Le elezioni politiche 2022 sono ancora in corso, ma siamo ormai nelle battute finali ed è chiaro l’esito del voto. Un commento “a caldo” che considera anche il futuro dell’Europa e dell’Occidente.

Son le sette di mattina quando inizio a scrivere quest’articolo e la pioggia ha interrotto il mio programma di andarmene pe’ boschi a fare una lunga passeggiata. Erano mesi che non aggiornavo questo blog, un po’ per la classica “mancanza di tempo” (che spesso è una scusa per giustificare l’accidia) e un po’ perché, come spesso capita, quando hai tanto da dire, finisci per restare in silenzio.

Ma le attuali elezioni politiche, unite alla pioggia, mi hanno invogliato a scrivere, tanto non ho di meglio da fare.

Secondo i risultati attuali, alla Camera FdI è dato al 26%, la Lega al 9%, Forza Italia all’8% con una maggioranza al Centrodestra di quasi il 44% (decimali arrotondati per comodità). Al Senato il risultato è pressoché simile.

Al Centrosinistra le cose vanno peggio in Camera, con il PD al 19%, i Verdi e SI al 3,5% e +Europa al 3% (Di Maio manco lo considero), per un totale del 26%. Idem per il Senato.

Il M5S ha retto, tranne nelle regioni del Nord

Il M5S ha retto l’urto della scissione interna e dei litigi tra commari, attestandosi su un rispettabile 15%, con un grande scarto tra le regioni del Nord e quelle del Sud, con le regioni del centro Italia che fanno da media ponderata.

Infatti il M5S ha preso un minimo del 5% in Trentino (5,8 in Veneto) ed un massimo del 12,2 in Liguria, con una media del 7,6% (9,8 in Emilia, 7,1 in Friuli, 7,4 in Lombardia, 10,2 in Piemonte, 11,1 in Toscana). Al centro Italia si è attestato al 14,8% di media (18,4 in Abruzzo, 14,8 in Lazio, 13,5% nelle Marche, 12,6 in Umbria).

Al Sud, invece, ha ottenuto grandi risultati, con una media del 27,3%, risultando addirittura primo in Campania, con il 34,9% (24,8 in Basilicata, 29,4 in Calabria, 24,1 in Molise, 27,9 in Puglia, 21,3 in Sardegna, 28,3 in Sicilia).

Questo dimostra, com’è evidente ai più, che il tema del Reddito di Cittadinanza ha fatto da catalizzatore, mentre nelle regioni che auspicano il regionalismo differenziato il M5S ha ottenuto scarsi risultati.

Una prima considerazione da fare è che era evidente, già da mesi, che il partito della Meloni sarebbe stato il più suffragato, per tre chiare ragioni.

Scarsa rappresentanza…

La prima è che l’Italia vive ormai da 40 anni un fenomeno di scarsa rappresentanza politica. Con il crollo delle ideologie e la sempre crescente complessità sociale, unita ad un fenomeno sempre più invasivo di influenze da parte del mercato volte ad omologare le diversità socio-culturali, c’è stato uno iato tra la rappresentatività politica e la base sociale.

Detto in altri termini, mentre i poveri diventavano sempre più poveri, mentre la classe media si assottigliava, mentre gli sfruttati continuavano a restare tali ed i vecchi sfruttatori erano a loro volta sfruttati dalle dinamiche globali, la politica smetteva di rappresentare le istanze di classe e si avvicinava verso il centro.

Cioè rappresentava una classe media che, però, iniziava a dissolversi. E, soprattutto, rappresentava gli interessi dell’industria e della finanza. Locale, nel caso delle destre, europea ed internazionale nel caso del centro-sinistra moderato.

Se l’obiettivo di imitare il sistema politico statunitense, con due grossi poli (PD e PDL) è sfumato, dall’altro lato c’è stata una crescente esigenza di costituire soggetti politici alternativi, che però sono rimasti a livello di sovrastruttura, cioè tematici (Verdi, europeisti, antieuropeisti, rottamatori, no a questo, sì a quest’altro, ecc.).

Ciò ha alimentato il populismo e la disaffezione dell’elettorato verso la politica.

