Neet e assenza di conflitto: ecco perché il fenomeno è così ampio

neet

L’ennesimo rapporto di Eurostat sui c.d. Neet (o néné, giovani che non studiano né lavorano), diffuso oggi, evidenzia come, anche nel 2017, la quota si attesta al 25,7%, ossia un giovane su quattro, tra i 18 e i 24 anni, non ha un lavoro né è all’interno di un percorso di studi. Su quest’aspetto siamo i primi in Europa, seguiti da Cipro (22,7%), Grecia (21,4%), Croazia (20,2%), Romania (19,3%), Bulgaria (18,6%), Spagna (17,1%), Francia (15,6%), Slovacchia (15,3%), mentre la percentuale più bassa di Neet è in Slovenia, Austria, Lussemburgo, Svezia (8% circa) e Paesi Bassi (5,3%).

I dati di per sé parlerebbero chiaro, ossia che la percentuale di Neet è proporzionata alla percentuale di disoccupazione di una Nazione e quindi la risposta parrebbe scontata: dove manca il lavoro ci sono più Neet. Ma la risposta è davvero così semplice? Se andassimo ad analizzare i dati della presenza di Neet a livello globale ci stupiremmo non poco nello scoprire che negli USA la percentuale di Neet si aggira intorno al 15% e che in Giappone, terra di tecnologie e di forte propensione al lavoro, la percentuale varia dal 20 al 25% (dati disgregati, in base alla differenza di indicatori di analisi utilizzati). Dunque la presenza di una percentuale più o meno alta di disoccupazione è indicativa, ma non è risolutiva. Ad ogni modo va prima sgomberato il campo da un equivoco che spesso aleggia tra quelli che parlano di siffatti argomenti.

Non è questione di volontà

Spesso si dà la colpa ai giovani e si dice che non hanno stimoli o che quelli che vivono al Sud (dove i tassi di disoccupazione giovanile sono i più alti in Italia) non hanno voglia di lavorare (parole dell’intellettuale Flavio Briatore). Ma non è una questione di volontà. Se affrontassimo l’argomento restando nell’alveo della volontà (e quindi di una rappresentazione parziale della realtà) non riusciremmo mai a darci una risposta e a capire perché questi giovani hanno smesso di studiare e di lavorare. Insomma, dire che non vogliono lavorare o studiare è una semplificazione talmente imbarazzante da risultare persino dannosa, in quanto ci allontaneremmo dal problema e lo risolveremmo con una semplicistica formula di rito, tanto inutile quanto priva di strumenti atti a comprenderne la portata del problema.
Direi piuttosto che i ragazzi vorrebbero lavorare. I ragazzi vorrebbero studiare. Vorrebbero, razionalmente e consapevolmente, realizzare un progetto di vita. Ma non possono.

La mancanza di conflitto e l’incapacità di elaborare la sintesi

Non voglio scomodare un profondo pensatore come Hegel, ma a sto giro ci sta. Hegel, nel suo tentativo di dare sistematicità al pensiero filosofico, individua tre passaggi fondamentali, che sono: l’essere in sé, l’essere fuori di sé e l’essere in sé e per sé, tre concetti che – sinteticamente, stando al pensiero hegeliano – possiamo ridurre in tesi, antitesi e sintesi, ossia tre passaggi della dialettica, che Hegel tenta di universalizzare per spiegare la fenomenologia della realtà. Vabbuò, qualche filosofo storcerà il naso nel leggere questa riduzione del pensiero hegeliano, ma a me serve come strumento per spiegare una cosa. Ma prima vorrei farvi ascoltare un passaggio di un’intervista a Mentana sulla disoccupazione giovanile:

Mentana, forse consapevolmente, forse no, mette in risalto un aspetto essenziale, che si ritrova anche nel pensiero hegeliano e che spiega meglio il fenomeno dei neet: “le generazioni passate, quando si trovavano di fronte a un’ingiustizia, protestavano, mentre oggi c’è un’assuefazione, che nasce proprio da una parte dell’ingiustizia”. La protesta, nel vocabolario hegeliano, era la parte dell’antitesi, ossia della negazione dell’esistente.

Dunque con la critica all’attuale si alimentava la protesta (consapevole) e si procedeva verso una negazione che avrebbe portato alla sintesi.

Più o meno la stessa cosa fu teorizzata da Marx, ma non l’ho citato un po’ perché sennò sarei tacciato di comunismo (elemento ormai antistorico, anche se sempre attuale, ma che sopravvive in modo regresso a mò di soprammobile da cacciare ogni volta che si vuol far finire una conversazione in malomodo) un po’ perché Marx ha storicizzato il suo pensiero e ha eliminato l’universalizzazione del pensiero hegeliano.

Insomma, quello che semplicemente voglio dire è che, rispetto ai nostri genitori, che hanno concretizzato il secondo aspetto della struttura hegeliana (l’essere fuori di sé), noi ne siamo rimasti fuori. E quindi siamo rimasti fregati dalla storia.

Cos’è successo rispetto ad allora?

