Gli incendi in Salento, che da maggio ad oggi (e sicuramente per tutta l’estate) sono un fatto quotidiano, esteso, diffuso, hanno un ché di scientifico o fanno parte della narrazione del gesto incivile di chi getta il mozzicone di sigaretta, oppure del piromane solitario, mezzo matto? Un’analisi, work in progress, che si pone qualche dubbio e avanza qualche ipotesi.
Partiamo subito da una premessa, onde sgomberare il campo da un equivoco che si può ingenerare facilmente nell’associare gli incendi estivi alle narrazioni tossiche. Gli incendi in Puglia e – per ciò che riguarda la nostra analisi – nel Salento, ci sono sempre stati. La differenza con quelli odierni sta nella frequenza e nell’apparente scientificità dei roghi.
Chiariamo i concetti.
Gli incendi ci sono sempre stati
Quando dico sempre, intendo dire pressappoco gli ultimi quarant’anni. Che per me equivalgono al sempre, ossia a quel concetto che si riassume nella locuzione a memoria d’uomo. Insomma, da quando ero bimbo ricordo che, arrivata l’estate, arrivavano gli incendi.
Il ché, dunque, non equivale al sempre sempre, cioè al sempre inserito in una storia più ampia. L’aumento considerevole degli incendi è concomitante al progressivo abbandono delle campagne, dovuto a diversissimi fattori. Ne ricordiamo giusto qualcuno.
- morte dei vecchi proprietari e frammentazione fondiaria dovuta all’istituto della successione ereditaria;
- abbandono dei nuovi proprietari che non erano interessati a portare avanti le campagne (per altro lavoro, disinteresse, ecc.);
- disincentivazione della produzione agricola orizzontale da parte del modello economico prevalente, poi divenuta politica europea istituzionalizzata (dal ricatto dei prezzi della GDO fino ad arrivare alle politiche di disincentivazione delle produzioni locali a vantaggio di produzioni standardizzate);
- impossibilità, da parte dei conduttori dei fondi agricoli, di accedere a mezzi di produzione e risorse. Per capirci, un piccolo proprietario comunque intenzionato a non abbandonare il fondo ereditato, non sempre riesce ad acquistare i mezzi di produzione, quali trattori, fresatrici, decespugliatori, biotrituratori, ecc. Per non parlare del fatto che l’assenza di pozzi d’acqua, nella grande maggioranza dei fondi agricoli, rende impossibile – o quantomeno estremamente difficoltoso – arricchire il fondo con nuove coltivazioni;
- Corollario a quanto appena detto, è l’assenza – per incapacità culturali nonché per svariati fattori politico-economici – di fare rete, cooperazione, mutualismo tra proprietari di fondi attigui e/o vicini, in modo da ovviare al problema della scarsità di mezzi e risorse;
- Cambiamenti climatici. Il clima mediterraneo ormai ha lasciato il posto a climi altalenanti, fatti di lunghe stagioni di siccità e piogge improvvise, violente, non legate alla stagionalità. Ciò provoca danni diretti e indiretti alle colture tipiche, il proliferare di nuovi patogeni vegetali e, come detto poc’anzi, la necessità di aumentare i costi (trattamenti fitosanitari, irrigazioni, ecc.) che disincentivano la piccola produzione;
- Non ultimo (e in parte legato ai mutamenti climatici), il problema dei disseccamenti degli ulivi, nel Salento, che ha accentuato ancora di più il fenomeno di abbandono delle terre e che – tra poco lo vedremo meglio – ha generato le narrazioni tossiche e influenzato l’odierno fenomeno dei roghi scientifici.
La frequenza degli incendi
Insomma, sono ormai anni che puntualmente, ogni estate, il Salento brucia. Ma di che dati parliamo? Se ci prendiamo la briga di analizzare i dati statistici che, ogni anno, i Vigili del Fuoco pubblicano sul proprio sito istituzionale, abbiamo contezza del numero. E possiamo muovere qualche ipotesi.
Ho preso, dunque, dal sito istituzionale, alcuni dati, quelli disponibili. Parliamo di dati che vanno dal 2000 al 2019.
