Sviluppo sostenibile, CO2 compensata, maddevero?

Sviluppo sostenibile, transizione ecologica, bioeconomia, rispetto dell’ambiente sì, ma con crescita, sennò ciccia, lotta ai cambiamenti climatici con le compensazioni, e via discorrendo. Il problema? Ci prendono per culo e non ci stanno (stiamo) a capì ‘n’cazzo.

Ogni volta che accendo la TV (raramente, per fortuna) e mi ritrovo la solita pubblicità che parla di quant’è figa la propria azienda perché compensa totalmente le emissioni di CO2, non riesco a non incazzarmi di brutto per poi spegnerla (così, almeno, risparmio corrente elettrica e limito le emissioni).

Ma vabbè, ci può anche stare. Le aziende ci hanno ormai abituati alle menzogne e alle distorsioni della verità, pur di acchiappare qualche cliente in più o aumentare di qualche punto l’asticella del fatturato.

Ma quando leggo i progetti, le strategie e le politiche europee o, addirittura, le carte internazionali dell’ONU, come l’Agenda ONU 2030, m’incazzo di brutto nel leggere parole come sviluppo o crescita, sì, ma sostenibili.

Come fa lo sviluppo ad essere sostenibile?

Parlare di sviluppo o crescita sostenibili è un po’ come parlare di porno però casto oppure di cibo spazzatura però salutare o, ancora, di sigarette però sane.

Insomma, contraddizioni in termini, parole che celano la merda che ci propinano per cioccolata. Anche se la chiami cioccolata, sa sempre di merda.

Perché sviluppo o crescita economica significano, papale papale, prendere delle risorse prime e trasformarle in prodotti da vendere o servizi da fornire, che più aumentano e più aumentano crescita e sviluppo. Aumenta il benessere, ma di pari passo aumentano le materie prime da usare, gli scarti produttivi, i rifiuti, gli sprechi, l’entropia.

Dunque se le risorse, cioè le materie prime, sono finite – e quindi entra in campo la sostenibilità – non cresci più di tanto, arrivi ad un certo punto e ti devi fermare. Quindi o sei sostenibile o cresci. Non c’è scelta.

Ecco che la contraddizione sta qua.

Se ho 100 piante in un terreno che ne può ospitare al massimo 100, da cui prendo 1000 banane, quando arrivo alla millesima, mi fermo, non ne produco e vendo più. Se però voglio guadagnare più soldi o la domanda è superiore all’offerta di 1000 banane, che faccio? Pianto più alberi e ci faccio un impianto intensivo? Ci butto gli ormoni sulla pianta per ottenere una maggiore produttività? Son cose che posso fare, ma poi non sono più sostenibili. Entra in campo l’inquinamento, l’impoverimento dei suoli, il degrado dell’ecosistema. E allora?

Andiamo con ordine ed iniziamo a parlare di compensazioni però compensate, per poi dare uno sguardo alle politiche dell’UE in materia di bioeconomia – con il prefisso -bio che maschera le reali intenzioni – e, infine, parlare di crescita economica però sostenibile e vedere perché si usano questi due concetti antitetici (spoiler: per salvare gli interessi della grande industria e della finanza).

Le emissioni compensate

Partiamo dal concetto più semplice. Emissioni compensate non significa zero emissioni. Anzi, tutt’altro.

Quando ci dicono che l’azienda pincopallo black s.p.a. è pulita perché le sue emissioni sono del tutto compensate, significa che può inquinare quanto gli pare, ma sulla carta risulta che quello che inquina è compensato da un’altra azienda – chessò, la tiziocaio green s.r.l. – che, invece, produce energia pulita. Oppure la stessa azienda dice di piantare un certo numero di alberi e, per ogni albero piantato, compensa di un x le sue emissioni di CO2.

L’energia pulita e l’asta della CO2

Ne ho parlato più diffusamente qui. Le aziende grosse, quelle che, per capirci, controllano grosse fette di mercato, hanno un giro d’affari miliardario, hanno sedi nei paradisi fiscali e finanziano con grosse somme le campagne elettorali dei politici di mezza Europa, sono le più inquinanti: compagnie aeree, aziende di trasporti, compagnie petrolifere, aziende produttrici di energia, imprese di costruzione, persino le imprese high tech (perché sono energivore).