Mentre i nostri genitori scendevano in piazza nel ’68 o nel ’78, nasceva la società dei consumi, che li avrebbe ricondotti nei ranghi, promettendo loro un benessere che si sarebbe poi sviluppato – e concretizzato – nei decenni a venire. Ma quel benessere non sarebbe durato a lungo e oggi ne vediamo le prime conseguenze. Peccato che i nostri genitori non l’abbiano ancora capito e si prodigano nell’immaginare per noi un futuro antistorico e prettamente bucolico. Un futuro che si trova solo nella narrativa sociale fino a un ventennio fa.
Loro ci hanno viziati, ci hanno narrato un futuro in giacca e cravatta o in tailleur e noi ci abbiamo creduto. Ci hanno coccolati, spingendoci a credere che fatica e gavetta sono concetti da abiurare e che sono inutili, perché il successo non si raggiunge in salita, ma in discesa.
E dunque, in poche parole, hanno sconfessato il secondo – più importante – processo di crescita e di evoluzione: la negazione, il conflitto. Senza il conflitto, la negazione, non si arriva alla sintesi e si resta in una sorta di limbo costituito dall’essere in sé, però perenne. Per arrivare all’essere in sé per sé (cioè: trovare un lavoro, terminare un percorso di studi, svilupparsi emotivamente e lavorativamente) occorre per forza passare dal conflitto. Ma quando una società edonistica e una famiglia che assimila tali valori salta questo fondamentale passaggio, qual è la conseguenza?

So che questo video non spiega molto ciò che ho appena detto, ma preso con le dovute pinzette, è nettamente esemplificativo e pragmaticamente risolutivo.

La depressione è una malattia?

depressione

Giorni fa sulla Stampa è stato pubblicato un articolo (subito rimosso) dal titolo: “depresso un italiano su 5 e le cure fai da te sono un’emergenza”, in cui, secondo uno studio condotto congiuntamente dalla AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) e dal CNR di Pisa, circa undici milioni di italiani soffrono di depressione e prendono psicofarmaci. … Leggi tutto

La musica di Young Signorino è arte o non è arte?

young signorino

Pochi giorni fa sono venuto a conoscenza dell’esistenza di Young Signorino, un ragazzo di 19 anni balzato agli onori della cronaca social-musicale sia per i testi delle proprie opere (tipo: Mmh Ha Ha Ha, solo per citare una delle più celebri opere pubblicate su YouTube) sia per l’eclettismo con cui ha (hanno) costruito la sua … Leggi tutto

Facebook vi ruba i dati? Avete scoperto l’acqua calda digitale

facebook acqua calda

Mark Zuckerberg, CEO di Facebook, fa mea culpa e ammette la responsabilità nel segreto di Pulcinella in riferimento alla conservazione illegale dei dati di 50 milioni di utenti da parte di Cambridge Analytica. Pare brutto dirlo, ma l’avevo detto qualche mese fa, nell’articolo Uscite dai Social. Se decidi di entrare nel meraviglioso mondo di internet … Leggi tutto

Siamo il popolo della spazzatura

immondizia spazzatura

Ogni giorno, nei miei continui spostamenti, vedo sulle piazzole di sosta o nelle campagne o nelle periferie dei paesi tonnellate di spazzatura abbandonate così, alla bene e meglio. I più virtuosi tra gli sporcaccioni lasciano l’immondizia abbandonata nei sacchetti di plastica – in modo da facilitarne la raccolta – mentre il resto di quei luridi, … Leggi tutto

Con le multe si riparano le buche. Ma dove sono i soldi?

buche strade

Partiamo subito da un presupposto. Le buche sulle strade sono l’unica cosa che accomuna l’Italia, da Nord a Sud, Isole comprese. Oddio, ci sono comuni virtuosi, dove la manutenzione del manto stradale si fa, ma sono così rari che io – automobilista incallito che girovaga per l’Italia in lungo e in largo – ho visto … Leggi tutto

Clacson e nevrosi

clacson

Tra i tanti studi di rinomate (e spesso sconosciute) università del Mondo, mai nessuna ha fatto una ricerca scientifica sul rapporto tra la nevrosi e l’uso (e abuso) del clacson? L’uso del clacson sarebbe il perfetto indicatore per calcolare il livello di nevrosi di una certa popolazione.

Nella mia vita ho trascorso brevi e lunghi periodi in molte città d’Italia, sia per lavoro sia per motivi personali. Praticamente, a parte le Isole, mi sono girato tutta l’Italia. Non so perché, ma ogni volta che ero fermo con la mia auto nel traffico, ponevo attenzione sull’uso del clacson. Se, per esempio, ero fermo al semaforo, notavo dopo quanti secondi le auto in coda iniziavano a suonare. Da lì ho iniziato a riflettere sul rapporto tra nevrosi e clacson e ho stilato una classifica, che però non pubblicherò perché il test è ancora in corso.

In buona sostanza ho notato, come tutti immaginerete, che l’abuso del clacson, soprattutto al semaforo, avviene maggiormente nelle grandi città, dove, si sa, la fretta e lo stress generano la nevrosi. Ma l’aspetto più curioso è che nella mia terra pugliese se ne abusa maggiormente rispetto a tante altre zone del Nord Italia. Curioso, vero? In Emilia o in Toscana o in Veneto, persino in Lombardia, ho sempre notato un uso decisamente minore del clacson al semaforo e raramente agli incroci o durante gli ingorghi.