Mi sono limitato ad evidenziare il solo dato della Provincia di Lecce. Proseguendo nella lettura si capirà meglio il perché. Inoltre va evidenziato che nelle annuali relazioni dei Vigili del Fuoco, sino al 2015 venivano evidenziati solo i dati relativi agli incendi (generici), mentre dal 2015, agli incendi sono state aggiunte le esplosioni, dunque il dato può apparire falsato dal 2015 in poi.
Numero di interventi nella provincia di Lecce per incendi generici
2000: 4.762
2001: 10.587
2002: 4.167
2003: 4.985
2004: 4.749
2005: 5.202
2006: 5.892
2007: 6.178
2008: 7.217
2009: 6.289
2010: 5.557
2011: file inesistente
2012: 6.894
2013: 7.574
2014: 6.012
2015: 6.821 (da quest’anno agli incendi aggiungono le esplosioni)
2016: 7.429
2017: 8.660
2018: 5.210 (Quest’anno i VVFF segnalano che, rispetto all’anno precedente, l’aumento percentuale di interventi per alberi pericolanti è stato del 175,4%, collocando la provincia di Lecce al terzo posto, dopo Belluno e Catania).
2019: 6.031
Non abbiamo ancora disponibili i dati del 2020 e, chiaramente, quelli del 2021. Ma possiamo tirare a indovinare. Secondo i dati forniti da Coldiretti e ripresi dalla testata locale LeccePrima, solo a maggio 2021 le chiamate ai Vigili del Fuoco, per soli incendi nelle campagne, sono state 400.
Qualcuno più attento avrà notato l’anomalo dato relativo al 2001: 10.587 interventi quando, in media, dal 2000 al 2019, gli interventi sono stati 6.085.
Una chiave di lettura
L’anno precedente, era il 2000, fu emanata la legge quadro in materia di incendi boschivi (che, lungi dal nome, riguardava anche incendi in aree colte o incolte, pascoli, fondi agricoli, ecc.), la L. n. 353/2000, che in pratica poneva un vincolo di inedificabilità assoluta per almeno 15 anni. Ossia era impossibile, in un’area agricola o boschiva incendiata, edificare o darle altre destinazioni d’uso.
La legge dava alle Regioni un anno di tempo per adattare le proprie legislazioni particolari ovvero per adottarne di nuove. E così, chi voleva edificare – nelle more – doveva sbrigarsi ad incendiare tutto, altrimenti per i prossimi 15 anni sarebbe rimasto a becco asciutto.
Questa breve considerazione da un lato spiega l’anomalo dato del 2001 e, dall’altro, lascia aperto un dubbio: non vuoi che buona parte degli incendi sia dovuta a cause economiche, ovvero di opportunità, anziché al mero fato o alla narrazione del piromane solitario?
Il mozzicone di sigaretta…
Chiaramente, il fenomeno dell’abbandono delle campagne ha ampliato di molto i rischi di incendi. Se non si taglia l’erba, in primavera, è ovvio che d’estate diventa alta e secca. Al ché è sufficiente un accendino, un panno imbevuto di benzina e il gioco è fatto. Ettari di terreno vanno in fumo, in pochissimo tempo. Complice pure il vento che, nel Salento, soffia in abbondanza, tutto l’anno e a tutte le latitudini.
Ma l’abbandono segnala solo il rischio. Il punto è capire le cause.
La narrazione comune, quella dominante (dove, per dominante, intendo quella egemone, che poi diviene quella più diffusa, accettata e fatta propria dal sentire comune), alimentata per decenni dai media, con le pubblicità progresso e i talk show estivi, intrisi di luoghi comuni, attribuisce un grosso peso alle cause involontarie. Gettare un mozzicone di sigaretta o un fiammifero nella Natura, d’estate, può provocare grossi incendi.
