli squali

A questi ragazzi e a tutti gli adolescenti dico solo: non fatevi fregare anche voi. Quando vedete uno smartphone puntato in faccia, sputate nell’obiettivo. Quando vi additano come modelli o come eroi, spostate il dito da un’altra parte. Se noi venivamo derisi, voi sarete tritati, masticati e sputati nel circo post-mediatico, ad uso e consumo della gente.

Davvero ci serve un’arma?

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La riforma della legittima difesa è legge. Brevemente il nuovo provvedimento prevede che la proporzionalità tra la difesa e l’offesa sia sempre sussistente, che non sia prevedibile la punizione per grave turbamento, escludendo di fatto l’eccesso colposo nelle svariate ipotesi di legittima difesa e, infine, dispone che, in caso di furto in appartamento, il condannato possa accedere al beneficio della sospensione condizionale della pena solo dopo aver risarcito il danno alla persona offesa.

La modifica delle norme sulla legittima difesa va vista non come un provvedimento a sé, ma come un tassello di un quadro più ampio.

Subito dopo l’approvazione della legge, difatti, la Lega ha depositato in Parlamento una proposta di legge (collegata) per consentire una più semplice e meno burocratica diffusione delle armi da fuoco, per difesa personale.

Serve davvero un’arma?

A sentire Salvini, tutti gli esponenti della Lega e buona parte dei politici di destra, un’arma ci serve. Perché, a loro dire, l’Italia è un paese insicuro in cui i reati (soprattutto predatori) sono in aumento, tant’è che Salvini non manca occasione di pubblicare notizie di reati, in special modo quando commessi da stranieri, e di instillare tra la gente un senso di insicurezza sempre più diffuso. Complice anche buona parte dell’informazione, gli italiani oggi si sentono meno sicuri rispetto al passato e quindi sono facilmente persuasi dalla necessità di difendersi con le armi.

Eppure oggi ci sono meno reati che nel…1960 o, addirittura, rispetto al 1865! Ma senza andare troppo lontano, negli ultimi anni i reati in Italia sono sempre più in calo e siamo gli ultimi in Europa non solo per crescita economica, ma anche per il tasso di omicidi (in questo caso, meno male).

Già, perché se andiamo a leggere i dati che ogni anno, tradizionalmente a ferragosto, emana il Viminale (di cui, lo ricordo giusto per forma, Salvini è a capo), scopriamo che, per esempio, nel 2018 ci sono stati 319 omicidi rispetto ai 371 del 2017 (-15%), così come abbiamo avuto 1.189.499 furti contro 1.302.636 nel 2017, ossia una riduzione di quasi il 9%.

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Dati Viminale, 2018

La cosa più importante, però, riguarda la violenza di genere. In questo caso scopriamo che nonostante le denunce per stalking siano diminuite (anche se spesso ciò dipende dal fatto che le donne rinunciano a farle, per mancanza di fiducia nella giustizia), sono aumentati gli ammonimenti del Questore per violenza domestica (+17,9%) e gli allontanamenti (+33,1%). La cosa che più sconvolge sono gli omicidi in ambito familare/affettivo, rimasti invariati rispetto all’anno precedente e che hanno avuto come vittime le donne nel 68,7% dei casi.

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Insomma, la violenza non viene da fuori, ma da dentro le mura domestiche.

Se circolassero più armi, siamo sicuri che servirebbero a difendersi e non ad offendere? Non credo che una maggiore diffusione delle armi porterebbe gli italiani a sentirsi più sicuri, anzi, aumenterebbe il numero degli omicidi e forse anche quello dei suicidi, soprattutto tra le mura protette di proprietà rese sempre più sicure da intrusioni esterne ma, come si legge nei dati e come sappiamo dalle cronache quotidiane, sempre più fragili nei rapporti interni e familiari.