L’immagine della mia Puglia come terra slow, calma e meno stressata cozza con l’estremo abuso del clacson e, spesso, con l’uso di più o meno colorite bestemmie quando al semaforo non hai il piede schiacciato sull’acceleratore non appena scatta il verde.

Ma l’aspetto che più mi lascia perplesso e stupefatto è un altro. Sono anni che cerco di dare una spiegazione scientifica e razionale, ma al momento per me resta un mistero irrisolto, peggio dell’esistenza dell’Area 51 o di chi ha ucciso Laura Palmer. Il mistero irrisolto è: come fanno sempre a suonare il clacson nell’esatto istante in cui scatta il verde? Ma soprattutto: perché lo fanno? Cioè, già è un mistero capire come fanno a sapere quando scatterà il verde e sincronizzare impulso nevrotico e mano con il momento esatto in cui la luce verde s’accende (se non prima dell’accensione del verde…), ma è un mistero ancora più irrisolto capirne la ragione. Cioè, anche se dovessi stare con gli occhi incollati sul semaforo e il piede pronto sull’acceleratore, stile partenza del GP, non riuscirei mai a partire – a semaforo verde – prima della strombazzata di quello che è in coda. Mai. Ci ho provato tante volte, ma è umanamente impossibile. Quindi, se non ci riesco io, anche provandoci per anni, credo che non ci riuscirà nemmeno il nevrotico suonatore seriale. Quindi a che pro suonare?

Poi v’è un altro mistero che ancora devo risolvere in tema di comportamento nell’uso del clacson e che ritrovo quasi esclusivamente nella mia zona o nelle metropoli come Roma e Milano: l’uso del clacson agli incroci. Cioè, io arrivo calmo e tranquillo sullo stop che incrocia una strada principale, mi fermo, metto la freccia e guardo a destra e a sinistra per capire se posso impegnare l’incrocio. Da lontano vedo sopraggiungere un’auto che inizia a strombazzare. “Cavolo, sto fermo – penso – a che minchia serve che mi suoni?”. Se succedesse raramente non ci farei caso, ma dalle mie parti capita sempre.

https://www.youtube.com/watch?v=puxWmjrSKBI

Insomma, da questi comportamenti deduco che gli automobilisti che abusano del clacson sono nevrotici ed insicuri. Poi potrei sbagliarmi, ma personalmente non ho mai usato il clacson, tranne quando per strada incontro qualcuno che conosco e gli suono giusto per attirare la sua attenzione. Punto. Infatti mi sono sempre chiesto a cosa serva l’uso del clacson: se stai fermo ad un ingorgo, non cambierai certo la situazione; se stai fermo al semaforo, l’auto che ti precede prima o poi se ne accorgerà e – solo trascorsi un buon numero di secondi – un colpettino secco e veloce sarà utile; infine se procedi lungo una strada principale che incrocia tante strade secondarie, è totalmente inutile suonare ad ogni incrocio (o usare gli abbaglianti…). Anche perché mettiti nei panni di chi vive in prossimità di un incrocio di una strada particolarmente trafficata e magari ha la camera da letto che affaccia sulla strada. Non è piacevole essere inondati di strombazzate tutto il giorno e in particolare nel cuore della notte.

Vorrei chiudere con due suggerimenti, uno rivolto ai suonatori seriali di clacson e uno a sociologi e psicologi. Ai primi chiedo di smettere di guidare, perché chiaramente la guida – su questi soggetti – crea forti disturbi e nervosismi eccessivi; ai secondi chiedo di iniziare a studiare il rapporto tra uso del clacson e nevrosi, suddiviso per area geografica, magari usciranno fuori dei risultati inattesi.

Siamo noi le persone sporche, non Asia Argento

asia argento

Ok, Asia Argento non è miss tempismo e forse le altre storie che coinvolgono il produttore hollywoodiano Harvey Weinstein sono un pochetto edulcorate, anche perché si sa, basta fare da apripista e poi tutti vogliono raccontare la propria storia, più o meno credibile, basta che si racconti in tivvù. Si, forse ha aspettato troppo ad esporsi e ora tutti la seguono a ruota e vanno commentando, chi difendendola e chi (i più) accusandola sostanzialmente di essere, senza mezzi termini, un puttanone.

Chi conosce la vicenda saprà benissimo che oggi, dopo 20 anni dall’accaduto, Asia Argento ha rivelato le violenze subite dall’orco di Hollywood, all’epoca dei fatti terzo personaggio più influente al mondo (oggi un po’ meno, quindi meno invulnerabile), violenze dettate dalla regola aurea nel mondo del cinema quando si parla di rapporto tra uomini influenti e donne giovani e carine: o me la dai o ti scordi la carriera. Insomma, qualcuno direbbe che è così che va il mondo e che le donne che ci stanno se la cercano.