Questa considerazione trova un fondamento nei dati, di cui parlavo prima, predisposti dai Vigili del Fuoco, secondo cui – in media – un incendio su quattro è causato da fiammiferi o mozziconi di sigaretta. Tuttavia i dati vengono letti male, oppure parzialmente. Se analizziamo i report annuali, ci rendiamo subito conto che il grosso delle cause è riconducibile alla voce altre cause. Non è mai facile, nell’immediatezza del fatto o subito dopo aver domato l’incendio, risalire alle cause certe. Quando vi sono prove tangibili sulle cause di un incendio, questo viene ricondotto alla specifica causa. Ma non sempre è possibile.
La casistica delle cause
Le cause elencate nei report dei VVFF sono: autocombustione, camino, cause elettriche in genere, detonazioni e/o deflagrazioni, faville, fulmine, fuochi d’artificio, guasti ad impianti di produzione di calore in genere, mozzicone di sigaretta e fiammiferi, reazioni chimiche tra elementi, ritorno di fiamma, surriscaldamento di motori e macchine varie, altre cause.
Dunque, in aperta campagna, se si escludono tutte le cause specifiche, non ci sono stati temporali con fulmini, né nei paraggi si trovano altre fonti di calore, in automatico la causa viene ricondotta alle voci altre cause ovvero mozzicone di sigaretta e fiammiferi.
Mozzicone e fiammiferi è una voce ampia, che ricomprende anche il mozzicone. E comunque non esclude minimamente l’intenzionalità dell’atto, se doloso o colposo.
Non sempre i VVFF si possono permettere il lusso di catalogare l’incendio nella voce altre cause, il ché richiederebbe – alla lunga – indagini interne volte a capire perché quegli agenti o quei comandanti non sono in grado di risalire alle cause. E allora, se nelle vicinanze viene trovato un mozzicone di sigaretta (anche vecchio e bruciacchiato, non importa), è facile cadere nella tentazione di ricondurre l’incendio alla voce specifica.
Ma questa non è un’analisi sull’operato dei VVFF. Anzi, a loro va tutto il nostro plauso (per quanto possa servire) e la nostra gratitudine. Qui il punto è capire che quella del gesto involontario di gettare il mozzicone di sigaretta in aperta campagna, che poi provoca l’incendio, è sì possibile, ma è un fenomeno marginale, che non spiega l’eziologia del fenomeno.
Ricordate sempre l’anomalo dato del 2001. Quello è un indizio che, invece, spiega come alla base di numerosi incendi ci siano altre cause. E che tra queste molte vanno ricondotte nell’alveo del dolo.
…e il piromane solitario
Restando in tema di dolo, un’altra narrazione è quella per cui molti incendi boschivi siano causati dal piromane solitario. Questa è la tesi preferita di diversissimi contadini con cui ho avuto modo di confrontarmi nell’ultimo periodo, prima di abbozzare quest’articolo, ma che si ritrova benissimo nella cronaca nazionale. Basta farsi un giro sui motori di ricerca e si trovano numerosissime notizie che parlano del pazzo che si diverte ad incendiare le campagne.
Quella del piromane solitario è sì una narrazione tossica, ma che si avvicina un po’ di più a quella che potrebbe essere la realtà. Difatti spiega che i roghi (probabilmente un numero consistente di roghi) sono di origine dolosa. Ma non spiega le motivazioni che sono all’origine del dolo.
Detto in altri termini, se gli incendi sono dolosi, a che pro un piromane solitario si prende la briga di andarsene in giro per le campagne, mettendosi a rischio, sprecando tempo, energie, soldi, per mettere fuoco nei fondi altrui?
Uno dei contadini con cui parlavo tempo fa, esponeva una tesi per cui il piromane solitario ama bruciare le sterpaglie perché gli dà fastidio vedere l’erba alta e secca. Quindi gli piace vedere le campagne pulite.
Teoria originale, ma poco credibile. La diffusione geografica (i roghi boschivi coinvolgono tutta la pianura salentina, in ogni singolo paese) e la scientificità (punto che tratterò tra poco) negano che si possa trattare del piromane solitario, mosca bianca, mezzo suonato, pieno di patologie psichiche, sociopatico e mitomane. Qui siamo davanti ad un fenomeno diffuso, strutturato, quotidiano e che, spesso, coinvolge solo certe tipologie di piante. In particolare gli Ulivi.