Se gli dici di inquinare meno, gli pesti i piedi.

Ma siccome gli stati capitalisti dell’UE, inclusa l’Italia, non hanno intenzione di pestare i piedi alle grosse aziende inquinanti, hanno affinato, negli anni, vari sistemi per aggirare le norme da loro stessi create.

In altre parole, i Paesi dell’UE e la Commissione europea cui gli Stati membri hanno devoluto importanti competenze in queste materie, si trovano tra due fuochi: da un lato i gruppi sociali spingono per risolvere il problema delle emissioni, dei cambiamenti climatici, della perdita di biodiversità e dell’inquinamento, quindi non possono far finta di niente (come hanno fatto fino a pochi decenni fa). Dall’altro, però, ci sono i gruppi di potere, composti dalle predette aziende e dal rispettivo sistema finanziario, che, invece spingono in direzione opposta.

E che si fa?

Dato che la tematica ambientale e delle alterazioni climatiche è sempre più un’urgenza, la produzione normativa è andata nella direzione di una sempre più crescente tutela dell’ambiente, salvo poi dover fare i conti con i gruppi d’influenza economici, producendo così degli ibridi normativi che, a conti fatti, scontentano gli uni per accontentare gli altri. Ma con un gioco di parole che vuol accontentare tutti.

E così si è prodotto un sistema normativo, per dirne una, che impone che, entro il 2030, si dovrà ridurre il 55% di CO2 rispetto a quanta se ne produce ora.

Ottimo.

Ma allo stesso tempo si genera un sistema di mercato che permette di vendere la CO2 e comprare… aria pulita! E come si fa? Con il mercato della CO2. Su cui è possibile pure investire. Perché ricordiamolo sempre: è la struttura (il sistema economico) che comanda sulle sovrastrutture (la politica, il diritto).

Dunque tu impresa fai 10 tonnellate l’anno di CO2? Allora il sistema ti permette di comprare o produrre 10 tonnellate di energia pulita, da fonti sostenibili. Così compensi le tue emissioni.

Ma solo sulla carta, poi non importa se l’impianto che produce energia, lo fa in modo inefficiente. Basta che risulti, sulla carta, che tu produci energia pulita, per l’ammontare che ti serve a compensare le tue emissioni.

Detto in altri termini, così non si incentiva l’azienda a ridurre le emissioni, ma, al contrario si crea un sistema di speculazioni sull’energia pulita, oppure sull’economia circolare, tale da rendere queste fonti sostenibili… insostenibili economicamente e, ovviamente, ecologicamente.

In pratica non risolvi i problemi climatici né il sempre più scarso assorbimento della CO2 da parte delle piante, perché non stai riducendo le emissioni, le stai vendendo e comprando, come fossero una merce.

A proposito di alberi…

Piantumare alberi

L’operazione di piantumazione degli alberi è un’altra prassi che le aziende fanno per compensare le proprie emissioni.

Ora, premesso che non basta piantarli, ma occorre pure curarli nei primi anni di vita (dargli acqua, per esempio…) e che vedo in giro tanti alberi piantati e seccati dopo mesi, è chiaro che quest’operazione non può essere fatta così, a occhio o, peggio, con il sistema delle monoculture in modalità intensiva, perché così peggiori solo le cose.

Piantare alberi, dunque, non basta.

Bisogna capire quali alberi piantare in quali ecosistemi. Altrimenti si fanno danni. Se pianti lecci in un ecosistema umido, per dirne una, produci ingenti danni all’ecosistema, composto da microorganismi indispensabili per la biodiversità e da processi ecologici di cui sappiamo ancora ben poco. Ma sappiamo che, con specie arboree aliene, rischia di mutare e scomparire, con danni a tutto l’ecosistema.