L’aspetto curioso è che la maggior parte dei commenti che ho letto finora e che in sintesi danno della troia alla Argento, provengono da donne e da personaggi la cui opinione conta come il quattro a tressette, tipo Vittorio Feltri. Vabbè. Bit sprecati.

Parafrasando, quello che si dice in giro è: lei era maggiorenne e consapevole, quindi lo ha voluto lei. E’ così, o è bianco o è nero, o ci stava o non ci stava. Non esiste una zona grigia.

Ma la zona grigia c’è. Eccome. La viviamo tutti i giorni, basta pensarci. Basta riflettere un attimo sulla differenza tra volontà e costrizione e allora forse ci accorgeremo che ciò che vogliamo, in realtà, è ciò che siamo costretti a fare.

Il labile confine tra volontà e costrizione

Lungi dal voler giustificare in toto l’attrice, perché le rimprovero di aver aspettato troppo tempo per denunciare l’accaduto, quello che vorrei sottolineare è il labile confine tra volontà e costrizione. Quando parcheggio l’auto e mi si presenta il parcheggiatore abusivo, volontariamente gli do qualche spicciolo, ma è perché sono costretto, casomai mi riga l’auto o mi buca le gomme, per dispetto.

Quando il medico, in ospedale, mi viene a dire passi dallo studio e mi cerca 300 euro per una visita privata, volontariamente caccio quei soldi, ma perché sono costretto dal sistema, che va così, altrimenti, se lo indispettisco, col cavolo mi farà quell’operazione di cui ho bisogno.

Se sono un assegnista all’università e il mio barone firma la mia sudatissima ricerca, io gliela concedo volontariamente, ma perché sono costretto, altrimenti posso scordarmi di essere riconfermato e contare su quel misero assegno di ricerca che mi tiene in vita.

Se il politicante locale mi offre 50 euro per votarlo, io volontariamente lo voto, ma perché sono moralmente costretto da quella dazione di denaro. Se poi vogliamo essere pignoli e mutuare l’esempio nella vita virtuale, quando accedo a un sito e leggo questo messaggio se non accetti i cookie non puoi proseguire con la navigazione su questo sito, io accetto volontariamente, ma perché costretto, altrimenti non posso visitarlo, pur sapendo che magari quei cookie mi stanno spiando. Posso proseguire all’infinito, facendo migliaia di altri esempi che dimostrano come la volontà e la costrizione siano due facce della stessa medaglia.

Quindi siamo sicuri che nella vita di tutti i giorni noi non facciamo le stesse cose che ha fatto la Argento? Solo che – diciamoci la verità – quando il medico ci invita a passare dallo studio privato, quella cosa sì, ci pare normale, mentre quando c’è di mezzo il sesso e un paio di personaggi famosi, quello no, non è normale. Bisogna gridare allo scandalo.

Ma ti rivelo una cosa: noi siamo più colpevole di lei quando intaschiamo i 50 euro dal politico, diamo gli spiccioli al parcheggiatore abusivo o cacciamo i soldi dal medico che deve operarci e ci vergogniamo pure di chiedere la fattura. Siamo noi le persone sporche e immonde, non Asia Argento. Lei, almeno, ha denunciato, seppur tardivamente. Noi saremmo in grado di farlo?

5 buoni motivi per evitare i centri commerciali

centri commerciali

Alzi la mano chi non hai mai fatto la spesa nei centri commerciali. Ok, ci siamo tutti. In effetti per molti di noi andare a fare la spesa in un centro commerciale spesso diventa il pretesto per farsi una passeggiata, soprattutto domenicale, cazzeggiare, incontrare gente, prendersi un caffè o un gelato e, tra un negozio e l’altro, spendere parte dello stipendio in cose più o meno utili.

Il vantaggio dei centri commerciali è che ci trovi tutto, e anche qualcosa in più. Quelli grandi e moderni, poi, hanno al loro interno negozi monomarca o negozi specializzati (in articoli sportivi, scarpe, abbigliamento, ecc.) che si trovano solo lì, e per questo spesso la visita al centro commerciale diventa una tappa obbligata. Alla fine ti ci abitui così tanto che ogni volta che ti serve qualcosa, non pensi di andare in qualche negozio in centro, magari vicino casa, ti fiondi direttamente al centro commerciale. Non è così?

Personalmente da giovane ci andavo pazzo. Un po’ perché il centro commerciale più vicino a casa mia (che distava circa 30 km) praticava prezzi particolarmente vantaggiosi rispetto al supermarket sotto casa e un po’ perché rappresentava una novità e una comodità assoluta: trovavi tutto, a prezzi vantaggiosi ed era comodo girare col carrello tra vari negozi, per non parlare del wi-fi gratuito, un’altra delle principali attrattive che mi spingeva ad andare lì ogni volta che potevo, in un periodo in cui internet in casa era un lusso per pochi.

Ma poi col tempo qualcosa è cambiato. Se da un lato sono diventato sempre più insofferente ai posti affollati, dall’altro ho consapevolizzato il fatto che ormai i centri commerciali non sono più quelli di una volta, non sono più convenienti, sono diventati fonte di stress (che aumenta con l’aumentare della gente), sono pericolosi per l’ambiente e, soprattutto, sono la prima causa della morìa del piccolo commercio, cioè l’anima dell’economia reale italiana.

