Il bisogno di narrazione, essere ed esserci

Il bisogno di narrazione diventa sempre più una necessità. Che provenga da un giornalista, un vip o da un comune frequentatore dei social, oramai pienamente assorbito in quel mondo virtuale, raccontare la propria realtà soggettiva – sempre più attraverso immagini, battute, meme o qualsivoglia altra rappresentazione semplificata – è un bisogno impellente.

Si dice che il cogito ergo sum di Cartesio abbia rappresentato lo spartiacque tra la filosofia allora dominante, ossia quella classica, e la filosofia moderna. Dato che è un antesignano dell’illuminismo francese, si dice pure che in qualche modo sia stato il capostipite dell’epoca moderna, l’epoca della ragione, dei lumi, del predominio della scienza sulla spiritualità, sulla religione.

la narrazione e cartesio

Oggi sembra quasi che il cogito sia sostituito dall’effigo, ossia che il fondamento dell’essere non sia più il pensiero, la ragione, che interpretano la realtà bensì la rappresentazione di essa.

Effigio, ergo sum

In latino il verbo effigiare significa rappresentare, raffigurare. Non è più tanto importante il racconto, quanto la sua raffigurazione. Sarà per questo che oggi il termine raccontare è ampiamente sostituito – nel linguaggio comune – dal termine narrare.

Narrazione. Che brutta parola. O almeno lo è oggi, per me, nel significato che gli è stato attribuito.

Leggendo il dizionario Treccani comprendo che narrare, sinonimo di raccontare, vuol dire esporre o rappresentare vicende, situazioni, fatti storici e reali, oppure fantastici, vissuti o, più spesso, non vissuti in prima persona, riferendoli in modo ampio e accurato e nel loro svolgimento temporale. Oggi il termine viene largamente interpretato in senso più emozionale, di fatto rendendolo meno sinonimo di raccontare.

Premesso che ogni tipo di esternazione racchiude necessariamente in se stessa un’interpretazione soggettiva, la differenza tra il racconto e la narrazione sta nell’elemento rappresentativo, che deve necessariamente suscitare un’emozione.

Mentre il racconto tende, seppur soggettivamente, ad esporre dei fatti, la narrazione tende all’emozionalità, a scuotere i sensi degli astanti, a creare dunque un’impressione. E le impressioni, in quanto tali, durano quanto il battito d’ali d’una farfalla.

La narrazione come negazione della memoria

Già, perché la narrazione – come la s’intende oggi – non tende alla conservazione della memoria, non si serve più dell’oralità per tramandare il ricordo, ma dell’effigie visiva, talvolta accompagnata dallo scritto. Lo scritto non è più il perno della conoscenza in quanto mezzo per lo sviluppo, ma pillola che tende al consumo istantaneo d’una eccitazione che deve durare il tempo necessario perché sia assimilata e porti a quella che in gergo si chiama una call to action.

Quando la narrazione è finalizzata alla vendita, allora l’invito all’azione è diretto a far acquistare un certo prodotto o servizio. Quando invece è finalizzata all’alimentazione dell’Ego di chi narra, allora l’invito è diretto a far parlare di sé, a mantenere vivo il ricordo del proprio esserci.

Ma tutto ciò è anti-mnemonico e, grazie al continuo flusso di dati, impedisce alla memoria di mantenere il ricordo, di elaborare un processo mentale che porti alla definizione intellettiva di un’esperienza.

Essere ed esserci

hegel

Già, l’esserci. E’ quel -ci che fa la differenza tra l’epoca moderna e quella post-moderna, tra la ragione e l’emozione, tra la realtà e la rappresentazione di essa. Esserci significa essere lì, in quel posto, in quel momento. Essere significa far parte della realtà storica, non della pura e semplice rappresentazione di essa, quella che è una mera aspirazione soggettiva e che Hegel relegava nell’inutile dover essere, ossia in un mero concetto astratto, privo di razionalità.

Se Hegel fosse ancora vivo direbbe che questa fase storica è il secondo momento del suo processo dialettico, il momento della negazione. La negazione è una fase essenziale affinché si possa arrivare alla sintesi, ossia al superamento di ciò che era prima affinché si sviluppi il progresso dell’umanità. Però al contempo direbbe che oggi l’Essere è tradito dall’esserci, da un concetto astratto che non si fa storia, ma che nega la ragione, il movimento dialettico e quindi blocca di fatto il progresso spirituale. E’ per questo che, da buon filosofo, Hegel analizza la realtà ponendosi in alto, nel momento in cui è già avvenuta. Quindi oggi non sarebbe in grado di comprendere se l’esserci ha una ragione storica, è un momento dell’essere oppure è una negazione che resterà tale per lungo tempo.

Stando al pensiero di Eraclito direi che occorrerebbe un momento conflittuale (non per forza una guerra, ma un conflitto inteso in senso ampio) affinché si possa sbloccare questa fase caratterizzata dall’irrazionalità, dall’edonismo dell’esserci virtuale e dallo scollamento tra individuo e gruppo di appartenenza.

Se un social non funziona si scende nell’Ade del non essere

Oggi i social educano chi li frequenta a sostituire l’esserci all’essere, nell’ottica dell’Effigio, ergo sum. Qualsiasi esperto di web-marketing ci dirà che per esserci sui social e, più in generale, sulla rete, bisogna pubblicare sempre contenuti nuovi ed originali, bisogna stupire, creare emozioni e che meno si pubblica minore sarà l’affezionamento del proprio pubblico.