Qui è spiegata meglio,

Degna di nota è, innanzitutto, la campagna globale Trillion Trees e la correlata iniziativa statunitense del Trillion Trees Act (H. R. 5859), sottoposta al Congresso USA. Persino il presidente statunitense uscente Donald Trump aveva appoggiato l’iniziativa “green” di piantare alberi, sposata nel Regno Unito anche dal premier inglese Boris Johnson, che l’aveva usata come spot elettorale alle elezioni politiche del dicembre 2019, promettendo di piantare nel paese 2 miliardi di alberi entro il 2040.
Un’altra importante iniziativa in tal senso è la cosiddetta Bonn Challenge, a cui hanno aderito una quarantina di paesi del mondo. Merito dell’iniziativa è aver fissato l’obiettivo globale di recuperare entro il 2020 ben 150 milioni di ettari di terreni impoveriti e deforestati, per raggiungere i 350 milioni di ettari entro il 2030.
Secondo gli scienziati, i due progetti sono in parte insostenibili perché se sostituiamo progressivamente le foreste naturali con piantagioni monocolturali ovvero con gruppi di alberi appartenenti a specie limitate (seppur profittevoli perché magari producono frutti o gomma), incentiviamo la perdita di biodiversità invece di combatterla. Tipicamente, le piantagioni hanno una minore capacità di cattura del carbonio, di creazione di habitat e di controllo dell’erosione del suolo rispetto alle foreste ancestrali. Pertanto, i potenziali benefici che potrebbero derivare dalle campagne di riforestazione di massa sono effimeri. Quando le piantagioni di alberi sostituiscono le foreste native, i terreni da pascolo o le savane, quegli ecosistemi naturali vengono completamente distrutti e (almeno finora!) non è possibile ricrearli ex novo artificialmente. L’evoluzione degli ecosistemi risponde infatti a logiche diverse da quelle “umane”; essa ha portato alla creazione di specie uniche, adattatesi a quello specifico ecosistema naturale e non ad altri.

Il caso della Puglia

Ecco che, per fare un esempio a me vicino, se il Piano di rigenerazione olivicola del Salento prevede di piantumare un gran numero di ulivi di sole due varietà (Leccino e FS-17, un ibrido) in modalità intensiva che richiedono grosse risorse d’acqua e fitofarmaci, l’effetto è che riduci la biodiversità e impoverisci il suolo.

Ergo: riduci la fertilità del suolo, i microorganismi che ci abitano e, in questo modo, diventi sempre più schiavo dell’agrochimica, perché elimini i processi di difesa delle piante e la competizione biologica.

Ma le monoculture, di varietà che notoriamente durano pochissimi anni, servono a favorire i processi naturali oppure quelli economici?

La strategia di bioeconomia europea

Nel 2012 la Commissione europea ha elaborato una strategia volta a sostenere l’economia circolare e lo sviluppo sostenibile, attraverso una serie di misure che porteranno l’Europa, nei prossimi decenni, a sostituire le materie prime necessarie per la produzione energetica ed industriale dalle fonti fossili a quelle naturali.

La bioeconomia – si legge qui – secondo la teoria di Nicholas Georgescu-Roegen, si fonda sul presupposto che i processi economici, investendo il mondo fisico, sono soggetti alle sue leggi, prima fra tutte l’entropia, ovvero la irreversibile dissipazione di energia e materia generata dai processi di trasformazione. I processi di produzione sono visti come un insieme di fondi (terra, capitale e lavoro) e flussi (risorse naturali, prodotti e scarti), in cui non vi è sostituibilità tra fondi e flussi: si può sostituire il lavoro con il capitale, ma certamente non le risorse con il capitale. D’altro canto, l’efficienza energetica, lungi dal potersi riferire solo al mero rapporto tra input e output di energia, deve considerare i processi dissipativi della materia coinvolti nella trasformazione dell’energia stessa. Un’economia sostenibile e circolare non richiede, dunque, soltanto flussi rinnovabili, ma anche una relazione fondi-flussi che rispetti e mantenga l’identità dei fondi, ovvero una compatibilità fondativa tra la velocità/densità dei flussi nella tecnosfera e la capacità/velocità di rigenerazione dei fondi della biosfera.
Detta Strategia, invece, riflette un’accezione opposta e relativamente recente della parola ‘bioeconomia’, promossa dall’industria biotech, chimica, farmaceutica, agroindustriale e dai progressi della biologia, della genetica e della tecnologia molecolari, nonché dalla domanda di biomasse per usi industriali e non alimentari. Questa accezione, attualmente dominante, si fonda su una indimostrata equivalenza tra ‘rinnovabilità’ e ‘sostenibilità’, e su una visione tecnocentrica che vede nell’high-tech e nelle tecnologie a controllo centralizzato le soluzioni a ogni problema ambientale e il superamento di ogni limite allo sviluppo.

