Il vento tra le colonie. Quando l’eolico invade il Meridione

Le fonti di energia rinnovabile, in particolare eolico e fotovoltaico, sono importantissime per la transizione energetica e l’abbandono delle fonti fossili. Ma se il loro sviluppo non è pianificato dai pubblici poteri, condiviso dalle comunità locali e resta nell’ottica del modo di produzione capitalistico, farà enormi danni. In quest’articolo ci concentreremo sull’eolico, su cui oggi le Società puntano di più, perché produce meglio di un impianto fotovoltaico di pari potenza, occupando meno spazio.

Da qualche anno a questa parte, quando si affronta il nodo dello sviluppo delle fonti energetiche e si evidenziano le forme di speculazione cui conseguono effetti dannosi sul piano ambientale e sociale, spesso ci si sente rispondere con un “allora tu sei contrario all’energia pulita?!” con ciò chiudendo qualsiasi tentativo di confronto critico.

Sgombro subito il campo da un equivoco che nascerà sicuramente tra chi si fermerà solo al titolo (o, al massimo, all’introduzione). Sono favorevolissimo allo sviluppo dell’energia pulita. E penso che chiunque, con un po’ di sale in zucca, preferisca un impianto eolico o fotovoltaico ad una centrale che sbriciola e brucia carbone h24 oppure ad una nucleare che produce scorie radioattive, impossibili da smaltire. Insomma, le tecnologie per la produzione di energia rinnovabile sono una meravigliosa evoluzione dell’umanità ed è ovvio che siano le benvenute.

Tuttavia anche le grandi invenzioni, se nelle mani sbagliate, diventano dannose. E’ una questione di numeri, obiettivi, frequenza e finalità.

La moltiplicazione dell’eolico

Oggi si sente parlare, sempre più spesso, di sviluppo delle rinnovabili in ottica ecosostenibile. Dunque, l’idea che passa attraverso i media è che la transizione energetica sarà sostenibile, orizzontale, diffusa e produrrà effetti benefici sull’ambiente e le comunità.

Ma che succede se all’improvviso, negli ultimi quattro anni, si creano numerosissime Società anonime che presentano centinaia di domande per l’installazione di parchi eolici? Tutti concentrati nel Sud Italia, con l’intenzione di installare migliaia di pale eoliche, alte tra i 200 e i 300 metri? E che succede se addirittura si prevede l’installazione di un enorme parco eolico nello Stretto di Sicilia, che da solo produrrà corrente quanto una centrale a carbone?

Dovrebbe succedere che il Governo o, meglio, il Parlamento dica qualcosa tipo “alt, fermi, è vero che dobbiamo sbrigarci, come impone l’Europa, a raggiungere l’obiettivo di produrre energia pulita, per il 30% dei consumi, entro il 2030, però pianifichiamo un attimo, sennò qua diventa un macello e generiamo squilibri”.

Invece niente. Silenzio totale.

Un silenzio assordante se pensiamo (e tra poco lo vedremo nel dettaglio) che dal 2008 al 2017 contiamo solo 9 progetti in materia di eolico per cui è stata richiesta la Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), mentre dal 2018 ad oggi c’è stata l’esplosione: ben 134 progetti presentati, per un totale di 2337 pale eoliche (giganti, va ribadito) e quasi 13700 MW di potenza nominale. Tutte concentrate tra Campania, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria, Sardegna e Sicilia (uno solo in Abruzzo, zero nel resto d’Italia).

La politica assente o complice

Ora, questi progetti sono ancora in fase di valutazione, ma, visto il moltiplicarsi delle domande, la politica dovrebbe reagire. Invece niente.

Il compito di valutare i progetti – singolarmente – è demandato agli uffici tecnici del Ministero e agli Enti coinvolti dalla VIA, senza una visione unitaria. Senza chiedersi, cioè, quali saranno gli effetti cumulativi di questi progetti che spesso coinvolgono aree ristrette e vanno letti unitariamente.

Ogni società proponente, nella propria documentazione tecnica, sostiene che il proprio parco eolico non impatta più di tanto con il paesaggio e non muta la destinazione d’uso dei terreni, perché le pale, in fondo, occupano poco spazio.

Sì, ci sta. 10 pale, magari, fastidio non ne danno. Ma che succederebbe se nella sola Provincia di Foggia fossero approvati tutti i progetti per un totale di 1150 pale (di 5859 MW di potenza)? Tutte alte tra i 200 e i 300 metri e concentrate in un’estensione territoriale di poco superiore ai 7.000 km².

A quel punto la sola VIA non basta e nemmeno la VAS (valutazione strategica). Occorrerebbe una valutazione politica e una pianificazione razionale, concertata tra Stato, Regioni ed Enti locali.

L’Italia non dispone di un vero e proprio piano energetico. Vive alla giornata, emanando ogni tanto qualche decreto ad hoc, ma senza una visione generale. Lo stesso vale per numerose regioni, specie al Sud, che, o non hanno un piano energetico, oppure (è il caso della Puglia) ce l’hanno, ma in discussione da una quindicina d’anni.

Inoltre il recente Recovery plan, il decreto Semplificazioni, lo Sblocca Italia e, in generale, le ultime normative in materia di sviluppo, indipendentemente dal colore politico, tendono ad alimentare questi fenomeni speculativi, secondo l’ormai superata ottica per cui il privato agisce meglio del pubblico.