Se prendiamo ad esempio un Paese che apre alla vendita facile di un’arma, cioè gli USA, vediamo che, secondo una ricerca condotta dal servizio statistico del Congresso, su 327,2 milioni di abitanti, ci sono in circolazione quasi 360 milioni di armi (se escludiamo i bambini e gli anziani praticamente ogni americano ha almeno due armi in casa). E che succede? Succede che, per esempio nel 2015, su 336 giorni analizzati ci sono state 355 sparatorie, di cui molte sono state vere e proprie stragi (da notare l’assenza di analisi sotto Natale, quando tutti sono più buoni o più concentrati a consumare…).

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Sparatorie negli USA nel 2015

 Un’arma è uno strumento. E’ la razionalità che ne può fare uno strumento di difesa o di offesa. Ma nella realtà attuale esiste la razionalità? O semmai esiste una paura indistinta, artatamente sobillata dalla propaganda politica, non suffragata dalla realtà stessa, che porta alla nevrosi e all’irrazionalità? E non esiste forse un’irrazionale e violenta manifestazione di odio nei confronti di stranieri e donne, soprattutto, per queste ultime, all’interno del proprio ambito familiare? E se in quest’ambito si avesse a disposizione, anziché un coltello da cucina, da cui ci si può bene o male difendere, una pistola? E’ logico prospettare che in questo modo aumenterebbero i delitti di genere?

Un’arma è uno strumento. E’ il fine che la rende dannosa o meno. Ma la storia ci insegna che più si diffondono le armi e più se ne fa un uso distorto. So che questo mio pensiero è controcorrente e non smuoverà minimamente le coscienze di chi è mosso dalla paura più che dalla ragione, ma sono sicuro che in un futuro remoto ci renderemo conto della follia di irrazionali scelte politiche che oggi sembrano ragionevoli a chi la ragione l’ha smarrita per la via.

Il congresso mondiale sulle famiglie è solo folklore

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E’ iniziato oggi a Verona il congresso mondiale sulla famiglia tradizionale e, tra mille polemiche, molti commentatori hanno evidenziato subito gli orrori che sono fuoriusciti dal convegno o al margine di esso, tra cui “i gay sono da curare”, “l’aborto è omicidio” oppure “la donna deve tornare a essere mamma” e altre amenità del genere. Ora, a parte le valutazioni politiche e le possibili ricadute politico-giuridiche di certe affermazioni (che non starò qui a trattare e che spetta alle opposizioni contrastare nelle dovute sedi), quello che invece va messo in risalto è l’aspetto grottesco, cinematografico e sotto molti aspetti folklorico (nella sua accezione più sprezzante) di tutto questo circo appena sbarcato a Verona.

Detto in estrema sintesi, la salvaguardia della famiglia tradizionale è una sciocchezza enorme, utile solo a creare dibattito, tenere impegnati i giornalisti e l’opinione pubblica e distogliere l’attenzione dal suo intento più intimo. Questa semplice affermazione trova legittimazione in due ancor più semplici considerazioni: la prima è che nell’attuale società post-moderna la famiglia, intesa in senso tradizionale e nell’accezione data dagli organizzatori dell’evento, non esiste più, è anacronistica e nessuna operazione politica o di carattere sociologico potrà mai riportarla in vita. La famiglia tradizionale è stata superata dalla Storia come è stata superata dalla Storia quella cultura dominante e le sovrastrutture che la tenevano in vita.

La seconda considerazione è invece più strettamente legata alla struttura di fondo della società dominante, ossia che con questo convegno e con le politiche volte alla tutela della famiglia tradizionale si sta disperatamente cercando di mettere una pezza alla dissoluzione di quel nucleo sociale fondamentale che rappresenta il più importante riferimento nella società dei consumi.

Spiegherò subito le due considerazioni, ma prima voglio sottolineare che i due aspetti, in apparenza antitetici, sono in realtà intimamente connessi perché si fondano su una visione post-moderna, consumistica ed edonistica del concetto di famiglia e tutti i principali sovranisti e conservatori, parlando di famiglia tradizionale, confondono ad arte significante e significato e parlano alla pancia di una (larga) parte del Paese che non ha ancora ben chiaro il mutamento sociale avvenuto negli ultimi decenni.