-Bio non sempre coincide con buono

Dunque la strategia europea di bioeconomia, sposata dall’Italia nel 2017, lungi dalle originarie teorie di Georgescu-Roegen, che parlava di sostenibilità piena, cioè di riduzione dello sviluppo per andare a passo con i processi naturali, non mette in discussione l’attuale modello economico di crescita infinita, ma semplicemente dice che bisogna eliminare le fonti fossili e usare le fonti naturali per produrre tutto ciò che oggi si produce con petrolio, gas naturale, carbone.

Usano il termine coniato da Georgescu-Roegen, ma in realtà si parla di bio-industria, bio-energia, bio-chimica, dove il prefisso -bio è una sorta di greenwashing, ecologismo di facciata, che maschera il tentativo di cambiare… senza cambiare.

Tutto ciò che ci circonda, oggi, è prodotto da fonti fossili: mobili, suppellettili, occhiali, buste e sacchetti, materiale da imballaggio, le componenti delle auto, le penne, i PC, televisori, persino i vestiti. Insomma, tutto. Pure prodotti usa e getta, tipo bicchieri e posate monouso, imballi per alimenti, ecc.

Prevedere di mantenere inalterato questo tipo di produzione e di sostituire solo le fonti di approvvigionamento significa, in poche parole, sottrarre terre in giro per il mondo, piantare determinati tipi di piante, in modalità intensiva e monocolturale, per soddisfare una domanda globale di tutti questi tipi di beni, impoverendo la biodiversità e contribuendo a peggiorare i mutamenti climatici.

Eppoi, basteranno le terre? Che impatti avrà tutto ciò sulle comunità locali? E sulle produzioni locali? Domande che non trovano risposte nelle strategie europee. Eppure già oggi il 3% delle aziende europee detiene il 53% della SAU (Superficie Agricola Utilizzata) e il fenomeno di land-grabbing è sempre in crescita, segno che alle comunità locali viene sempre più sottratta la ricchezza derivante dalle economie locali, specie nelle aree rurali, dove l’agricoltura è la prima fonte di sostentamento di numerose famiglie e piccole imprese.

Le biomasse

Un altro pilastro della strategia europea di bioeconomia è l’uso di biomasse per la produzione energetica. Qui torniamo al punto evidenziato nel precedente paragrafo: a che serve piantare alberi che durano poco? A produrre biomasse.

Cosa sono le biomasse? In due parole, è la produzione e trasformazione di materiale vegetale in molecole di interesse industriale per il settore chimico, farmaceutico, cosmetico, alimentare, energetico, dei materiali ed altri ancora. Di regola si dovrebbe usare il materiale di scarto (scarti di potature, fogliame, ecc.), ma per soddisfare una grossa domanda occorre una grossa combustione. Dunque…

Calabria&Puglia

Già oggi, in Calabria, parte della Sila, dell’Aspromonte o del Pollino, sono oggetto di disboscamento per motivi energetici. Nelle centrali a biomasse, poi, non ci entrano solo materiali vegetali, ci entra di tutto. E la ‘ndrangheta controlla il fenomeno.

In Puglia, parimenti, sta avvenendo lo scempio dell’espianto di centinaia di migliaia di ulivi secchi (ma non per questo insalvabili) da parte di aziende calabresi per usarli nei propri impianti di biomasse. Ti propongono di pulire gratuitamente il tuo fondo, in cambio prendono la legna e la portano negli impianti di biomasse di Crotone o di Strongoli.

