Una riflessione, a ruota libera, sul 2023 che ci sta lasciando, tra guerre, cambiamenti climatici e il ruolo sempre meno dibattuto del liberismo economico.

Cari quattro lettori, sono sette mesi che non aggiorno questo blog e la cosa mi è dispiaciuta parecchio. Ci sarebbe così tanto da dire in questo periodo di sconvolgimenti climatici e sociali. Tuttavia, parafrasando il buon Mino de Santis, quiddhri comu a nui (…) putivane dire tantu e perciò se stanne quieti.

Mi sento più o meno in questa situazione.

Vorrei dire tanto e perciò resto muto.

Mi sento un po’ annichilito di fronte ad una realtà così difficile da interpretare, nel chiacchiericcio scomposto e irrequieto tipico dei tempi della sovrapproduzione di opinioni, oltre che di merci. Una realtà che abbisogna di riflessioni, di franche e oneste discussioni collettive. Invece siamo davanti al proliferare di narrazioni tossiche, di nuclei di verità (citando Wu-Ming) circondati da strati di detriti prodotti da alluvioni di false informazioni, opinioni generate a monte di un sistema produttivo che si autodifende e che, a valle, ostruisce gli alvei generando erosioni delle coscienze e interpretazioni distorte che rendono impossibile arrivare al nucleo per giungere alla comprensione della realtà.

Ed eccomi qua, che mi concedo il lusso di perdere tempo a buttare giù due riflessioni disorganiche e a ruota libera, per festeggiare il 2023 che va via e un nuovo, diverso e uguale, anno alle porte.

Le questioni globali

free palestine 2023

In realtà ci sarebbe ben poco da festeggiare, visto che il 2023 si conclude con una guerra in Ucraina impantanata e senza una reale via d’uscita e un genocidio in corso in Palestina, dove un esercito, guidato da un criminale di guerra, sta letteralmente compiendo un’operazione di pulizia etnica spacciandola per un’operazione militare volta a sconfiggere il terrorismo.

Ma andiamo con ordine.

In Ucraina

In Ucraina assistiamo ad un conflitto irrisolvibile, lungo, deleterio per entrambi le parti in guerra, senza una via d’uscita, solo per accontentare le mire espansionistiche di un paese, gli USA, in declino e che conoscono come unico modo di relazionarsi sul piano dei rapporti internazionali quello dell’espansione del controllo della NATO. Ma se fino a qualche decennio fa potevano farlo liberamente, senza trovare ostacoli, ora incontrano l’ostacolo di un paese, la Russia, in forte ripresa economica e protagonista di un diverso assetto delle relazioni internazionali.

Lungi dal voler giustificare il regime dispotico e imperialista di Putin, a sto giro è la Russia il paese aggredito e l’Ucraina rappresenta il campo di battaglia di un conflitto di portata globale. Gli USA e la Gran Bretagna hanno giocato sporco per anni in Ucraina, influenzandone le scelte politiche, buttando giù un presidente legittimamente eletto (ma scomodo perché su posizioni filorusse) e instillando lentamente e progressivamente frange estreme militarizzate che hanno martoriato per anni le popolazioni russofone. Fino ad arrivare all’apice, con il governo fantoccio di Zelensky e il tentativo di accerchiare la Russia con le basi NATO e gli accordi di partenariato con l’UE, per giungere pure all’ingresso dell’Ucraina nel fantoccio dell’Europa unita.

Una guerra che si poteva tranquillamente evitare e i cui campanelli d’allarme sono iniziati sin dal 2004, con la rivoluzione arancione, per poi proseguire fino al 2014, con la caduta di Janukovyč e gli scontri di piazza a Kiev (ma di questo ne ho parlato diffusamente in altri articoli).

La guerra in Ucraina, quindi, è lo scenario più piccolo di uno scenario molto più grande di conflitti (più o meno) latenti tra Occidente e Oriente, tra paesi ricchi e paesi che hanno subito, per secoli, l’opulenza dei primi, spartendosi solo le briciole.

Come sostiene Fabris nel suo (non troppo) vecchio La società post crescita (Egea, 2010),

che all’80% della popolazione mondiale sia riservato poco più del 20% delle risorse, appannaggio invece dei paesi industriali avanzati o postindustriali, e che il Sud del mondo cominci a rivendicare condizioni di vita migliori, sino a ora ha preoccupato un poco, ma non più di tanto. Una rimozione collettiva portava a erigere una sorta di cortina di silenzio verso tutto ciò che, ogni giorno, pure dovrebbe ricordare le disastrose condizioni di vita di gran parte del mondo. (…)

Latouche ci ricorda che: “le tre persone più ricche del mondo dispongono di una fortuna superiore al Pil totale dei 48 paesi più poveri! Il patrimonio delle 15 persone più ricche del mondo è superiore al Pil di tutta l’Africa sub sahariana. [quello] delle 32 persone più ricche è superiore al Pil dell’Asia del Sud. Il patrimonio delle 32 persone più ricche supera il Pil della Cina (…). Secondo il rapporto del 2001 il quinto più ricco della popolazione mondiale detiene l’86% del Pil mondiale contro l’1% del quinto più povero (…)”.