Non pubblicare post, non commentare, non caricare nuove foto significa non esserci e, se siamo personaggi più o meno noti, è fuori discussione non essere sui social o non pubblicare di frequente. Sarebbe paradossale anche il solo pensiero di non esserci. Quindi si crea un nuovo bisogno, impellente, quasi fisiologico: il bisogno di condividere, di narrare, di suggellare ogni giorno (e anche più volte al giorno) la propria presenza, il proprio esserci. E non condividere contenuti originali o ricevere pochi like (ossia poche conferme del proprio esserci) crea ansia, paura, stati di depressione.

E cosa accade quando, per una qualsiasi ragione, i social o le app di messaggistica vanno in down, anche solo per un paio d’ore? Panico assoluto: articoli di giornale che si susseguono, gente disperata che affolla l’altro social ancora attivo e si chiede concitata quando finirà l’orrore del down, discussioni infinite solo per cosa? Perché un social non sta funzionando.

Il panico, l’ansia, la depressione di chi ha consegnato il suo essere all’esserci.

La foto come flusso, non ricordo

Un tempo la foto era un mezzo per conservare un ricordo. Nell’epoca del consumo istantaneo, dell’esserci, invece, è finalizzata alla condivisione temporanea e in tempo reale, ad alimentare un flusso di dati, informazioni e sensazioni che, come direbbe Eraclito, scorrono come un fiume. Non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume come non ci si può ricordare di ciò che è stato immesso nel flusso.

Nell’esserci bisogna dunque condividere con gli altri non solo i nostri stati d’animo, ma anche i momenti della nostra giornata: che siamo al mare o al ristorante, la foto suggella il momento, congela l’esistente e rafforza il processo di raffigurazione del sé, ne crea – appunto – un’effigie. E così l’avatar virtuale (che poi non è più un avatar nel senso inteso fino a pochi anni fa, ma il nostro ego nel -ci) tende a staccare piccoli frammenti di realtà e gettarli nel mare magnum del mondo virtuale, soprattutto attraverso il mobile, creando così un mosaico che soddisfa il costrutto della nostra rappresentazione  e che contribuisce a creare il nostro piccolo teatro tenda, che oggi, con le mille app per modificare le foto è ancor più customizzabile, più incline alla teatralità del divenire.

Ogni giorno esterniamo noi stessi ma contemporaneamente perdiamo piccole parti del nostro essere a tutto vantaggio dell’esserci e ogni foto è un tassello di ciò che non siamo liquefatto in ciò che siamo. Essere e non essere, nella logica parmenidea, non rappresentano più due monoliti, ma due concetti liquidi, che però generano nell’essere un conflitto soggettivo, dovuto al sempre più ampio baratro tra l’essere e l’esserci, tra il reale e il virtuale, spesso esternato con stati d’ansia, depressione, incapacità di essere parte di un tutto, che tradotto significa incapacità di porsi all’interno di una società civile, essere cittadino, essere un pezzo di un collettivo.

La narrazione dell’esserci genera insensibilità

la narrazione di enea e la pietas
Enea e la Pietas. Prende il padre sulle spalle per fuggire da Troia

Ogni giorno milioni di informazioni passano attraverso i social, senza contare la TV, la radio, i quotidiani on-line, i blog, le chat di WhatsApp o di tante altre app di messaggistica. Questo eccessivo flusso di contenuti non solo danneggia la memoria, ma rende insensibili alle umane vicende reali. Il bisogno di narrare portato all’esasperazione genera insensibilità verso la realtà: la teatralizzazione della violenza, la desacralizzazione continua del vissuto, l’elevazione dell’effimero a valore fondante, come ben sappiamo, creano abitudini e percezioni tali da mascherare, se non addirittura annientare, il senso di Pietas. Allo stesso modo le narrazioni sui migranti (chiamati economici per rafforzare la narrazione), sul furto del lavoro, sull’identità nazionale (concetto quantomai irrazionale ed antistorico), sulla difesa dell’italianità, ci portano a sotterrare la Pietas verso le storie di uomini e donne che, come noi, hanno bisogni, desideri, vite vissute, insomma, un’umanità in tutto e per tutto identica a quella degli (ormai non più) evoluti occidentali.

La Pietas. Cos’è? E’ quella qualità universale, decantata da Virgilio nel raccontare l’eroe Enea, che si sostanzia in dovere e devozione verso gli dei, amore, affetto e, infine, in clemenza, giustizia e senso del dovere. Nell’epoca in cui l’amore è vittima esso stesso del consumo, dell’edonismo e delle emozioni istantanee, in cui la clemenza s’interpreta come elemosina, la giustizia diventa acredine e sfocia nella vendetta, il senso del dovere è limitato all’osservanza acritica di leggi e regolamenti (da violare, se possibile, quando entrano in conflitto con un interesse personale), allora la Pietas crolla e cede il passo alla logica del consumo, cui la narrazione fa da corollario e in cui l’esserci viene alimentato dalle rappresentazioni, che più diventano ampie e più perdono il contatto con la realtà.

Dall’eccesso di rappresentazione si genererà una reazione. Per forza. E’ umanamente insostenibile uno scollamento tra realtà e rappresentazione. Il punto è capire in che direzione si muoverà la reazione e quali eventi storici produrrà. Per adesso l’unico consiglio che sento di dare è: uscite dai social. Non avverrà mai, almeno in questa fase storica, ma è il primo passo per riappropriarsi della realtà e dare al proprio Ego gli anticorpi necessari per difendersi dai mali dello Spirito.

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