La famiglia tradizionale è scomparsa

Zygmunt Bauman
Zygmunt Bauman

Zygmunt Bauman, in La società dell’incertezza, scrive che le

reti di protezione, tessute e tutelate con mezzi propri, le “trincee di seconda linea” un tempo messe a disposizione dalle relazioni di vicinato o dai rapporti familiari, dove si poteva trovare rifugio e curare le ferite procurate nelle dure battaglie della vita esterna, se non sono del tutto smantellate hanno comunque subito un considerevole indebolimento. Parte della responsabilità è da attribuire alle nuove (ma sempre mutevoli) pragmatiche delle relazioni interpersonali, pervase ora dallo spirito dominante del consumismo che identifica nell’altro un potenziale mezzo per ottenere gradevoli esperienze. Qualsiasi cosa siano in grado di fare, le nuove pragmatiche non possono generare legami duraturi. Il tipo di legami che esse producono in abbondanza, incorpora clausole “a scadenza” e “a libera contrattazione” e non promettono né l’attribuzione né il conseguimento di diritti o di obbligazioni.

Diritti e obbligazioni che invece rappresentano, secondo una concezione tradizionale della famiglia, la struttura sulla quale imperniare il rapporto familiare.

A differenza che nel passato, nella visione classica del concetto di famiglia, influenzato certo dalla morale cattolica, ma basato sulla comunanza d’intenti e sull’assistenza morale e materiale, nella società post-moderna la morale cede il passo a rapporti umani frammentari e discontinui in cui le visioni della vita post-moderna sono in perenne lotta contro i “fili che legano” e le conseguenze di lunga durata, e militano contro la costruzione di reti di doveri e obblighi reciproci che siano permanenti, in quanto l’Altro (il partner) viene visto come oggetto di valutazione estetica, non morale, come una questione di gusto, non di responsabilità. L’autonomia individuale si schiera contro le responsabilità morali, si disimpegna ed evita di precostituirsi degli obblighi, sopprimendo di fatto il complesso etico-morale che è alla base del matrimonio e, dunque, della famiglia.

La società dei consumi ha prodotto l’individualismo e l’edonismo (lo rilevò persino Paolo VI nel 1968), ha spinto l’individuo a tal punto da disgregare quel complesso di norme morali che rappresentano la tradizione (non solo quella giudaico-cristiana su cui si basa l’Occidente europeo, ma anche quella della civiltà contadina stratificata, che fino a 60 anni fa era una sub-cultura strutturata nella cultura dominante) e, di conseguenza, la famiglia tradizionale.

Le famiglie nella società dei consumi

Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini

Ma la società dei consumi, dopo aver prodotto l’Uomo-edonista che rifiuta le responsabilità insite nel nucleo familiare, svuota di contenuto buona parte della sua cultura e la sostituisce con l’interesse, l’eccitazione, la soddisfazione o il piacere, si accorge di avere bisogno della famiglia e di considerarla il centro dell’interesse in quanto, come scrive Pasolini in Scritti Corsari,

la civiltà dei consumi ha bisogno della famiglia. Un singolo può non essere il consumatore che il produttore vuole. Cioè può essere un consumatore saltuario, imprevedibile, libero nelle scelte, sordo, capace magari del rifiuto: della rinuncia a quell’edonismo che è diventato la nuova religione. La nozione di «singolo» è per sua natura contraddittoria e inconciliabile con le esigenze del consumo. Bisogna distruggere il singolo. Esso deve essere sostituito (com’è noto) con l’uomo-massa. La famiglia è appunto l’unico possibile «exemplum» concreto di «massa». È in seno alla famiglia che l’uomo diventa veramente consumatore: prima per le esigenze sociali della coppia, poi per le esigenze sociali della famiglia vera e propria. Dunque, la Famiglia (…) che per tanti secoli e millenni era stata lo «specimen» minimo, insieme, della economia contadina e della civiltà religiosa, ora è diventata lo «specimen» minimo della civiltà consumistica di massa.