Come insegna il buon Hegel, nella sua nota dialettica servo-padrone, e come ha giustamente osservato l’ambasciatore Marco Carnelos in quest’intervista,

In questo biennio forti tensioni latenti, inerenti delicati equilibri internazionali e largamente ignorate della cosiddetta “comunità internazionale”, ovvero le democrazie occidentali che si identificano nell’ordine mondiale basato sulle regole (le loro!), sono deflagrate in modo drammatico. Ne deriva che la conflittualità geopolitica lascia un’eredità caratterizzata da forte incertezza globale, con solidi punti di riferimento cui eravamo abituati da decenni che sono già saltati o stanno saltando. Potenzialmente si tratta di mutamento della geopolitica del pianeta che non si vedeva da due secoli, se non addirittura da cinque. In una semplice espressione il Global Rest (qualcuno lo chiama Global South) che si sta affrancando dal Global West; e sia chiaro: affrancarsi non necessariamente è un atto ostile. Solo coloro che sono in grado di governare unicamente con la paura, e che sono vittime di una percezione binaria e manichea della realtà, ovvero obnubilati dal principio “o con me o contro di me”, possono declinare questo affrancamento come pericoloso, senza rendersi contro che stanno rilanciando lo scontro tra civiltà.

Detto in altri termini, quello che Carnelos chiama Global Rest, ossia il resto del mondo, quello che con velato disprezzo chiamavamo secondo o terzo o addirittura quarto mondo, che non ha più nulla da perdere, si sta affrancando dall’usacentrismo e dall’eurocentrismo e sta affrontando il padrone del mondo reclamando la propria autonomia. Per farlo si salderà sulle posizioni di Cina e Russia e da ciò non potrà che nascerne un aperto conflitto mondiale, se gli USA continueranno imperterriti con la propria politica di dominio globale.

Anche se oggi stanno in una fase di confusione, per via del relativo disimpegno sul fronte ucraino e per conflitti interni legati alle prossime presidenziali.

E l’Europa?

La guerra in Ucraina si poteva evitare perché sarebbe stato sufficiente evitare che gli USA imponessero la propria influenza in Ucraina e l’Europa avrebbe colto l’occasione per imporre il suo ruolo di mediatore tra due interessi in conflitto, quello di dominio statunitense e quello di nuovo equilibrio egemonico in Oriente e tra i paesi non allineati. Invece l’Europa ha scelto la via del suicidio politico, mantenendo la propria subalternità agli interessi statunitensi.

Osserva ancora Carnelos,

Qui si intravede un gigantesco perdente all’orizzonte: l’Europa. Quando tra qualche decennio gli storici riesamineranno questo scorcio storico i danni che le leadership europee hanno arrecato alla posizione del vecchio continente nel mondo emergeranno con tutta la loro magnitudo. Hanno rinunciato alle forniture energetiche russe, a buon mercato, per rivolgersi ad altri fornitori a prezzi maggiorati, e come se non bastasse stanno intraprendendo una transizione energetica (peraltro inevitabile) che vedrà la Cina prendere il posto che una volta era detenuto dalla Russia, ma allo stesso tempo parlano di “de-risking” da Pechino senza nemmeno essere in grado di spiegare che cosa significhi. In sintesi pura schizofrenia. L’Europa si avvia ad un mesto declino, geopolitico, economico e demografico incapace di collocarsi in un’intelligente via mediana tra USA da una parte ed il condominio russo-cinese dall’altra.

Noi povera gente, che di geopolitica ci capisce poco, abbiamo però capito che la mossa dell’UE di isolare la Russia con le sanzioni ci si è ritorta contro. Perché di economia reale ci mastichiamo un po’ tutti.

Ha provocato tutta una serie di conseguenze negative che, ovviamente, sono state scaricate sulle nostre spalle, tenendo ben al riparo quelle del sistema produttivo. I maggiori costi dell’energia ed il resto delle sanzioni li paghiamo noi, con tutto ciò che ne consegue. Aumento del costo dei beni di prima necessità, aumenti in bolletta, aumento del costo del carburante, aumento dei mutui, riduzione della spesa pubblica sociale a vantaggio dell’aumento di quelle militari, riduzione dell’export, ecc.