Liberalizzazione, ovvero facciamo un po’ come ci pare

Una prima considerazione, analizzando i progetti presentati, è che tantissime società proponenti sono di recente costituzione (ciò si evince in parte dalle relazioni presentate in fase di VIA e in parte da ricerche web). Spesso prendono il nome dalla zona in cui sorgerà l’impianto. Ad es. Parco Eolico Borgo Mezzanone S.r.l., con sede in Roma, prende il nome dalla località in provincia di Foggia; Avetrana Energia s.r.l. ha sede a Bolzano, ma prende il nome dalla città in cui sorgerà l’impianto eolico).

Alcune hanno lo stesso nome, ma si differenziano per il numero progressivo (es. SCS01; SCS03, ecc.).

Tutto ciò ci fa pensare che siano società di scopo.

Niente di illegale o di strano, sia chiaro. Ma ciò lascia presumere che, nel lungo periodo, ottenuto il profitto atteso (che, vedremo, non è detto sia legato alla vendita dell’energia), alcune di queste società spariranno, lasciando a bocca asciutta i Comuni (che sperano nelle compensazioni) e le pale lì, come testimonianza di archeologia industriale del XXI secolo.

La libera iniziativa, come sappiamo, in un quadro di mancanza di pianificazione da parte dei pubblici poteri, di confronto tra tutte le parti sociali ed in mancanza di responsabilizzazione delle società (ne ho parlato più diffusamente qui), tende ad accaparrarsi le risorse spendendo il meno possibile.

La base su cui si fonda il modo di produzione capitalistico è quello della valutazione costi/benefici, per cui un territorio, la biodiversità, la storia, gli usi e le tradizioni del posto, le relazioni sociali, non hanno altro valore se non quello economico. E dev’essere il più basso possibile.

Ecco perché, secondo una concezione colonialista, molte di queste società predispongono una serie di misure compensative, per i territori, che rappresentano le briciole rispetto all’ammontare degli investimenti e dei profitti attesi.

Facciamo un esempio

In uno dei progetti di un parco eolico, in fase di VIA, i proponenti hanno offerto, come compensazioni, una esigua somma di denaro al Comune pugliese nel cui territorio sorgerà il parco; la sistemazione di qualche strada, vaghe promesse di valorizzazione e di aumento dei posti di lavoro. Salvo poi specificare, nella documentazione tecnica, che i cantieri per la costruzione dureranno circa 12 mesi e che per la gestione dell’impianto serviranno solo due operai.

In media un progetto per una dozzina di pale eoliche di potenza nominale di 6 MW vale tra i 70 e i 100 milioni di euro. Le compensazioni offerte al Sud si aggirano tra lo 0,5 e l’1% del totale dell’investimento.

Ora, poniamo che una holding, servendosi di più società ad hoc (senza mai comparire), proponga 10 parchi eolici da 12 pale l’uno. Avremo un territorio invaso da 120 pale, per un valore di 1 miliardo di euro e il territorio avrà in cambio compensazioni per circa 1 milione di euro, anche meno, e una decina di posti di lavoro. Quanti se ne perderanno per la trasformazione dell’area da agricola ad industriale (di fatto) non è possibile preventivarlo, ma si può immaginare.

Se andiamo ad analizzare, invece, i (pochi) progetti finora presentati nelle Regioni del Centro-Nord Italia, notiamo, per citarne uno, che su un investimento di 35 milioni di euro per un impianto di 8 pale, alte 99 metri, le compensazioni si aggirano sui 5 milioni di euro (e oltre) e viene anche inclusa la vendita dell’energia elettrica alle famiglie e agli Enti locali a prezzo di costo (proposta assente nei progetti che riguardano il Meridione). A fronte di queste offerte, spesso le Comunità locali hanno detto no (V. per approfondire, questo documento di inchiesta pubblica svolto in Toscana).

Il Colonialismo 2.0

A motivo di ciò si può dedurre che l’eccessivo interesse di moltissime Società nei confronti del Sud non dipende tanto dalla sua ventosità (aspetto che si legge abbondantemente nelle relazioni tecniche) o dal fatto che le aree interessate siano poco popolate e di scarso valore naturalistico (altro aspetto che compare in abbondanza nelle relazioni), quanto dalle ampie maglie lasciate aperte da Comunità ed Istituzioni, in cui le Società neo-liberiste s’infilano, per proliferare.

Comunità poco coese e socialmente frammentate, che si possono accontentare con poco, secondo la logica del divide et impera, e persuadere che questi progetti sono un volano di sviluppo, sfruttando la collaborazione prezzolata di specifiche classi sociali che, pur se in apparenza si schierano contro detti progetti, nella realtà ne avallano l’installazione.

Istituzioni che non hanno saputo (o voluto?) pianificare la tutela dei territori, lasciando ampi margini di speculazione nei rispettivi piani (territoriali; paesaggistici; energetici; ecc.).

Amministratori locali opportunisti che si fanno comprare con poco, con la promessa di compensazioni che ad un ottuso amministratore appaiono una manna dal cielo (e che non è detto che arriveranno o proseguiranno nel tempo).

Associazioni e Comitati di tutela dell’ambiente che agiscono localmente e si oppongono ai singoli progetti, senza considerarli in modo unitario, dunque senza una visione critica d’insieme e che, per l’effetto, vengono facilmente etichettate come nimby (Not In My Back Yard) dai media. Oppure di respiro nazionale che, però, tacciono sui reali intendimenti delle società proponenti.

Tutto ciò in un quadro di incertezza del diritto (sempre più radicato) che avvantaggia i più forti economicamente, i quali hanno campo libero per colonizzare i territori dove il conflitto appare basso e gestibile e la politica è complice o incapace.