Come acutamente osserva Pasolini, la famiglia è il fulcro, la cellula primaria dell’interesse della società dei consumi e passa dall’essere centro del potere della Chiesa (o delle sub-culture contadine) a centro del potere del consumo, quindi del capitale. Sfaldare la famiglia secondo la logica post-moderna dell’edonismo e dell’interesse a breve termine (la velocità non crede nella ripetizione, è anticerimoniale, scriveva Franco Cassano) significa frammentare nel tempo e nello spazio risorse e strategie, perdere profitti, quote di mercato.

Da qui la considerazione iniziale che l’attuale congresso sia un momento folklorico. Lo è negli aspetti che molti commentatori stanno evidenziando in questi giorni, ma non lo è nel suo intento più intimo e non palese.

L’intento, non palesato, di chi propugna la famiglia tradizionale non è quello antistorico di tornare indietro, perché sennò si dovrebbe tornare al dominio culturale e spirituale della chiesa se non addirittura al latifondo, ma è quello attualissimo di ricostruire i brandelli di una sovrastruttura che possa reggere i colpi di una struttura ormai al collasso e che, proprio in questi momenti, mostra la sua maggior ferocia: la struttura economica del capitale.

Via la plastica dai bar!

plastica bar

Siete mai entrati in un bar a prendere un caffè? Domanda retorica, certo. E quante volte, insieme al caffè vi hanno servito anche l’acqua in un bicchiere di plastica? Al Sud è un rito e guai se il barista non prende l’iniziativa e serve subito l’acqua, mentre nel resto d’Italia questa pratica non è costume diffuso ma dipende molto dalla sensibilità del barista. Ad ogni modo, nei miei continui spostamenti in giro per l’Italia, poche volte ho ricevuto un rifiuto nel chiedere un bicchiere d’acqua e pochissime volte questi prevedeva un pagamento extra.

Sapete quanti bar ci sono in Italia? Secondo la Fipe (Federazione Italiana Pubblici Esercizi) ad oggi nel nostro Paese ci sono 149.154 bar, ossia quasi 150 mila bar!

E quanti caffè vengono serviti ogni giorno? Secondo alcune stime circa 70 milioni di tazzine di caffè, ma queste stime tengono conto del numero totale di caffè bevuto dagli italiani ogni giorno (circa 4), che comprende ma non si sostanzia nel consumo di caffè al bar. In altre parole gli italiani, in media, bevono circa 4 caffè al giorno di cui un paio a casa, uno sul luogo di lavoro e uno al bar.

Se però facciamo una stima al ribasso, calcolando in media 100 caffè al giorno serviti nei bar, arriviamo a circa 15 milioni di caffè serviti ogni giorno. Una cifra al ribasso, ma comunque impressionante!

E di questi 15 milioni, quanti sono i bicchieri d’acqua consumati? Se, anche in questo caso, facciamo una stima molto al ribasso e calcoliamo che solo la metà dei baristi serve il bicchiere d’acqua in plastica si tratta di 7,5 milioni di bicchieri di plastica che vengono serviti, utilizzati e gettati. Ogni giorno.

Già, la plastica. Perché sono rarissimi i bar che servono l’acqua nel vetro, dato che si perde tempo a lavare un bicchiere di vetro, mentre il bicchiere di plastica è molto più comodo: si serve, si beve, si butta via. E con i ritmi di lavoro sfrenati di molti bar italiani (soprattutto nelle ore di punta) è impensabile tenere impegnato un dipendente solo a lavare i bicchieri. Tra l’altro il vetro è scomodo, si scheggia e si rompe facilmente. E poi quanti clienti storcono il naso quando l’acqua gli viene servita in vetro poiché sospettano che non sia stato lavato bene?

Sapendo che una confezione di 100 bicchieri di plastica pesa 2 kg e facendo un rapido calcolo, ci rendiamo subito conto dell’enormità dello spreco di plastica che si perpetra in Italia ogni giorno: 150 mila kg di plastica vengono usati e gettati via, ogni giorno.