Se poi pensiamo che il 2024 ci porterà nuovi rincari, a salari invariati, non c’è molto da festeggiare. Non c’è nemmeno molto da fidarsi di un’UE incapace di tutelare i propri cittadini solo per reverenza nei confronti degli USA.

Qualcuno ipotizza che alle prossime elezioni europee di giugno 2024 si cambieranno gli scenari, ma la prospettiva è che il voto si sposterà più a destra, come accade spesso nei momenti di crisi, e ciò produrrà enormi vantaggi alla classe dominante, il cui sottoprodotto, il fascismo, viene sguinzagliato proprio in questi momenti per tutelare lo status quo illudendo le masse, attraverso la propaganda, di essere contro il sistema, quando in realtà lo proteggono.

In Palestina

Quando scoppia una guerra è il momento più opportuno per farne scoppiare un’altra. Questo avrà pensato Benjamin Netanyahu quando ha iniziato le operazioni belliche nella striscia di Gaza. Con il pretesto di liberare degli ostaggi israeliani fatti prigionieri dal gruppo terroristico Hamas.

A parte che Hamas non è altro che un prodotto delle politiche repressive di Israele nei confronti della Palestina. Quindi sconfiggere Hamas è una pura illusione. A parte ciò, quella che si sta facendo passare come un’operazione militare contro il terrorismo non è altro che un’operazione di pulizia etnica. Un massacro. Un crimine di guerra contro popolazioni inermi, donne, bambini, anziani, malati. L’idea folle di Netanyahu è di sterminare un intero popolo e prendersi quel pezzo di terra cui i Palestinesi sono stati segregati per decenni.

Se i media occidentali fanno passare la guerra israelo-palestinese come un’operazione antiterroristica, la realtà è che si tratta di una nuova shoah, un olocausto. Perché come altro vuoi chiamare una guerra in cui si colpiscono ospedali, scuole, abitazioni, e – se non fai parte dei più di 21.000 morti di persone inermi –  vieni comunque costretto ad abbandonare casa tua per essere detenuto in prigioni di fortuna o deportato in Egitto, Siria, Libano e chissà dove altro?

Ecco che la questione palestinese diventa una questione di civiltà. Ci siamo sempre detti che mai più sarebbe accaduto ciò che è successo agli ebrei durante il regime nazista. Eppure sta accadendo, oggi, a pochi km più a sud da noi. Sta accadendo in un contesto di diritto internazionale che credevamo forte e capace di governare i rapporti tra stati. Eppure non è così. Se non saremo in grado di fermare questo genocidio, sarà la prova che l’Occidente è capace solo di venerare il feticcio delle merci, consumare, crogiolarsi nel proprio edonismo ed è incapace di provare quel senso di umanità che è stato il fondamento della cultura europea sin dal Medioevo. Quindi è bene che l’Occidente, così com’è oggi, sparisca dalle pagine della storia.

Le questioni ambientali

Roghi nel Salento - ulivo incendiato a Copertino 24 giugno 2021

Il 2023 che va via sarà ricordato per due fenomeni contrapposti o, per dirla con Talete ed Eraclito, per acqua e fuoco. Che, per loro, erano l’origine delle cose. Qui, oggi, invece, rappresentano la fine delle cose.

Il fuoco

Il fuoco, per tutta l’estate, ha distrutto vaste distese di vegetazione, in particolare in Spagna, Grecia, Italia, Brasile, USA, Canada. In quest’ultimo caso i roghi hanno distrutto quasi 10 milioni di ettari di boschi, con inquantificabili danni all’ecosistema, al paesaggio e all’atmosfera. Già, perché solo i roghi in Canada del 2023 hanno immesso in atmosfera un quarto delle emissioni globali di tutto l’anno.

In Grecia si è parlato dell’incendio più vasto di tutta Europa, nella storia, contando più di 26 vittime e danni incalcolabili agli ecosistemi.

Per farla semplice, su dieci roghi, nove sono causati dalle attività antropiche e di questi sette sono dolosi. Ma è indubbio che una concausa rilevante dei roghi di tutto il mondo è il cambiamento climatico. L’innalzamento delle temperature e le estati sempre più roventi e prive di piogge rendono la vegetazione una polveriera. Inoltre l’aumento esponenziale di un turismo inconsapevole ed inesperto aumenta pure il rischio di incendi, dato che un numero sempre più elevato di turisti popola boschi e aree arboree, provocando, con comportamenti scorretti, incendi colposi.

Quelli dolosi sono un altro capitolo e gli interessi che vi sono dietro sono i più disparati. Per approfondire, qui, qui e qui ho tentato di abbozzare un analisi della piaga che attanaglia il Salento ogni estate.