L’invasione del Meridione

Come dicevo, sono centinaia i progetti sull’eolico che riguardano il Meridione. La ricerca è stata effettuata sul sito del Ministero della transizione ecologica, al 29 aprile 2021. Ad oggi, tra i progetti di eolico in fase di VIA, nessuno riguarda le regioni del Nord.

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Se qualcuno non crede al fatto che tutti i progetti di eolico riguardino solo le regioni del Sud Italia, si prenda la briga di entrare qui e fare le dovute ricerche. Tanto il sito del Ministero della transizione ecologica è facile da navigare. Basta inserire il testo desiderato nel campo di ricerca (es. eolico; aerogeneratori; parco eolico; o il nome della località) e compariranno tutti i progetti in fase di VIA.

Si è reso necessario approntare uno schema riepilogativo perché analizzando i singoli progetti non si evince l’impatto dimensionale di tutte le opere proposte. In altre parole, in questo modo si capisce meglio la possibile intenzione sottesa a detti impianti, di trasformare il Sud Italia in un enorme hub energetico, in territori che già oggi sono in sovrapproduzione di energia elettrica.

Vediamo adesso di comprendere gli schemi. La colonna A riporta il nome della società proponente. Come detto, spesso il nome è preso dal nome della località in cui sorgerà il parco eolico.

La colonna B contiene il numero di aerogeneratori che compone il parco eolico per cui è stata presentata la domanda di VIA. La colonna C contiene la potenza massima nominale degli aerogeneratori. Dividendo il dato della terza colonna per quello della seconda, avremo la potenza nominale di una singola pala.

Sulla colonna D troviamo la data dell’avvio del procedimento di VIA. La colonna E contiene i nomi dei Comuni coinvolti, mentre le restanti colonne identificano Regione e Provincia.

Una mappa esemplificativa

A volte uno schema, anche se estremamente popolato di dati, non rende l’idea. Così ho pensato che attraverso una mappa si possa capire meglio l’impatto di tutti questi progetti. Ho inserito dei segnaposti in corrispondenza delle località interessate dai progetti di eolico, non le zone esatte, ma fa comprendere l’ordine di grandezza. Tra l’altro alcuni progetti, come detto, coinvolgono gli stessi comuni, quindi la mappa non esprime appieno la dimensione reale della questione.

mappa che identifica i comuni interessati dalle domande di impianti eolici, tutti concentrati nel Sud Italia e sulle Isole
mappa che identifica i comuni interessati dalle domande di impianti eolici, tutti concentrati nel Sud Italia e sulle Isole
focus dei progetti di impianti eolici in Sardegna
focus dei progetti di impianti eolici in Sardegna
focus dei progetti di impianti eolici in Calabria e Sicilia
focus dei progetti di impianti eolici in Calabria e Sicilia

Che dimensioni avranno le pale?

Le dimensioni delle pale eoliche sono grossomodo proporzionate alla potenza nominale complessiva, espressa in MW. Dividendo il dato della colonna C per quello della colonna B, si ottiene la potenza nominale.

Facciamo un esempio. Riga 3, progetto di Enel Green Power Italia S.r.l., 14 pale per una potenza complessiva di 84 MW. Dividi 84 per 14 e ottieni 6, ossia la potenza nominale di ogni singola pala.

Altro esempio. Renexia S.p.A. (riga 120): 190 pale per una potenza complessiva di 2793 MW (14,7 MW a pala), tra l’altro previsto nello stretto di Sicilia.

Per facilitare i calcoli, ci basti sapere che il grosso dei progetti proposti riguarda l’installazione di aerogeneratori di 6 MW.

E quanto sono grandi? Vediamo questi due schemi esemplificativi.

schema altezza aerogeneratore 6 MW
Aerogeneratore da 6 MW, alto 220 metri, cui va sommata l’altezza dell’elica, di 85 metri
schemino che identifica le dimensioni di un aerogeneratore di 14,7 MW
schemino che identifica le dimensioni di un aerogeneratore di 14,7 MW

Alla conquista di Puglia e Basilicata

Il dato allarmante è il totale dei progetti, che prevedono l’installazione di 2337 pale eoliche, come abbiamo visto di grandi dimensioni, per un totale di 13.692,6 MW, ossia quasi 14 GW, che corrispondono ad una dozzina di centrali nucleari.

Se pensiamo che la centrale nucleare più famosa della Francia, la Super-Phénix, è potente 1,2 GW, abbiamo un ordine di grandezza (però, lo vedremo tra poco, produce più e meglio di un parco eolico della stessa potenza. Oh, son dati reali, non sono a favore del nucleare!).

Se scorporiamo il dato di Puglia e Basilicata, ci rendiamo conto che saranno le regioni più colpite dal fenomeno di colonizzazione eolica: 1622 pale su 2337 e 8195,54 MW su 13.692,6.

La provincia più colpita sarà sicuramente quella di Foggia, dove prevedono di installare 1150 pale eoliche (di 5859 MW), che si sommano a quelle già esistenti, con una grande concentrazione nei Comuni di Cerignola (ben 240 pale) e San Severo (143), entrambi con poco più di 50.000 abitanti.

Senza contare il parco eolico off-shore (ossia dentro al mare), uno di sole 65 pale nello splendido Golfo di Manfredonia e un altro di 50 pale, al largo di Chieuti (FG), con vista sulle Isole Tremiti (che, però, va precisato, sono progetti del 2008, ancora fermi ma continuamente riproposti e per cui non si esclude che arriveranno le autorizzazioni).