Un cenno sui roghi degli Ulivi
Giorni fa mi trovavo nei pressi di Tuglie, di sera tardi, e notai, quasi all’ingresso del paese, un esteso campo di Ulivi in fiamme. Non stava bruciando la sterpaglia intorno, bruciavano – singolarmente – solo gli Ulivi, colpiti dai disseccamenti. Questo stesso scenario, tempo addietro, l’avevo visto nei pressi di Ruffano e poi di Matino. Ma notizie di Ulivi incendiati provengono da più parti del territorio, in particolare da fine 2019 ad oggi, con punte estreme da maggio 2021.
La scientificità dei roghi
E veniamo ora all’ultimo punto della spiegazione della differenza tra gli incendi di una volta e quelli di oggi. La scientificità.
Si definisce scientifica una prassi o un’azione che impiega i mezzi tecnici delle varie scienze, o comunque un metodo fondato su principi teorici, ovvero che segue criteri rigorosi ed esatti.
La differenza tra i vecchi roghi rurali e quelli di oggi sta tutta qui. Stando alle fonti giornalistiche (e, per quanto mi riguarda, all’analisi diretta), si nota subito, oggi, nel Salento, quest’andazzo: appicciare roghi seguendo un metodo, palmo palmo, prediligendo gli uliveti. Non si tratta di un metodo predisposto da un singolo piromane solitario, ma corale, apparentemente coordinato, anche se mancasse del tutto un coordinamento unitario.
Si nota subito, percorrendo in lungo e in largo il Salento, nel vedere enormi distese di uliveti completamente bruciati, in un attacco che è iniziato sin dai primi caldi (ad inizi maggio) e si protrae tutt’ora. L’ultimo, in ordine di tempo, è di ieri. Ma in rete vi è una vasta letteratura sul tema (un esempio qui e qui).
L’estensione (da Brindisi a Leuca, quasi senza soluzione di continuità), la frequenza (tutti i giorni, indistintamente), il metodo scientifico (colpire principalmente gli Ulivi, le campagne abbandonate, dove l’erba secca è alta), escludono – almeno razionalmente – che si possa trattare del mozzicone di sigaretta distrattamente gettato dal finestrino o del piromane solitario, che si diverte ad incendiare per vedere pulito.
Non sto dicendo che si tratti di un folle piano criminale per distruggere i sofferenti Ulivi, ma nemmeno che manchi del tutto l’intenzionalità di arrivare al risultato di toglierseli davanti con metodi sbrigativi e brutali.
La comunicazione che dice e non dice
La comunicazione, di solito, è l’ultimo tassello di un processo fatto di decisioni, politiche, strategie, tattiche volte a perseguire un certo obiettivo. E’ noto che, soprattutto a seguito del Decreto Centinaio (Lega) e del Piano di rigenerazione olivicola del Salento (predisposto da Lega, PD e M5S, senza soluzione di continuità), è in atto in Puglia un processo di grande trasformazione dell’agricoltura, passando da una di tipo estensivo, frammentato ed orizzontale, ad una di tipo intensivo, accentrato ed industriale. Ne ho parlato più diffusamente qui, qui e, in riferimento alle origini della questione Xylella, qui.
Tuttavia il piano si è inceppato nei meandri della burocrazia. Molte aziende agricole continuano alacremente ad abbattere gli Ulivi secolari e ad impiantare ulivi di dubbia qualità, in modo intensivo, ma i soldi tardano ad arrivare. I bandi sono bloccati, la Regione latita. Le associazioni di categoria urlano a gran voce che occorre ripartire dai reimpianti (blindati, però: se vuoi reimpiantare una varietà di Ulivo, devi farlo per quelle che dicono loro, anche se tollerante non significa immune e anche se altre varietà appaiono tolleranti allo stesso modo, ma non fanno parte delle varietà ammesse. Per approfondire, leggi qui), altrimenti si blocca tutto.