Il proprietario poi potrà aderire al Piano di rigenerazione, impiantando Leccini e FS-17 che, tra 15/20 anni, diventeranno nuovamente materiali per biomasse.

Un progetto diabolico, non trovate? I piccoli proprietari non avranno certo le risorse per impiantare, gestire ed espiantare ulivi ogni 15/20 anni, arrivando al punto di togliersi davanti le terre a quattro soldi, favorendo il processo di latifondizzazione (cioè land-grabbing) previsto dal Piano. Ma il punto da affrontare oggi non è questo. Il punto è:

le biomasse sono davvero sostenibili in un modello economico come quello in cui viviamo oggi?

Leggo ancora qui,

Per quanto riguarda la biomassa, questa non può considerarsi sostenibile e rinnovabile a prescindere dalle condizioni e dai tempi di produzione. La sostenibilità non è data dalla mera sostituzione delle risorse non rinnovabili con quelle cosiddette rinnovabili per diverse ragioni legate al modello e alla scala di produzione necessarie alla produzione industriale di biomassa, ovvero il modello monoculturale intensivo e superintensivo, meccanizzato e digitalizzato, su larga scala. Tale modello, che si basa sull’omologazione colturale, è idroesigente, energivoro e ad alta intensità di fattori produttivi, comprese copiose quantità di prodotti chimici (fertilizzanti, fitofarmaci, erbicidi). Questo, se da un punto di vista ambientale produce perdita di biodiversità, degradazione e inquinamento del suolo, contaminazione dell’acqua e perdita dei processi ecosistemici, da un punto di vista territoriale produce competizione per l’uso del suolo e delle risorse idriche, aumento dei prezzi dei prodotti agricoli e dell’insicurezza alimentare; da un punto di vista paesaggistico, comporta uniformizzazione e trasformazione delle campagne in campi agroindustriali e agrodigitali. In ultimo, la filiera lunga incrementa le emissioni nocive e climalteranti, e produce dipendenza da fonti estere non sostenibili. La biomassa, d’altro canto, non può essere considerata una risorsa rinnovabile a prescindere dalle condizioni d’uso del suolo, dal tempo necessario alla rigenerazione della stessa e dalle relazioni ecosistemiche derivanti dal prelievo su larga scala della risorsa. Un suolo fortemente degradato dal sovrasfruttamento è soggetto a desertificazione e, quindi, non si rinnova facilmente e può rischiare di inaridirsi del tutto, portando nel lungo periodo all’incapacità di produrre biomassa e, quindi, trasformandosi in una risorsa non rinnovabile.

Dunque le biomasse, in un modello economico invariato, producono conseguenze disastrose sul piano ambientale e dei rapporti sociali.

Si prospettano, così, fenomeni di impoverimento delle comunità locali, private delle terre, di crescita rapida delle piante (e conseguente impoverimento della biodiversità e problematiche sanitarie), per velocizzare i processi naturali e ottenere materie prime per fini energetici ed industriali, di scarsità della produzione agricola e destinata al pascolo, magari sostituendo tutto con cibi sintetici (e la carne sintetica è già una realtà).

E’ questa la crescita sostenibile prospettata dall’Europa. Una sostenibilità che non va di pari passo con la natura, ma, anzi, modifica i processi naturali a vantaggio di un sistema economico che, in poco più di due secoli, ha consumato più risorse naturali dalla nascita dell’essere umano.

L’ultimo interrogativo, dunque, è…

La crescita è sostenibile?

Abbiamo visto che la strategia di bioeconomia europea parla di crescita sostenibile, dove, però, il concetto di sostenibilità è dubbio e viene confuso con quello di rinnovabilità. E nemmeno quest’ultimo concetto è applicabile alle biomasse.

Anche l’ONU, nell’Agenda 2030, mette nel titolo il concetto di sviluppo sostenibile, parlando di libertà, prosperità, pace per tutti i popoli e le nazioni, però senza mettere in discussione il modo di produzione capitalista che, in quanto tale, impedisce, appunto, di raggiungere gli obiettivi di pace, libertà, prosperità per tutti i popoli e le nazioni.