Le crisi del 2007 e del 2011 hanno evidenziato ancora di più l’insofferenza, specie nelle classi più disagiate, sfociata poi nella strutturazione dei soggetti politici populisti, in particolare del M5S, che è arrivato al 33% alle politiche del 2018, dopo circa 12 anni di VaffaDay e MeetUp fatto di giovani volenterosi, ma senza una base ideologica chiara.

E infatti l’esperienza di governo del M5S ha mostrato chiaramente come sia facile perdere consensi quando ci si trova nelle stanze del potere, costretti (o quasi) a rappresentare gli interessi della finanza, anziché quelli della classe di riferimento.

…astensionismo

Dunque la scarsa rappresentanza produce astensionismo. Le elezioni politiche attuali ne hanno dato prova.

Quattro italiani su dieci non hanno votato. Su 51,5 milioni di italiani chiamati a votare, 4,5 milioni hanno deciso di non farlo.

Ad eccezione delle politiche del 2008, il trend sull’astensionismo è negativo. Da questo interessante studio si evince che il calo è progressivo negli anni Ottanta, ma subisce un netto declino dai primi anni Novanta, esattamente da quando i partiti tradizionali si sono dissolti ed è iniziato il fenomeno del berlusconismo e del populismo politico, con i talk show che hanno spazzato via le tribune politiche e il trash che ha sostituito l’analisi dei fenomeni complessi.

trend_negativo_elezioni_politiche_italia
tratto da https://journals.openedition.org/qds/537?lang=en

Giusto per comodità, ecco le percentuali dei votanti nelle elezioni politiche dal 1948 ad oggi.

Elezioni politiche e percentuali di affluenza al voto

1948: 92,23%
1953: 93,84%
1958: 93,83%
1963: 92,89%
1968: 92,79%
1972: 93,19%
1976: 93,39%
1979: 90,62%
1983: 88,01%
1987: 88,83%
1992: 87,35%
1994: 86,31%
1996: 82,88%
2001: 81,38%
2006: 83,62%
2008: 80,51%
2013: 75,20%
2018: 72,94%
2022: 63,91%

Insomma, è il dato più basso di sempre. Il partito dell’astensionismo è direttamente collegato alla scarsa rappresentanza politica. Ma è collegato anche ad un altro fenomeno, quello della volatilità elettorale.

…e volatilità elettorale

Una parte consistente dell’elettorato non si sente rappresentata e di questa, una parte decide di non votare. L’elettorato votante, invece – e sempre per scarsa rappresentatività – decide di testare gli schieramenti politici, secondo ormai la consueta dinamica dell’alternanza.

Quando è il centrosinistra a governare, il malumore per le politiche economiche e sociali sposta l’elettorato a destra. Quando governa la destra, il malumore li spinge verso il centrosinistra.

La considerazione è banale e non tiene conto delle alleanze, ma è una semplificazione utile per chiarire meglio il concetto.

Dunque il malumore non spinge l’elettorato da una parte o dall’altra volentieri, bensì secondo la logica del votiamo il meno peggio. Quante volte ce lo siamo sentito dire? Voto quel partito perché è meno peggio dell’altro. Il voto utile ha progressivamente sostituito il voto di fiducia, di rappresentanza, di classe.

E così, di meno peggio in meno peggio, l’elettorato punisce chi governa, premiando chi è all’opposizione.

Per la Meloni vale questo discorso, insieme ad un altro, che l’ha portata dal 4,5% delle politiche del 2018 al 26% di oggi (sottraendo voti alla Lega): non ha mai governato.

Mentre Salvini ha avuto esperienze di governo, non ultima con il governo Draghi (con 3 ministri, 1 viceministro e 8 sosttosegretari), FdI ha avuto la lungimiranza di restare sempre forza di opposizione, catalizzando consensi anche grazie ad una sovraesposizione mediatica che ha permesso alla Meloni di guadagnare la pancia del paese. Specie al Sud. Specie oggi, con il caro-bollette ed una profonda incertezza verso un futuro tutt’altro che roseo.

risposte populiste a domande complesse

Quest’ultima considerazione merita un piccolo approfondimento.

La risposta della Meloni alle profonde crisi economiche e sociali del Paese non sarà certo risolutiva. Come tutte le forze conservatrici e reazionarie, giura fedeltà al Patto Atlantico e alle attuali dinamiche socio-economiche ordoliberiste, mai messe in discussione.