La Basilicata, in proporzione alla sua estensione, è messa più o meno come la Puglia, se consideriamo che prevedono di realizzare ben 283 pale eoliche, più o meno tutte concentrate nella stessa zona.

focus dei progetti di impianti eolici in Puglia e Basilicata
focus dei progetti di impianti eolici in Molise, Campania, Puglia e Basilicata

Snocciolati questi dati, ora vediamo, uno ad uno, i motivi per cui i progetti di cui parliamo sono predatori, non solo sul piano ambientale, speculatori, inefficienti e dannosi.

Sovrapproduzione di energia elettrica

Le regioni interessate da questi progetti sono già abbondantemente in sovrapproduzione di energia elettrica. Specie da fonti rinnovabili.

Se osserviamo i dati forniti da Terna, relativi al 2019 (gli ultimi disponibili), possiamo scoprire produzione e consumo all’anno.

  • Puglia: produce 30.162 Gwh e consuma 16825,5 Gwh, con un surplus produttivo pari a 13336,5 Gwh;
  • Basilicata: produce 4043,9 Gwh e consuma 2805,7 Gwh con un surplus produttivo pari a 1238,2 Gwh;
  • Molise: produce 3535,3 Gwh e consuma 1306,7 Gwh, con un surplus produttivo pari a 2228,6 Gwh;
  • Campania: produce 3535,3 Gwh e consuma 16933,6 Gwh, con un fabbisogno residuo di 4400,6 Gwh;
  • Calabria: produce 19061,2 Gwh e consuma 5177,9 Gwh, con un surplus produttivo di 13883,3 Gwh;
  • Sicilia: produce 16950,7 Gwh e consuma 17282,9 Gwh, con un fabbisogno residuo di 332,2 Gwh;
  • Sardegna: produce 13630,6 Gwh e consuma 8472,4 Gwh con un surplus produttivo di 5158,2 Gwh.
  • Totale produzione: 90919 Gwh; totale consumi: 68804,7 Gwh.

In ottica efficientistica, l’energia prodotta in un territorio va consumata lì, al massimo ceduta alle regioni vicine, per evitare la dispersione.

Anche soddisfacendo, stando l’attuale produzione, i fabbisogni di Campania e Sicilia (regioni che consumano più di quello che producono), restano ben 22114,3 Gwh di surplus produttivo.

Tutta l’Italia centro-settentrionale produce 187609,9 Gwh e consuma 226670,3 Gwh, con un fabbisogno residuo di 39060,4 Gwh che, immaginiamo, preleva in parte dal surplus prodotto in alcune regioni meridionali e in parte dall’estero.

Insomma, che senso ha, per dirne una, installare 202 pale eoliche in Calabria (che produce troppo e consuma poco)? Quando la corrente, da lì, dovrà viaggiare per 700 km per arrivare a Roma, dove, magari, serve? In quel tragitto, quanto si disperde? E chi paga l’energia dispersa?

La dispersione

Qui arriviamo al secondo punto della questione. A cosa serve investire in territori che sono già in abbondante sovrapproduzione? L’energia che già oggi si produce nel Meridione, viene venduta fuori, a svariati km di distanza. Abbiamo visto che il Centro-Nord Italia ha bisogno di energia. Il Sud ne ha sin troppa.

Una visione razionale di questi problemi darebbe la soluzione più ovvia: investire in zone dove l’energia scarseggia, come ha più volte evidenziato ENEA (Agenzia Nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile – PDF).

Questo perché più è lungo il tragitto del trasporto dell’energia e maggiore è la dispersione. Come sappiamo, la resistenza nei fili metallici provoca calore e questo calore, se non ben isolato, si disperde. Nell’ambiente lo chiamano effetto Joule.

Secondo Terna, la dispersione energetica, in Italia, raggiunge circa il 6% e va detto che la rete nazionale italiana è tra le più efficienti al mondo (gli USA registrano dispersioni del 5%, nella Repubblica del Congo siamo al 50%, giusto per capirci).

Ad ogni modo stiamo parlando di migliaia di GWh che si perdono e che, va sottolineato, vengono pagati dai consumatori, in bolletta, alla voce trasporto dell’energia (dalle 3 alle 5 euro a bimestre, a seconda della potenza del contatore e dei consumi).

Dunque perché le società investono in zone dove già si è in surplus produttivo? E perché, pur consapevoli della dispersione, continuano a preferire le regioni meridionali? Eppure, come ha più volte sottolineato la Regione Puglia, nel Piano Energetico (perennemente in discussione e non ancora approvato), la rete di trasporto del sistema elettrico del Sud Italia è inefficiente, specificando che “il sistema termoelettrico pugliese presenta una minore efficienza (consumo specifico regionale pari a 2.295 kcal/KWh) rispetto al sistema termoelettrico nazionale (consumo specifico nazionale pari a 2.075 kcal/KWh)” (Bozza Piano energetico regionale, 2007).

Producibilità dell’eolico e Connessione alla rete nazionale

Ora veniamo al punto più interessante della disamina, che dimostra come sia inefficiente e, anzi, dannoso, continuare ad investire in zone circoscritte, già ad alta produzione energetica, senza una pianificazione regionale in sinergia con quella nazionale.