Insomma, i motivi per evitare i centri commerciali ci sono. Ne elenco solo 5, quelli che per me sono i principali.

1. I centri commerciali creano ansia e fastidio soprattutto nei giorni prefestivi

folla ai centri commerciali

C’è una regola che pervade la mia vita in fatto di relazioni con il centro commerciale. Se da un lato so che andando lì troverò tutto quello che mi serve (o almeno l’illusione di trovarlo), dall’altro lato so che quando uscirò avrò sicuramente dimenticato qualcosa.

Senza una rigorosa lista della spesa, il rischio che corro ogni volta tra quegli immensi scaffali è di non sapere più di cosa ho bisogno e di prendere cose a casaccio.

In effetti, passeggiando per quei grandi spazi mi avranno nel frattempo rincoglionito tra migliaia di prodotti, offerte speciali, fastidiose luci fredde, il nervoso crescente nel non trovare subito quello che sto cercando e lo stress da folla di gente, che si attenua solo se ci vado nei giorni feriali o negli orari di minore affluenza. Cioè, se ho un lavoro con orari standard, praticamente mai.

L’ingresso

Lì iniziano le bestemmie sin dalla ricerca del parcheggio. Sì, perché appena varchi con la tua auto la soglia del centro commerciale, nei giorni prefestivi o in una qualsiasi domenica, ti accorgi di aver fatto un’enorme stronzata: dal cavalcavia già vedi i parcheggi pieni e preghi iddio affinché ti faccia trovare uno stallo libero vicino all’ingresso. Ovviamente non lo troverai e ti toccherà lasciare l’auto chissà dove, sperando di ricordarti l’impossibile combinazione di lettere e numeri che rappresentano le uniche coordinate per ritrovare la tua auto in quella sterminata radura di asfalto tutta uguale. Dopo 3 minuti di camminata verso l’ingresso ti starai già chiedendo: “ma il parcheggio era il B2 o il P9?”.

Il carrello

I guai non sono certo finiti. Perché è domenica e siamo in orario di punta, in un giorno in cui tutta la città pare essersi riversata nel centro commerciale e chiaramente non ci sono carrelli. L’unico che trovi è quello che tutti hanno snobbato, perché ha le ruote bloccate e fa un rumore così stridulo che ad ogni passo tutti si gireranno a guardarti, mentre inizi a sudare e già non vedi l’ora di andartene via.

Tra un “permesso” e un “mi scusi”, avrai già dato una pedata a un vecchietto e una gomitata ad una tizia che ti guarda con fare infastidito. E siamo solo all’inizio. Se non hai una lista, hai già dimenticato cosa prendere. Allora cerchi di fare in fretta, arraffando quello che ti capita a tiro. Ovviamente non guardi le scadenze dei prodotti, ma ti fai abbindolare dalle offerte. Rinunci anche a fare la fila in salumeria. Il numerino che hai preso ti anticipa che a te toccherà quando sarà ormai orario di chiusura. Meglio prendere gli affettati o i formaggi già imbustati, anche se sai che fanno schifo.

Il guanto per la frutta

guanti_frutta

Il peggio, però, non è passato, perché devi prendere la frutta. Lì inizia il bello, già quando proverai a indossare quell’immondo guanto in plastica sulla mano sudaticcia. Romperlo è un attimo e indossarlo una tortura.

L’Italia, chissà perché, è l’unico Paese in Europa che obbliga i supermercati ad avere i guanti in plastica per prendere la frutta, dandoti l’illusione dell’igiene. Quando, per anni (e ancora oggi) palpi la frutta dal fruttivendolo, senza l’obbligo del guanto, sai che mai nessuno ci è morto o ha preso strane malattie, ma se lo fai al supermercato rischi che qualche dipendente ti riprenda, magari sgridandoti ad alta voce, come si fa ad un bambino scoperto con le mani nella marmellata.

La fila in cassa

La fine della spesa segna l’inizio di una nuova fonte di stress: la fila alle casse. Proprio come la fila in autostrada, capiterà sempre di metterti in coda nella cassa che ti sembra meno affollata, ma in realtà, per qualche strano motivo, diventa più lenta di quella accanto, dove c’era più gente. Il cliente che ti precede avrà sicuramente un buono pasto da calcolare, un prodotto che non passa e che bisogna cambiare, oppure difficoltà a contare le monetine. Qualunque sia il motivo, chi dopo di te è andato alla cassa accanto starà già imbustando la roba, mentre tu, ticchettando nervosamente con le dita sul carrello, bestemmi cliente e cassiere che staranno discutendo allegramente infischiandosene di te e della tua fretta.

Certo, qualcuno mi dirà che ci sono le casse automatiche. Sì, solo che lì non ti rendi conto della fila, vedi solo un ammasso di gente, poi per forza di cose ti devi rivolgere al personale, o per una placca antitaccheggio da rimuovere, o perché hai i buoni pasto da usare o perché c’è uno sconto che lo scanner non ha preso e soprattutto perché non è da tutti seguire quella semplice – eppur complessa – procedura che ti porta sempre e comunque a sbagliare qualcosa. Meglio la buona e vecchia cassiera.