Dunque la ricetta della Meloni, sul piano socio-economico, dopo queste elezioni politiche, non sarà molto dissimile da quella del PD o del Governo Draghi, non sul piano della struttura. A livello di sovrastrutture è chiaro che ci saranno attacchi alle differenze di genere, al diritto all’aborto, alle nuove concezioni di famiglia, così come ci sarà una nuova ondata securitaria e politiche di decoro urbano. Ma dal punto di vista dei rapporti sociali e della tutela delle classi agiate, non ci saranno grandi mutamenti.

E questo porterà presto il nuovo governo ad adottare le medesime strategie di contenimento dei costi per evitare lo scoppio della polveriera sociale già da quest’autunno: usare il debito e la tassazione su pensionati e lavoratori per coprire – dunque con soldi pubblici – i rincari energetici.

Elezioni politiche e rincari energetici

E’ evidente che i rincari energetici non sono una diretta conseguenza della guerra in Ucraina e delle scelte di Putin. Già in passato ci sono state avvisaglie, perché gli aumenti in bolletta sono una conseguenza della transizione energetica, su scala europea (e, in parte, internazionale) e delle conseguenti speculazioni da parte degli operatori del settore e della finanza.

Ma Meloni, così come Letta o chicchessia in questo quadro politico-dirigenziale, farà in modo di non intaccare questi interessi.

Con buona pace di chi l’ha votata pensando di arginare l’erosione del potere d’acquisto del denaro o lo schizzamento alle stelle dell’inflazione.

Inflazione che aumenterà sicuramente se a questo si aggiungerà la flat tax, che produrrà maggiori squilibri sociali, appesantendo ancora di più le condizioni di vita della classe lavoratrice e dei pensionati.

Ma questa è un’altra storia.

Il declino dell’Occidente e lo smantellamento dell’Europa della finanza

Un aspetto positivo del vento di destra che sta colpendo l’Europa (non dimentichiamo che la destra governa in Austria, Polonia, Ungheria, con sfumature di destra in altri 20 paesi d’Europa) è che questo accelererà il declino di quest’Unione europea affarista e delle banche.

Un’accelerazione necessaria ed in linea con la Storia, che vedrà presto il dissolversi dell’Occidente, con la frammentazione dell’Europa unita all’insegna dell’atlantismo e del liberismo, a favore del multipolarismo e dello spostamento degli equilibri geo-politici in Oriente.

Un fenomeno necessario, affinché si generino nuovi rapporti sociali e nuovi modelli economici – mi auguro – sostenibili ed in grado di affrontare il tema più importante per l’umanità: la salvaguardia della biosfera e degli ecosistemi.

Mentre l’Europa sta progettando sì delle politiche bioeconomiche e di transizione energetica volte a raggiungere questo importante obiettivo, nei fatti sta salvaguardando gli attuali assetti socio-economici che, restando tali, produrranno più squilibri che vantaggi in chiave ambientale.

In altre parole si passerà dallo sfruttamento delle risorse fossili a quello delle risorse naturali, con ovvi fenomeni di deterritorializzazione che produrranno maggiori povertà e problematiche ambientali.

Quindi un’Europa debole è un’Europa incapace di produrre risultati disastrosi sul piano ambientale ed economico.

Il vento di destra rallenterà probabilmente questi fenomeni, non perché non siano appetibili sul piano finanziario, ma perché salvaguarderanno gli interessi del capitale interno, a svantaggio delle visioni unitarie europeiste. Quindi maggiore frammentazione significa politiche unitarie deboli.

E forse, con un’Europa debole, frammentata ed incapace di esprimere politiche unitarie, si potrà riflettere nuovamente su quale Europa vogliamo, un’Europa dei popoli, equa, dove prevalga la giustizia sociale o un’Europa delle banche, dove prevale lo sfruttamento delle classi deboli e l’ingrasso dei capitani di ventura del capitale internazionale.

Quindi le destre al governo non sono poi una così cattiva notizia. L’importante è saperle affrontare alla base, mettendo insieme tutte le forze di opposizione in chiave costruttiva ed unitaria. Chissà se la Meloni al governo non ci regalerà questo sogno finora insperato.

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