L’Agenzia nazionale ENEA, in uno studio del 2011 (ma ripreso più volte nei suoi concetti fondamentali), ha sottolineato che con la liberalizzazione della produzione di energia elettrica e l’incentivazione delle fonti rinnovabili, sono sorti e si sono collegati alla rete elettrica tantissimi auto-produttori. Ma il gran numero di impianti diffusi nel territorio, spesso alimentati da fonti aleatorie e non programmabili come l’eolico e il fotovoltaico, ha determinato una situazione critica delle reti di distribuzione, tradizionalmente basate sul trasporto unidirezionale dell’energia elettrica da poche grandi centrali al cliente finale.

ENEA ha evidenziato tre grosse criticità. Vediamole.

Saturazione virtuale della rete

Consiste nella prenotazione della capacità delle reti con richieste di connessione delle varie unità di produzione a cui non fa seguito la realizzazione dell’impianto.

Come specificato anche dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas (AEEG), la capacità di trasporto viene impegnata non da impianti realizzati o di certa realizzazione, ma da propositi di realizzazione la cui numerosità, tra l’altro, ne rende poco realistica l’effettiva realizzabilità.

In una nota del settembre 2011, l’AEEG indica come il fenomeno avrebbe raggiunto livelli preoccupanti in quanto “a fronte di quasi 250.000 preventivi di connessione alle reti di distribuzione e trasmissione accettati, corrispondenti a circa 196 GW di potenza, solo 42 GW sono relativi ad impianti già connessi. Dei restanti 154 GW, ben 140 GW (attribuiti a 22.000 preventivi) sono relativi ad impianti che non hanno ancora ottenuto l’autorizzazione alla realizzazione ed esercizio, ma che comunque continuano ad impegnare capacità sulle reti, generando il problema della saturazione virtuale”.

Le cause sono da ricercare sia nella mancata semplificazione e razionalizzazione dell’iter autorizzativo sia nella massimizzazione dei ricavi per alcuni speculatori, che hanno causato danni a carico soprattutto dei produttori/investitori “sani” in quanto questo ha costituito barriera all’ingresso nel settore.

Saturazione reale della rete

Consiste nella congestione della rete. In quanto satura non riesce a veicolare efficacemente la produzione elettrica immessa dalle sorgenti non programmabili (es. fotovoltaico, eolico). Ciò produce effetti sulla qualità del servizio e mancato sfruttamento del potenziale rinnovabile, ricorso a produzioni da fonte convenzionale con annesso aumento dei costi dell’intero “sistema” elettrico, che ricadono nella componente A3 del prezzo del kWh.

Le cause sono da individuare nella concentrazione e localizzazione dello sviluppo degli impianti di GD alimentati da fonti rinnovabili non programmabili, in particolare eolico e fotovoltaico, con presenza di picchi concentrati in poche ore della giornata in quelle aree zonali in cui la rete elettrica è più carente nelle ore di basso carico. I danni sono a carico di gestori di rete (danni alla qualità del servizio e penalità), produttori (mancata produzione e mancata vendita), consumatori.

Anche se è brutto ammetterlo, come specificato in quest’articolo del Post, è più efficiente una centrale nucleare rispetto alle fonti rinnovabili. Ciò perché la produzione è programmabile e modulabile, mentre nell’eolico o nel fotovoltaico, tutto dipende dalla presenza di sole e vento.

Sostiene il Post:

Mentre una centrale nucleare da 1 GW produce energia per l’80% del tempo, un parco eolico da 1 GW raggiunge a stento il 25%. Questo perché le turbine eoliche producono elettricità solo quando soffia il vento e non continuativamente come le centrali nucleare, a gas o a carbone. Nelle zone ventose, infatti, il vento soffia per 2000 ore l’anno, il 25% del tempo appunto, e solamente in quel lasso di tempo viene prodotta energia elettrica. Altrimenti detto, i 375 GW di potenza del nucleare producono molta più energia dei 381 GW delle rinnovabili. A occhio, dovrebbe essere almeno il doppio.

Ciò non significa che bisogna discutere se passare al nucleare per risolvere il problema dell’approvvigionamento dell’energia elettrica. Al contrario. Bisogna invece investire maggiormente nelle rinnovabili, ma distribuirne gli impianti in modo equo, razionale e, soprattutto, non invasivo. La proposta, in linea con quanto propone la stessa ENEA, la formulerò in fondo all’articolo.

Power quality

L’ulima criticità sollevata da ENEA è relativa, appunto, alla coerenza tra potenza immessa in rete e quantità di energia che arriva agli utenti.

Per sicurezza, specifica ENEA, si intende l’assenza di interruzioni dell’erogazione di elettricità, in cui il valore della tensione scende vicino allo zero, mentre per power quality si intende il grado con il quale le caratteristiche della potenza in rete si allineano all’ideale forma d’onda sinusoidale di tensione e corrente con valori di tensione e frequenza il più vicino possibili ai valori nominali.

Sicurezza e power quality vengono costantemente messe a rischio dalla “non programmabilità” delle fonti energetiche che, essendo allacciate alla rete in modalità “fit and forget”, non prevedono la possibilità di controllare e modificare, in riferimento ad un programma predefinito, la quantità di energia immessa in rete.

I problemi di connessione

Sulla base di quanto evidenziato da ENEA non si può ignorare un aspetto fondamentale che forse sfugge ad una prima occhiata ai progetti in questione. Ma forse dalla mappa allegata poc’anzi, si può intuire.

Molti di questi progetti sono ravvicinati geograficamente. Perché? Perché in genere si connettono tutti alla più vicina Stazione elettrica gestita da Terna. Ossia a quella che permette agli impianti di immettere l’energia nella rete nazionale.