L’uscita

Uscito dal supermarket, sempre se ti ricordi da quale ingresso sei entrato (Nord o Sud? Est o Ovest? Boh, mi ricordo che entrando ho trovato la Bata…o forse era la Globo?), non avrai più la forza e il tempo di andartene a spasso per altri negozi. E’ ormai orario di chiusura e tu ricordi vagamente di esserci entrato dopo pranzo, quando ancora fuori splendeva il sole. Dopo aver ritrovato (a fatica) la macchina, ti calerai la mano in tasca e trovando lo scontrino ti chiederai: “come ho fatto a spendere 100 euro per due buste?”. Già.

2. Spesso hanno prezzi più alti rispetto al piccolo supermercato sotto casa

Chi è abituato a fare la spesa seguendo la rigida logica delle offerte da volantino, quindi in grado di frequentare anche due o tre supermercati in un giorno, e mette un po’ di attenzione sui prezzi pieni e non solo sulle offerte, si renderà conto che tra un supermercato e l’altro lo scarto di prezzo è davvero minimo. Se la giocano sui centesimi. Chiaro che questa comparazione non vale tra supermercati e discount. Per i discount, che trattano prodotti sottomarca (ma spesso di qualità uguale alle marche più note) la logica è diversa. Il paragone va fatto tra GDO (grande distribuzione organizzata) dello stesso livello (es. tra Coop e Conad). Quindi se andiamo a paragonare le GDO, scopriremo che molto spesso i prezzi sono uguali, anzi, il piccolo supermercato sotto casa (che spesso appartiene a una GDO) arriva anche a praticare prezzi di poco inferiori rispetto al supermarket del centro commerciale.

Fai una prova

Fai una lista di una decina di prodotti da comparare, stessa marca, stesso peso e di diverso genere (es. pasta, snack, detersivo, vino, olio, ecc.) e vai in un centro commerciale, segna i prezzi e poi vai al supermercato sotto casa. Scoprirai che i prezzi si differenziano di pochi centesimi. Per i prodotti insaccati o venduti a peso è sufficiente calcolare il prezzo al kilo, spesso riportato in piccolo sull’etichetta del prezzo esposto sullo scaffale. Alla fine ti renderai conto che facendo la spesa al supermercato sotto casa avrai fatto un affare: i prezzi sono pressappoco uguali, eviti lo stress da parcheggi, da folla, da fila in cassa e puoi pure scegliere il carrello!

3. I centri commerciali sfruttano i dipendenti

Nota dolente, che è venuta a galla negli ultimi anni quando qualcuno si è reso conto che è inumano far lavorare la gente anche la domenica e i giorni festivi (capodanno, Pasqua, ecc.). I casi di sfruttamento dei lavoratori nei centri commerciali sono all’ordine del giorno. Basta leggere questo interessante reportage dell’Espresso per capirlo. Turni massacranti, aperture straordinarie e diminuzione del personale connesso all’aumento del carico di lavoro rendono la vita in queste moderne cattedrali un vero inferno.

Nel centro commerciale in cui sono andato per anni, per esempio, il personale è passato, in 15 anni, da 120 dipendenti a circa 40, anche a causa dell’introduzione delle casse automatiche. Oggi, su circa 20 casse, solo due sono aperte, tre o al massimo quattro nei giorni prefestivi.

La gestione prettamente familiare dei piccoli supermercati, invece, è certamente più distensiva e rispettosa dei diritti dei dipendenti. Quanti sono i piccoli supermercati aperti anche la domenica? Se lo fanno, probabilmente, è per volontà, non certo per costrizione calata da un lontano e sconosciuto CdA, con cui i dipendenti non possono assolutamente rapportarsi.

4. I centri commerciali sottraggono suolo

Un centro commerciale di medio-piccole dimensioni è grande circa 15.000 mq, ossia un ettaro e mezzo di terra. A Segrate, vicino Milano, sorgerà presto ciò che viene definito il centro commerciale più grande d’Europa, con 185.000 mq, ossia quasi 20 ettari di terra. Moltiplica 15000 mq per 1000 (il numero dei centri commerciali attivi in Italia) e capiremo l’enorme quantità di terra sottratta per creare cattedrali dello shopping di cui, onestamente, possiamo farne a meno. Perché la quantità di terreno sottratto, ossia 1500 ettari (stima al ribasso) sarebbe sufficiente, se coltivata, a sfamare per un anno una Regione grande quanto il Lazio.

Curioso che in Lombardia si saluti con entusiasmo il nuovo centro commerciale (che sorgerà, spero di no, nel 2019), elogiandone la grandezza e il lusso, mentre al contempo il lungimirante Trentino delibera lo stop definitivo a centri commerciali di grandezza superiore a 10.000 mq, per tutelare e favorire il piccolo commercio e la vocazione montana. Il Trentino non è grande quanto la Lombardia, certo, ma dimostra – nel suo piccolo – che la terra è più importante del cemento e che i borghi vanno valorizzati, anche grazie alla vivacità del commercio cittadino.