Riflettiamo un attimo: il barista ci serve l’acqua nel bicchiere di plastica, in un sorso la beviamo e pochi secondi dopo quest’ultimo diviene già immondizia.

Qualcuno ribatterà: ma la plastica viene riciclata! Su quest’argomento ci sarebbe molto da dibattere, dato che in Italia sono pochissimi i Comuni che fanno una corretta raccolta differenziata della plastica, perché ogni plastica ha una sua composizione chimica e solo un corretto riciclo ne consente la selezione e la successiva messa in produzione.

Ad ogni modo quanti bicchieri di plastica, nei bar, finiscono nei cestini dell’indifferenziata? E quand’anche finissero nei cestini della plastica, con quanti altri oggetti – di plastiche differenti – vanno a mischiarsi?

Da qui nasce una riflessione molto semplice: se si evitasse il consumo di plastica nei soli bar di tutta Italia ogni giorno risparmieremmo 150 tonnellate di immondizia in plastica, con notevoli risparmi sia in termini ambientali che economici.

Secondo il WWF ogni anno vengono riversati nel mar Mediterraneo almeno 150 mila tonnellate di plastica, ossia il corrispondente della plastica prodotta solo nei bar d’Italia in poco più di 2 anni.

Sarebbe davvero un onere così eccessivo se tutti i baristi d’Italia passassero al vetro solo nel servire l’acqua? Solo per un gesto così semplice? Anzi, credo che sarebbe una scelta etica, di facile esecuzione e che farebbe risparmiare all’Italia un così elevato consumo di plastica. L’ambiente lo possiamo salvare anche con piccoli gesti. E oggi, che gli allarmi sui cambiamenti climatici diventano sempre più tangibili, anche i piccoli gesti quotidiani possono fare la differenza.

Hanno fatto bene a licenziare la prof che augurava la morte ai poliziotti

Lavinia Flavia Cassaro poliziotti torino

Lavinia Flavia Cassaro, l’insegnante torinese di 38 anni che il 22 febbraio scorso, durante una manifestazione, ha urlato ai poliziotti “dovete morire” è stata licenziata. Il sindacato che la difende ha ritenuto il provvedimento eccessivo rispetto alla vicenda. In realtà hanno fatto bene a licenziarla, per tanti motivi (non certo perché l’ha chiesto Renzi).

I fatti

il 22 febbraio, durante un corteo di Casapound, Lavinia Flavia Cassaro, la giovane maestra che manifestava contro il corteo, si trovò a scontrarsi con i poliziotti che garantivano l’ordine tra le due manifestazioni. Per puro caso si trovavano lì le telecamere della trasmissione Matrix, che ripresero la scena.

Cassaro augurava la morte agli agenti e, alle obiezioni del giornalista che le ricordava il suo ruolo da insegnante, lei rispondeva: “è triste sì, ma non è sbagliato, perché loro stanno proteggendo i fascisti e un giorno potrei trovarmi fucile in mano a combattere contro questi individui”.

Dopo che il caso mediatico divenne di portata nazionale, la Cassaro ribattè: “Non auguro davvero la morte a nessuno ma ero arrabbiatissima. Ho detto quello che pensavo ma è stato travisato. Mi sento stupida ho dato adito a  costruire un castello mediatico. Se fossi riuscita a mantenere  la lucidità avrei espresso meglio i miei pensieri. Mi sento in  colpa? Nei confronti dei miei compagni”. E continua: “Non avrei dovuto cadere in questi tranelli e farmi travolgere dalla passione e dalla rabbia, ma la nostra Costituzione dichiara che il fascismo è un reato e CasaPound è esplicitamente un partito fascista. Io mi sento profondamente antifascista”.

Fascismo e antifascismo

Qui preme sin da subito porsi qualche domanda di carattere generale: cos’è il fascismo e cos’è l’antifascismo? Che ruolo hanno le forze dell’ordine in tutto ciò? Da queste – apparentemente – semplici domande ne giungono altre, più specifiche e di carattere semiotico: davvero Casapound è un partito di ispirazione fascista? Davvero un appartenente alle forze dell’ordine merita di essere etichettato come difensore del fascismo o servo del sistema?