Più il parco eolico è lontano dalla stazione e maggiori saranno i tracciati dei cavi e condotti (interrati) che collegano gli aerogeneratori tra loro e poi alla rete nazionale. Maggiore dunque sarà il costo, come anche le difficoltà burocratiche (tipo: se il tracciato passa da un’area archeologica o un parco nazionale, il progetto si blocca).

Ecco perché tutte le società proponenti si concentrano sulle medesime zone. Analizzano la vicinanza alla Stazione, l’assenza di vincoli, il valore medio delle terre, la composizione sociale, l’assenza di possibili elementi di disturbo, insieme ad altri fattori, e poi stilano un documento di costi/benefici. Se la Regione è incapace di tutelare adeguatamente le aree, queste società ne approfittano ed aprono una breccia.

Poi giustificano la scelta dell’area parlando di ventosità, assenza di rischi idrogeologici, mancanza di valore archeologico, sociale, culturale, persuadendo le istituzioni che dette zone sono ideali per la produzione. Sono invece ideali per ovvi motivi di vicinanza alle Stazioni elettriche.

Da qui emergono due criticità.

La prima

La pianificazione nazionale e regionale è urgente perché, prima di investire sugli impianti, va adeguata la rete. Ciò sulla base di una vision. Che poi, grossomodo, è quella delineata dai recenti piani europei, non ultimo il Green New Deal Europeo, che parla di sviluppo delle rinnovabili in ottica sostenibile, orizzontale, che prediliga i piccoli impianti, ma diffusi, insomma, le smart grids. Tra poco le vediamo.

La seconda

Senza pianificazione e lasciando che sia il liberismo a dettare le regole (come avviene oggi), si crea il caos e, nel lungo periodo, avverranno enormi problemi alla fornitura di energia elettrica. Ciò dipende dal fatto che grossi e numerosi impianti si connettono tutti alle medesime Stazioni, producendo l’effetto a collo di bottiglia, come più volte evidenziato dai piani energetici regionali e dall’ENEA.

Quest’effetto, facilmente intuibile, consiste nell’immissione di grossi quantitativi di energia nella medesima stazione, con picchi produttivi e periodi di stasi (quando le pale non girano!). E’ vero che gli accumulatori riducono questi problemi, tuttavia non li eliminano.

Sicché potrà accadere – se tutto rimane invariato e nelle mani degli interessi privati – che si verificherà discontinuità nella fornitura di energia, con relativi malfunzionamenti che incideranno sui già alti costi in bolletta. In particolare quelli relativi al trasporto, gestione del contatore e oneri di sistema.

Pianificando, invece, si eliminano questi problemi. Si investe sulla rete, si dettano le regole ai privati sui luoghi dove installare, si stabiliscono le altezze, il numero massimo di aerogeneratori, si incentiva lo sviluppo degli impianti in zone urbane, senza ulteriore consumo di suolo. Insomma, si realizza la transizione energetica in ottica efficientistica, ecosostenibile e condivisa con poteri e comunità locali.

Profili ambientali

Come abbiamo visto, non si tratta solo di qualche pala. Il Meridione sarà invaso da impianti eolici, come si evince facilmente dalle mappe appena viste. Queste, va di nuovo precisato, non riguardano l’esatta collocazione degli impianti, che sorgeranno (quasi) tutti in zone agricole, ma danno l’idea dell’estensione e della concentrazione. Analizzando lo schema excel, si capisce che diversi impianti sorgeranno negli stessi comuni, ampliando così le criticità ambientali.

Ma quali sono? Premetto che mi concentrerò poco su questo punto, in quanto preferisco evidenziare i caratteri speculativi di detti progetti e concludere con una proposta che valorizzi sì il potenziamento delle rinnovabili, ma in ottica inclusiva e razionale e non, com’è oggi, esclusiva e speculativa.

Il paesaggio

Intanto va ribadito che gli aerogeneratori sono tutti di altezze comprese tra i 180 e i 220 metri che diventano 300 (e oltre) se consideriamo l’altezza dei rotori, che si aggirano intorno agli 85 metri (metro più, metro meno). Il ché significa che, concentrati tutti nelle stesse zone, impatteranno profondamente sul paesaggio.

Se poche pale, inserite in un contesto agricolo, sono addirittura belle da vedere, è ben diverso l’impatto se queste diventano centinaia, migliaia.

Ciò produce una profonda mutazione del paesaggio, trasformandolo di colpo da agricolo ad industriale, senza che sia necessario alcun passaggio burocratico. Insomma, sono i privati, in questi casi, a decidere che fare del territorio. Gli Enti locali non hanno potere in materia.

Se poi passa la filosofia contenuta negli ultimi provvedimenti statali (recovery plan, decreti semplificazioni, ecc.), gli Enti locali conteranno ancora meno nella materia di governo del territorio (interessante questo monito della LIPU).

Il consumo di suolo

Una pala alta 300 metri necessita di plinti di fondazione, delle giuste proporzioni, che la regga. Indicativamente parliamo di scavi profondi circa 30 metri e diametri di almeno 5 metri, a pala. Senza contare le varie cabine strumentali che sorgeranno all’interno del parco.

Ora, è chiaro che parliamo di scarso consumo di suolo rispetto ad impianti di altro genere (fossile, biomasse, ecc.), ma è sempre una questione di numeri. Migliaia di pale eoliche, in un territorio circoscritto, ne cambia di fatto la destinazione d’uso e consuma enormi estensioni di suolo.