5. Muore il centro cittadino

Il vero cuore di ogni città italiana sono le attività commerciali del centro che però stanno progressivamente morendo per molte ragioni. Un interessante studio di Confcommercio mostra come dal 2008 al 2015 in Italia, soprattutto al Sud, siano sensibilmente diminuite le piccole attività commerciali del centro contestualmente alla crescita delle attività di ristorazione e del commercio ambulante. Ciò vuol dire due cose: chi prima aveva un negozio molto probabilmente ha optato per l’attività di ambulante, con meno costi (ma più fatica…) e, a causa dell’aumento dei flussi turistici in alcune zone e del conseguente aumento del costo degli affitti, gli unici a potersi permettere un locale in centro sono i gestori di bar, ristoranti e fast food. E’ il caso di Lecce, citato da Confcommercio come città col peggior rapporto popolazione/numero di negozi, ma preda dell’assalto nel centro storico di locali di street food, che esasperano i piccoli commercianti. Ma basta guardare anche il caso di Matera che, come Capitale della Cultura 2019, paradossalmente sta cacciando via attività storiche e librerie per far posto a chi può permettersi affitti da capogiro.

La causa della morìa del piccolo commercio, però, è legata principalmente all’aumento vertiginoso negli ultimi anni dei centri commerciali, che hanno inglobato al proprio interno negozi di ogni genere, costringendo talvolta i negozi in franchising, spesso presenti in centro, a trasferirsi all’interno dei centri commerciali.

Il caso di Trieste

Tuttavia i gestori dei negozi del centro cittadino, spesso aiutati da una lungimirante politica locale, hanno saputo dare una risposta alla morìa del commercio in centro, grazie a innovativi servizi al cliente, tradotti nel concetto di centro commerciale diffuso. Il caso di Trieste è interessante e unico nel suo genere, ma molte città d’Italia – forti della cooperazione tra commercianti e con l’aiuto degli amministratori locali – hanno seguito l’esempio, fornendo servizi tipici di un centro commerciale…ma nel centro città.

Del resto ciò che un centro commerciale, seppur moderno, non è in grado di offrire è proprio il rapporto diretto, e spesso amicale, tra gestore del negozio e cliente: il rispetto delle esigenze del cliente, il servizio pre e post vendita, i consigli e i favori tipici del vecchio rapporto umano basato sulla fiducia, sono elementi che nessun centro commerciale può mai mutuare e che rappresentano la vera forza del negozio sotto casa.

Tra l’altro va sfatato il mito per cui i prezzi dei negozi del centro sono più alti rispetto ai centri commerciali. Al netto di promozioni, sconti speciali e fumo negli occhi, se si guarda bene a fondo, i prezzi non sono poi così diversi, ma l’assistenza, quella sì, non ha prezzo e spesso viene servita gratis dal negoziante sotto casa, insieme agli sconti, che i clienti – in una strana logica di forti con i deboli e deboli con i forti – pretendono dal negozietto del centro ma si spaventano a chiedere nel centro commerciale, anche quando si tratta di un paio di centesimi.

Puglia-Briatore 1 a 0. Palla al centro.

briatore

Il rapporto tra Flavio Briatore e la Puglia non è stato proprio idilliaco. Iniziato male, è finito pure peggio, con l’imprenditore che, a più riprese e ogni volta che può, parla male della Puglia o dei Pugliesi con toni che sembrerebbero più quelli di un bambino capriccioso e arrabbiato, a cui sono state sottratte le caramelle, piuttosto che quelli di un imprenditore che, dati alla mano, analizza lucidamente la realtà. Ma lo ha già fatto con la Versilia, anni fa. Sarà che rosica?

L’ultima sua uscita, in ordine di tempo, è di oggi. Briatore, in un’intervista, dice che i pugliesi sono provincialotti incapaci di ospitare i ricchi perché non sanno garantire la loro privacy (concetto su cui, vedremo tra poco, è particolarmente fissato). Il riferimento è al matrimonio milionario tra Renee Sutton ed Eliot Cohen, avvenuto quest’estate a Monopoli (BA) in cui, pare, la Norma Cohen productions, organizzatrice dell’evento, abbia avuto qualche difficoltà nel garantire la privacy degli ospiti.

Ma gli esempi fatti da Briatore sono altri. Parla addirittura di Madonna, dicendo che “Se Madonna va a Portofino con Leonardo Di Caprio non ne parla nessuno, se va in Puglia finisce sulla prima pagina dei giornali. Come se in vita sua avesse fatto solo una vacanza, in Puglia”. Peccato che il Flavio nazionale abbia omesso di dire (o forse non sapeva) che a Madonna la privacy è stata garantita, ma se lei stessa pubblica su Instagram le foto di ogni luogo che visita o se, sua sponte, ha preferito andarsene a piedi in giro per Lecce in un periodo in cui la città pullula di turisti e visitatori, è ovvio che qualcuno ne parla (non solo i pugliesi, pure la stampa nazionale). Forse a Briatore manca qualche nozione in fatto di gossip, soprattutto ai tempi dei Social. Strano per uno che di paparazzi e tabloid da casalinga di Voghera ne mastica assai.