Prima di rispondere a queste domande mi preme sgomberare il campo da una sotto-considerazione che ritengo scontata: non si augura mai la morte a nessuno. Mai. Se quest’espressione, pur partendo dall’impulso e dalla rabbia, viene usata, pare evidente che faccia parte del costrutto mentale di chi l’adopera, se non del suo bagaglio culturale. In altre parole, puoi avere tutta la rabbia in corpo, ma dire “dovete morire” è l’esemplificazione, dettata dall’emotività e dall’eccitazione del momento, di un più profondo odio verso determinate categorie che vengono interpretate come nemici e servi del sistema: i poliziotti e, chiaramente, i fascisti. Già di per sé questa semplificazione derivante da convinzioni di tipo meramente semiotico a compartimenti stagni (e storicamente superata) sarebbe sufficiente ad etichettare come inadeguata all’insegnamento una persona del genere.

I fascisti

Ma ora bisogna rispondere alla prima domanda. Casapound rappresenta un partito fascista? No, affatto. Semmai è la parodia di una parodia. Il fascismo storico, in Italia, non ha mai scalfito la cultura di fondo degli italiani, dunque il loro linguaggio e le loro rappresentazioni della Realtà. Qui l’ho spiegato meglio.

Se andassimo ad analizzare le varie forme di fascismo, sin dal dopoguerra, scopriremmo che le stragi di stato, le strategie della tensione, gli attentati, l’eversione nera e i golpe, tentati e falliti o sommessamente messi in atto, altro non sono che rappresentazioni intrinseche di un potere solo superficialmente connotate da un termine che richiama il ventennio. Insomma, quelli degli anni ’70 erano davvero fascisti, ma non nel senso di eredi del ventennio. Come loro anche i brigatisti lo erano, lo erano anche i ragazzi antagonisti che occupavano (e lo fanno tutt’ora) le scuole e le facoltà.

Oggi, se dovessimo individuare i fascisti, li ritroveremmo in molte realtà, meno che in quelle che nominalisticamente lo sono. Forza Nuova, CasaPound e quei gruppetti che inneggiano in modo quasi romantico al ventennio fascista sono una parodia di una parodia durata vent’anni.

Dunque manifestare contro una parodia è qualcosa di assolutamente antistorico e privo di qualsivoglia analisi della realtà. Anche quest’aspetto fa capire come una docente, semioticamente antifascista ma culturalmente inserita in un contesto fascista, non stia manifestando contro il vero fascismo (cioè quello che le sta intorno), ma contro una parodia. Mi chiedo come faccia a insegnare a dei bambini l’analisi se poi non è consapevole di andare a manifestare contro una parodia. Perché se lo fosse, evidentemente, non ci andrebbe.

I poliziotti

E qui veniamo alla seconda domanda. Davvero un appartenente alle forze dell’ordine merita di essere etichettato come difensore del fascismo o servo del sistema?

Sarei tentato di scomodare Pasolini, quando in una sua poesia del ’68, scrisse: Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. Ma poi diventerei qualunquista, dato che quei suoi versi, un po’ ironici, provocatori e “scritti male” (com’ebbe lui stesso a dichiarare), andrebbero letti nell’hic et nunc, anche perché Pasolini stesso dichiarò: “(…) la vera rivoluzione non la faranno mai gli studenti, perché sono figli di borghesi. Al massimo potranno fare una “guerra civile”, in questo caso generazionale, in seno alla borghesia”.