A ciò si aggiungono i tracciati, che dovranno connettere le pale tra loro e poi alla sottostazione e, infine, alla Stazione Terna. Questi lunghi tracciati (che variano da pochi a decine e decine di km) comportano scavi ed estirpazione della vegetazione, spontanea e antropizzata, che spesso rappresenta la base della biodiversità.

Cumulativamente, la sottrazione di suolo e la sua trasformazione necessaria per l’interramento dei cavi ne produrrà un inevitabile inutilizzo a fini agricoli. Producendo oltretutto impatti difficilmente prevedibili sull’ecosistema.

Le forme di speculazione

Come detto, mi sono soffermato davvero poco sugli impatti ambientali. Perché il vero problema dello sviluppo delle rinnovabili, lasciato totalmente in mano alle società, è di carattere economico e sociale.

La domanda, ripetutamente fatta in questo lungo articolo è: perché questi proponenti, consci di tutte le criticità emerse, continuano a proporre progetti in circoscritte zone del Meridione? Una parziale risposta ce la siamo data: tutto dipende dal grado di tutela territoriale posto in essere dalle Regioni (e al Sud sono storicamente disattente), dalla vicinanza alla Stazione Terna e, infine, dalla previsione di spendere pochi soldi per le compensazioni economiche (ottica colonialista).

Tuttavia ciò non spiega del tutto il motivo per cui vi è un così forte interesse per regioni che già sono in sovrapproduzione e perché si ignora completamente il problema della dispersione nonché i possibili problemi che possono derivare dal sovraffollamento delle stazioni e reti Terna.

Per comprendere appieno queste discrasie occorre soffermarci (ma giusto un attimo) sull’analisi della natura delle società anonime, che operano col modo di produzione capitalistico. Va precisato che queste considerazioni (come del resto tutto l’articolo) non si riferiscono a tutte le società proponenti, ma tendono ad evidenziare un modello, diffuso, sì, ma non per questo assoluto.

Difatti, come ha precisato ENEA, nel liberismo economico gli speculatori danneggiano le aziende oneste che, invece, investono per il motivo per cui nascono: produrre e vendere energia pulita.

La natura delle società di capitali

Come opportunamente spiegava Marx, al capitalista non interessa investire in cotone, ferro, energia o mais. La società di capitali tende ad ottenere profitti, indipendentemente dall’area in cui opera.

Ora, questa (in apparenza) banale considerazione nasconde in sé una dinamica spesso non chiara: ottenere profitto non vuol dire necessariamente produrre e vendere. A differenza di quanto accade nelle aziende sane, ossia quelle che operano con la finalità per cui sono nate, le aziende capitalistiche puntano solo ad un’oggettiva generazione di profitti.

Facciamo un esempio

Una società di capitali che produce panini, se, dopo un’analisi dei costi/benefici, si accorge che è più remunerativo comprare e vendere gli immobili in cui si trovano le sue paninoteche, si concentrerà su quest’affare, trascurando la produzione dei panini. Questa, magari, ne risentirà in qualità e i consumatori si lamenteranno. Ma al capitalista non importa, perché fino a quando l’attività immobiliare rende più della produzione dei panini, pur se formalmente resta quella la sua attività principale, tenderà ad interessarsi all’altra.

Altro esempio. Se una società che s’è sempre occupata della consegna della posta, ad un certo punto trova più redditizio occuparsi di prodotti finanziari, trascurerà il servizio di consegna posta. Anche se i cittadini si lamenteranno del disservizio, non le importa, perché non è più quello il suo ambito principale. Pur se, ribadisco, formalmente lo è.

Dunque se un’azienda investe in un parco eolico, non è detto che il suo obiettivo principale sia quello di produrre e vendere energia. Tutto dipende dall’esito del calcolo costi/benefici e dagli elementi dell’equazione: finanziamenti pubblici; vendita di certificati verdi all’asta GSE; compravendita delle sottostazioni; speculazioni sui progetti; ecc. ecc.

Ecco che è indifferente investire in Puglia (che produce tanto) o in Lombardia (che produce meno). Quello che importa è investire dove, nel complesso, costa meno.

I costi in bolletta

A pagare le conseguenze di queste politiche speculative sono le persone, quelle che, in ottica oggettivizzante, vengono definiti consumatori o utenti. Ma usiamo questi termini, per capirci.

Al capitalista, dunque, non interessa che l’energia si disperda, fosse del 6% o anche più. Quel costo di dispersione gli viene comunque rimborsato dall’utente finale, il quale se lo ritrova in bolletta, tra le svariate voci relative agli oneri di sistema e al trasporto dell’energia e gestione del contatore. Questo è imposto dal GSE (Gestore dei Servizi Energetici) sulla base delle normative che si possono trovare citate in bolletta, nel dettaglio dei costi. Dateci un’occhiata.

Quindi la partita della transizione energetica, nell’attuale quadro neo-liberista, è a tutto vantaggio del capitalista e a svantaggio dei consumatori (specie quelli delle fasce più fragili), perché il capitalista opera senza alcun rischio: grazie alle attuali politiche europee e nazionali in materia di transizione energetica, che finanziano fortemente le fonti di energia rinnovabile, accede ai finanziamenti e le costruisce interamente con i soldi pubblici. Poi, almeno in questa fase storica, può vantare una forza contrattuale con le aziende che emettono CO2, vendendo loro, all’asta, quelle che una volta si chiamavano quote verdi (qui si possono vedere i prezzi della CO2). Infine, quando ottiene le autorizzazioni ministeriali e degli Enti pubblici coinvolti dal processo autorizzativo, specula sui progetti, rivendendoli anche a 3, 4, 5 volte tanto.