La realtà è che le sue sono solo sterili polemiche atte ad alimentare l’immagine stantia di un tizio le cui capacità imprenditoriali sono inversamente proporzionali alla capacità di restare nel mercato dei media al netto di toni infuocati e offese gratuite.

Ma perché tutto questo accanimento contro la Puglia?

punta_palascia
Punta Palascia, Otranto

Perché qualche tempo fa ha voluto investire in Puglia, in particolare nella splendida località di Otranto (LE), dove ha avuto l’idea di aprire uno stabilimento balneare sciccoso sotto il marchio Twiga. Per fare ciò, ha concesso l’utilizzo del marchio ad imprenditori locali. La Procura di Lecce ha messo sotto sequestro il cantiere dello stabilimento per presunti abusi edilizi. L’accusa, in particolare, è di aver realizzato strutture difformi da quanto previsto dall’articolo 69 delle norme di attuazione del Piano regolatore su un’area a destinazione agricola. Dopo che il Tribunale per il riesame ha validato il sequestro, il bravo imprenditore ha ritirato il marchio e se n’è scappato dalla Puglia.

Da lì l’inevitabile divorzio con la Puglia e gli inizi del dietrofront: la Puglia è passata – nelle sue dichiarazioni alla stampa – da luogo in cui investire a posto fatto di provinciali, ignoranti, bifolchi e incapaci di fare politiche turistiche di qualità.

Tant’è che poco dopo, nella trasmissione Porta a Porta, Flaviuccio disse “Volete che a Gallipoli la gente dorma sulle spiagge e si impasticchi? Va bene. Quel turismo di treccioline già c’è. Volete il turismo di cultura? C’è già. Per superare l’asticella ci vorrebbero masserie da riqualificare e un brand internazionale (…) C’è molto poco rispetto per chi investe. Capisco i controlli, ma ha vinto la burocrazia».

Ora, premesso che la Puglia ha ancora molto da imparare sulla gestione del turismo, mentre sul marketing turistico ha invece molto da insegnare, quello che va evidenziato è però un altro aspetto che traspare dalle innumerevoli dichiarazioni di Briatore rilasciate alla stampa in questi mesi: l’ipocrisia. Già, perché se a Briatore fosse filato tutto liscio, se il Twiga di Otranto avesse aperto i battenti, se la Procura (cattivona e burocrate, sic!) non avesse messo il naso nel cantiere, allora si, Otranto sarebbe stata meta del turismo di qualità e la Puglia – di riflesso – avrebbe surclassato la vetusta Versilia.

2014: Versilia out. Meglio la Puglia

Basta scavare un po’ nella “storia” e scoprire che a Briatore la Puglia piaceva assai e che difficilmente i Pugliesi sono diventati provincialotti nel giro di 3 anni.

Già, perché pure nei riguardi della Toscana, nel 2014, il prode imprenditore ha avuto da ridire, parlando di una Regione rimasta ferma a 30 anni fa e preda di eccessiva burocrazia e proibizionismo (vedi qui e qui). Ed è stato proprio per questo motivo che ha voluto investire in Puglia, tessendone le lodi e credendo di trovare tappeti rossi al suo passaggio, anarchia burocratica e permissivismo ad oltranza.

E’ allora forse per l’immagine così anarcoide della Puglia che il nostro Briatore ha voluto investirci? Del resto non è difficile immaginare l’assenza di controllo sull’operato della Società che si occupava del cantiere di Otranto per la costruzione del Twiga. Perché se i controlli ci fossero stati, forse lo stabilimento non sarebbe sorto o sarebbe sorto in un’area diversa, oppure con un progetto a norma. Chissà. Forse Briatore pensava che sarebbe stato sufficiente concedere il marchio e lavarsi le mani senza controllare l’andamento dei lavori e il rispetto delle norme edilizie? Chissà, però fanno pensare le sue obiezioni verso una Toscana troppo proibizionista e il contestuale desiderio di investire in una Puglia più vivace (e, magari, dalle maglie burocratiche più larghe). Non sapremo mai se lui abbia controllato l’andamento dei lavori o se la Procura di Lecce abbia preso un granchio, però possiamo fare un semplice 2+2 e capire che forse il suo desiderio di investire in Puglia sia derivato dalla voglia di avere poche grane burocratiche.

Infine pare proprio che abbia in fissa il concetto di privacy, tanto da usarlo così, a pioggia, anche contro i suoi “vicini di bagno” in Versilia. La polemica tra lui e il titolare del Bagno Piero è rimasta negli annali della storia trash d’Italia. Oggi, quindi, ripete la stessa tiritera anche in Puglia. Ma non attacca.

Insomma, per farla breve, i suoi sono solo sfoghi. Altro che analisi imprenditoriali e sociali. Dunque Puglia-Briatore 1 a 0, per autogol. Palla al centro. E ci auguriamo che non si metta a fare i capricci e se la prenda con l’arbitro.