Da questi due versi, dalla precisazione e leggendo tutto ciò nell’ottica dell’attualità, un fondo di verità c’è e va letto con due chiavi. La prima è talmente banale che mi pare scontata: i poliziotti sono persone che fanno un lavoro che prevede il rispetto di ordini. Eh vabbè. Concetto scontato, ma che non sempre lo è (non per gli antifascisti che inveiscono contro o per i ragazzi scemi che scrivono ACAB sui muri). La seconda è che in questo clima così liquido (mi perdoni Bauman per la semplificazione), un poliziotto può essere tanto fascista quanto antifascista e un fascista può essere più antifascista di un fascista. Un antifascista propugna gli stessi temi di un fascista (entrambi sono contro la guerra, o entrambi sono ambientalisti, per esempio) e un poliziotto può avere le stesse idee di un fascista/antifascista. So che sembra di aver detto una marea di banalità, ma il succo del discorso è che cadute le rigide distinzioni sociali e idelogiche, come si può ancora ragionare in termini di buono/cattivo quando si parla di fascismo/antifascismo e di polizia/manifestanti?

Oggi non viviamo più lo scontro dialettico tra borghesia e potere operaio, tra polizia serva del capitalismo e della repressione di Stato e movimento comunista. Non più, tutto ciò è crollato e tutti, indistintamente, siamo sotto l’egida delle regole di mercato. Il capitalismo ha fatto il suo dovere e ha terminato la sua opera egemonica. E quindi a che serve prendersela con un poliziotto che, allo stato attuale, potrebbe essere – culturalmente – sullo stesso piano di un antifascista?

Gli antifascisti

E qui veniamo agli antifascisti moderni. Se quelli della Resistenza lottavano contro i fascisti storici e l’occupazione nazista, se quelli del ’68 ebbero a lottare contro la borghesia, quelli di oggi cosa rappresentano? A parlare di temi socio-economici o geo-politici, non vedo molta differenza tra gli uni e gli altri. Non è un caso che il M5S abbia fatto del qualunquismo (destra e sinistra non ci sono più) il suo cavallo di battaglia e non è un caso che le accuse di fascismo rivolte a Salvini facciano un buco nell’acqua. Già, perché a sentir parlare gli antifascisti sembra che siano rimasti a Windows 95 mentre oggi si parla di Cloud computing. Su numerosi temi l’antifascismo odierno è diventato mero buonismo (vedi l’accoglienza indiscriminata e anti-analitica delle migrazioni) oppure conservatorismo nominale (opporsi ad una via intitolata ad Almirante o a gadget che richiamano al fascismo storico). Essere legati ancora all’antifascismo nominale è un’operazione che allontana sempre più la gente dalla critica e l’avvicina al populismo.

Non mi pare di aver letto grandi proteste quando Oettinger disse “saranno i mercati a insegnare agli italiani a votare bene”. Eppure questa frase dovrebbe rappresentare, oggi, il leit-motiv dell’antifascismo, ossia l’opposizione a quel nemico (invisibile) che dovrebbe spingere gli antifascisti ad aggiornare il proprio background culturale. E invece quella frase è passata inosservata, quando avrebbe dovuto scatenare le proteste di chi comprende il vero ed essenziale problema che ci attanaglia. Vorrà dire che non è stato ancora capito. Ma lo ha capito bene – udite udite – proprio Bertinotti, quell’ex comunista che è stato tacciato di cattolicismo ciellino ma che, invece, ha colto bene il nocciolo della questione e mi pare più comunista (passatemi il termine) di tanti antifascisti nominali.

Insomma, per concludere e tornando al punto dell’articolo, hanno fatto benissimo a licenziare la maestra. Non perché urlava (e alcuni genitori dei suoi ex allievi sostenevano che urlasse anche contro i bimbi), non perché andava alle manifestazioni. No, perché una persona che, a quanto lasciano trasparire le immagini e le sue dichiarazioni, non sa analizzare la realtà poi non può lavorare nel campo della formazione. Come potrebbe educare i bimbi ad usare il ragionamento se lei stessa è ancorata a vecchie e logore classificazioni che non esistono più e che sono puramente nominalistiche? Qui ci vogliono professori che insegnino ai ragazzi a ragionare, ad analizzare la realtà, insomma, a provare a essere liberi. E quest’esercizio, lo sappiamo bene, va fatto in famiglia e a scuola, sin dalla formazione primaria e senza fermarsi a semplici e indolori operazioni di facciata.