Perché? Perché si basa su un concetto fondamentale: affinché pochi possano accumulare capitali, tanti debbono essere sfruttati. Inoltre, affinché si possa attuare la concorrenza, quei pochi debbono accedere alle risorse prime con costi più bassi possibile. Costi bassi significa sottrazione delle risorse, anche con la violenza, guerre, povertà e sfruttamento del lavoro a basso costo.

Ciò deve avvenire nei paesi ricchi di materie prime (quelli che, grottescamente, si chiamano in via di sviluppo), mentre nei paesi consumatori (attualmente l’Occidente) occorre mantenere standard alti di benessere, per favorire la crescita della domanda, che produce crescita di sfruttamento delle risorse nei paesi sfruttati.

Ma anche nei paesi consumatori avvengono forme di sfruttamento. Basti pensare al sempre più crescente divario tra città e campagna, centro e periferia, dove il centro è ricco, soggetto a regole di decoro e gentrificazione, mentre la periferia è sempre più povera e sempre più spopolata. Terreno ideale per acquisire… terreni.

Dunque cos’è la crescita sostenibile?

E’ un paradosso.

La sostenibilità è la condizione di un modello economico in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri.

La crescita economica, invece, viene definita come crescita quantitativa del consumo delle risorse, in cui l’aumento di valore dei prodotti aumenta all’aumentare della loro quantità, con l’incremento del consumo di risorse fisiche che ne deriva.

Tornando all’esempio delle banane, se aderisco al concetto di sostenibilità, dirò al mercato: “ragà, le banane so’ finite, comprate kiwi, che qualcosa è rimasto”. Se invece aderisco al concetto di crescita, dirò: “non c’è problema, ho piantato altri 100 alberi in intensivo e ci ho buttato ormoni per la crescita, tra 5 minuti avrete le banane!”.

L’esempio è volutamente irrealistico, ma facile da capire. La crescita non può essere sostenibile.

Difatti ci sono economisti, sia della decrescita sia del marginalismo, che sostengono che un’economia come quella odierna non può essere sostenibile, perché è lasciata all’iniziativa privata e alla concorrenza. Un’economia pianificata, invece, potrebbe garantire livelli di sviluppo, però finiti, programmabili ed in linea con i processi naturali. Cioè sostenibili.

Daly e Raworth

Herman Daly, per citare l’economista marginalista più noto, ha sviluppato il concetto di economia dello stato stazionario, in cui è possibile svilupparsi mantenendosi entro la capacità di carico degli ecosistemi.

In questo modello economico, il tasso di utilizzo delle risorse rinnovabili non deve essere superiore alla loro velocità di rigenerazione, inoltre l’immissione di sostanze inquinanti e di scorie non deve superare la capacità di assorbimento dell’ambiente.

In pratica, nello stato stazionario l’economia può crescere solamente attraverso un aumento dei servizi a stock naturale prefissato. Dunque un’economia pianificata. Ma Daly non è l’unico ad aver prospettato un modello economico differente dal liberismo in cui siamo immersi oggi.

Altri autori, tipo Kate Raworth ha elaborato nei primi anni dieci del secolo una nuova bussola per i decisori politici, a forma di ciambella. L’idea su cui si fonda la Doughnut Economics è che per modellare un’economia in cui l’uomo possa prosperare, è necessario partire da una visione di mondo in cui ogni persona vive con dignità e senso di comunità all’interno dei limiti delle risorse che il pianeta ci mette a disposizione.

economia della ciambella
Kate Raworth, l’economia della ciambella, 2011

Anche questo è un modello applicabile, secondo l’European Environment Agency. Ma non il solo. Di modelli alternativi a quello attuale ce ne sono a bizzeffe (decrescita, post-crescita, ecc.). L’unica cosa chiara è che non esiste la crescita sostenibile. E’ una bufala.

E non lo dice solo un fesso come il barbuto, ma un noto giornalista come Jeremy Seabrook scrisse, ormai 20 anni fa: Sustainable development is a hoax: we cannot have it all.

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