Che succede, allora, se tutto resta fermo? Di solito ci si incazza, si lancia un segnale, si sprona la politica ad agire. E a volte scappa la mano, si esagera, si va oltre a quanto voluto.
Dunque se un signor X che aspetta di ricevere il contributo per espiantare e reimpiantare, non riceve nulla, ci sta che – preso dall’incazzatura – appiccia fuoco agli ulivi. Ci sta. Ma basterebbe? Occorre dare un segnale più forte, più esteso, che richiami l’attenzione dei media e metta il pepe al culo ai burocrati e politici regionali.
Il post di Donato Boscia
E’ con questa chiave di lettura che ho analizzato il post di Donato Boscia, responsabile dell’Istituto della protezione sostenibile delle piante del Cnr di Bari, uno dei massimi esponenti che hanno gestito la questione Xylella in Puglia. Uno di quelli che – va precisato – ha contribuito a blindare la ricerca scientifica sull’eziologia, la patogenicità e le soluzioni al problema del batterio di Xylella Fastidiosa, accentrandola nei laboratori e uffici del CNR barese.
Boscia scrive, nel maggio scorso, un post su Facebook. Vi invito a leggerlo con attenzione.
Ora, lungi dal dire che Boscia invita la gente ad accendere roghi, va però detto che la comunicazione non è fatta di determinismi, come precisò Engels quando i detrattori di Marx criticavano la sua analisi di politica economica, ma di influenze. Se dici che non puoi chiamare assassini e mafiosi chi appicca roghi, li stai di fatto legittimando. Qualora questa gente rientri in dinamiche socio-economiche ben precise (fautori dell’industrializzazione agricola, parassiti che campano di PAC e contributi vari, sfruttatori e caporali di cui il Salento è pieno, ecc.), non ci vuole nulla affinché accolgano queste parole come una chiamata alle armi.
Se in giro si respira aria di esasperazione, perché i soldi non arrivano, non tutti hanno le risorse per anticipare i soldi per comprare le piantine, abbattere gli Ulivi secolari, stoccarne la legna, lavorare il terreno, trovare l’acqua per irrigare (e ce ne vogliono tonnellate), pagare gli operai… e beh, è ovvio che si arriva alle soluzioni più rapide di macelleria ambientale. Non ci vuole chissà quale genialità per comprenderlo.
Come non ci vuole molto per capire che fenomeni del genere si allargano per imitazione e coinvolgono anche i piromani solitari, che – in questo quadro – trovano linfa per agire.
Le influenze sono così, non ti dicono fai!, ma creano le condizioni, lasciano che sia la gente che, spontaneamente, imbocchi una certa direzione.
Parafrasando, è un po’ come vedere che il tuo attore preferito sorseggia una coca-cola, una, due, tre volte. Una volta in un talk show, poi mentre viene ripreso, per caso, in un fast food, poi mentre è allo stadio a seguire la partita. Ad un certo punto ti verrà voglia di bere coca-cola, per imitazione, per la stima che nutri nei suoi confronti, per sentirti più simile a lui. Ecco, la coca-cola ti ha influenzato. Non ti ha detto, direttamente, comprami!, ma di fatto ha raggiunto il suo scopo.
Ora, non ho idea di quali siano i reali scopi di Boscia, né mi interessano. Mi interessa, però, mettere in rilievo la dinamica e comprendere che – volontariamente o meno, anche questo poco importa – parole del genere possono provocare episodi reali di devastazione dell’ambiente, cosa che, ogni giorno, viviamo sulla nostra pelle.
E questo post è solo la punta dell’iceberg e rappresenta un’esternazione social di una visione che, vista la provenienza, ci appare radicata nella policy di certa classe dirigente. E chissà se, nel chiuso delle associazioni di categoria, emanazione diretta e indiretta di questa classe dirigente, non si ragioni allo stesso modo. Con la differenza, rispetto al singolo post su Facebook, che dette associazioni di categoria contano numerosi iscritti e, potenzialmente, un effetto virale esteso e ramificato. E, non ultimo, un’organizzazione in nuce. Chissà, staremo a vedere.