Di forme per speculare su questi progetti ne ha tantissime. Il punto è che la produzione di energia è l’ultima delle sue preoccupazioni.

La proposta

Un’Agenzia seria come l’ENEA ha più volte ribadito che uno dei modi per poter ovviare a tutti questi problemi e produrre energia pulita a costi ridotti e con la massima efficienza, sono le micro-reti. Ossia parchi eolici o fotovoltaici di piccole dimensioni, diffusi e concentrati nelle aree di consumo. Nel gergo si chiamano Smart Grids e consentono una gestione più efficace e puntuale delle risorse connesse alla rete, permettendo l’aumento della quantità di generazione distribuita connessa alla rete senza compromettere la qualità della fornitura.

Tuttavia ciò non è sufficiente. Perché se è vero che la tecnologia ci aiuta ad affrontare i bisogni con la massima efficienza, è anche vero che occorre una filosofia di fondo per ottenere anche la massima equità e il rispetto dell’ambiente.

Dunque sì, puntiamo sulle smart grids e chiediamo a gran voce di fermare lo scempio dell’eolico e del fotovoltaico con l’ottica neo-liberista. Ma non basta.

La comunità locale come centro dello sviluppo

Occorre che siano le comunità locali ad acquisire direttamente, magari tramite forme di cooperazione con aziende del territorio, Enti locali, associazioni, ecc., la proprietà degli impianti. In questo modo diventano parti attive del processo di produzione e consumo.

Possono accedere (come del resto le Società anonime) a finanziamenti europei e nazionali e ottenere micro-reti gratuitamente. Possono produrre l’energia di cui necessitano e consumarla sul territorio. Grazie ad un’attenta pianificazione regionale e nazionale e grazie ad accordi tra Enti locali, Governo e GSE, possono dire addio per davvero ai costi in bolletta, pagando la sola quota energia (che, va sottolineato, in bolletta è la voce più economica).

Adottando un paradigma del genere, tutti i problemi ambientali legati allo sviluppo dell’energia pulita vengono meno. Sono le comunità locali a decidere dove collocare gli impianti, quali sono le altezze massime, l’estensione, decidere se vogliono o meno consumare suolo, oppure installare le reti in zone industriali, nelle periferie urbane o sui tetti dei condomini, creando connessioni con altri palazzi, nell’ottica delle reti smart.

Sono le comunità a demandare il compito agli ingegneri per predisporre i progetti, gestire gli appalti e gli impianti, usando manodopera locale. Così l’energia prodotta resta sul territorio, la gente si responsabilizza e si creano (per davvero) nuove opportunità di lavoro. Oltre al fatto che si risparmia pure. Tutti. E ci si può anche permettere di sviluppare forme di mutualismo, dato che gli Enti locali possono acquistare quote d’energia per le famiglie meno abbienti. E anche le famiglie più ricche possono comprare quote maggiori e redistribuirle a chi è in difficoltà. Quando si risparmia tutti, si aprono forme di circoli virtuosi.

Per concludere

Sono quasi del tutto persuaso che la proposta di sviluppo della produzione di energia pulita collettiva, orizzontale, diffusa, autonoma ed efficiente raccoglierà l’interesse di molte persone. Del resto l’idea è vecchia ed è stata fatta propria da numerosi Enti ed Istituzioni e poi rappresenta l’architrave del Green New Deal Europeo. Almeno sulla carta.

Tuttavia, per realizzarla occorre essere realmente consapevoli di quali sono gli effetti sull’ambiente, sulle comunità e sui costi dell’energia se si lascia il campo al liberismo economico. Del resto i progetti oggi analizzati non sono che l’inizio. Con l’aumentare dei finanziamenti pubblici e con l’appropinquarsi del 2030, aumenteranno le domande. E i criteri con cui le Società anonime sceglieranno i territori già li conosciamo. Se aumenteranno o meno le autorizzazioni amministrative, dipenderà da noi.

Occorre pianificare e orientare le scelte delle Società. Non di certo responsabilizzarle, perché la responsabilità sociale, nelle aziende che operano col modo di produzione capitalistico è una foglia di fico che agisce solo sul piano dell’illusione. No. Occorre mettere dei paletti e, nella pianificazione, preferire le comunità locali a Società che nulla hanno a che fare con i territori in cui vogliono investire.

Dunque occorre essere consapevoli e spingere, individualmente e collettivamente, i pubblici poteri ad assumersi le proprie responsabilità: discutere, pianificare e operare.

Solo in questo modo si possono gettare le basi per uno sviluppo coerente, efficiente e, soprattutto, a beneficio di tutti. E tutto ciò va fatto ora. Il 2030 è dietro l’angolo e gli speculatori sono ai nastri di partenza. E noi?

La foto in copertina è tratta da quest’articolo, che incoraggio a leggere.

1 commento su “Il vento tra le colonie. Quando l’eolico invade il Meridione”

  1. Perché non si crea un movimento a difesa del territorio meridionale? Possibile che dobbiamo assistere impassibili a questo saccheggio imposto come green, solo al Sud è ovvio, da media padani che continuano a prendere in giro il nostro popolo come negli anni 60 col petrolchimico? Sarebbe ora di prenderci il nostro futuro.

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