L’acqua

Se il fuoco è l’elemento distruttore delle estati in mezzo mondo, l’acqua è l’elemento distruttore nel resto delle stagioni.

Ripercorrendo la storia recente d’Italia, non possiamo certo dimenticare l’alluvione nelle Marche nel 2022, quella di Genova nel 2011, la recente alluvione in Toscana, le ripetute alluvioni in Campania (dal 2011 a oggi), quelle in Calabria del 2022 e del 2015, ecc. ecc. ecc.

Sono tante, troppe e ogni regione, ogni provincia, ne conta almeno una.

Ma quella che forse ricorderemo come il paradigma delle alluvioni in Italia è quella di maggio 2023 in Emilia Romagna.

A questo proposito cito un passaggio di un recente articolo di Wu-Ming 1 apparso su Internazionale, che ripercorre la vicenda e spiega perché dovremmo prendere seriamente in considerazione le fantasie di complotto sul clima. Gli articoli si trovano qui e qui.

Nei primi giorni del maggio 2023, e di nuovo due settimane dopo, sull’Emilia orientale e sulla Romagna si abbattono forti nubifragi. La popolazione è colta di sorpresa: si viene da un lungo periodo di siccità.

Fin dalle prime ore il territorio si rivela incapace di reggere l’urto. I fiumi e torrenti che scendono dall’Appennino – Idice, Lamone, Montone, Santerno, Savena, Senio, Sillaro e altri – si gonfiano e scavalcano gli argini, quando non li sfondano e spazzano via.

L’Appennino stesso si sgretola: quasi trecento frane dissolvono crinali e pendii, isolano paesi e aggiungono altra melma alle ondate che travolgono la pianura tra Bologna e il mare. Strade e ferrovie, zone industriali, centri abitati, tutto soffoca nel fango. Tornato il sole, si contano diciassette morti, sessantamila persone evacuate e danni per miliardi di euro. […]

“Fango” non rende l’idea: a coprire la pianura è una fanghiglia tra il verdastro e l’arancione, tanto puzzolente da togliere il respiro, piena di escrementi e veleni. Appena oltre gli argini l’acqua ha trovato lo sprawl, l’urbanizzazione selvaggia della terza regione più cementificata d’Italia, sia in assoluto – 200.320 ettari di suolo consumato – sia per incremento netto nel solo 2021, 658 ettari persi, dei quali 501,9 in aree a media pericolosità idraulica.

A dispetto di un’autonarrazione trionfalistica, il territorio dell’Emilia-Romagna è molto fragile. Se l’Appennino è dissestato, la bassa è tutta pianura alluvionale, in buona parte risultato di grandi bonifiche, sottratta alle acque con mezzi meccanici. Terra che rimane emersa grazie al lavoro costante di impianti idrovori e migliaia di chilometri di canali. Un territorio sempre in bilico, in cui si dovrebbe costruire con prudenza e parsimonia. Si fa l’esatto opposto. […]

All’indomani delle alluvioni, gli amministratori, invece di parlare delle cause principali, hanno dato la colpa alle nutrie, agli istrici, alla sfortuna. Ciò ha contribuito a creare un vuoto, che la storia dell’aereo misterioso ha riempito.

A seguire, è scattato il pregiudizio di conferma: dopo che ci si è fatta un’idea, si tende a scartare o sminuire ogni fonte che la metta in discussione.

Resistere a questi bias è difficile. Collegare l’alluvione al centro commerciale vicino a casa, alle villette a schiera che gli stanno attorno, al nuovo parcheggio che è tanto comodo, al rumore di motoseghe e decespugliatori che ogni tanto entra dalla finestra, ai pennacchi di fumo che escono da comignoli e ciminiere richiede fatica cognitiva. È più facile immaginare il grande piano segreto che figurarsi i molteplici flussi, progetti, processi, interessi, automatismi, consuetudini e spinte inerziali che ogni giorno muovono il capitalismo.

Acqua e fuoco in abbondanza hanno due elementi in comune: entrambi sono il frutto dei cambiamenti climatici, che generano alternanza tra lunghi periodi di siccità e nubifragi (definito climate whiplash, effetto colpo di frusta). Ma ridurre questi due fenomeni ai soli cambiamenti climatici è fuorviante e pericoloso. Come sostiene Wu-Ming, infatti, entrambi sono da ricondurre agli effetti di antropizzazione selvaggia dei territori, ad una sottrazione di suolo che ha snaturato i delicati assetti idrogeologici e, soprattutto, ad un modello culturale, figlio di quello economico, che vede nella Natura un bene da sfruttare anziché un ecosistema delicato in cui convivere generando un equilibrio tra le esigenze umane e quelle ambientali.

E l’Europa? Cheffà?

Ormai i cambiamenti climatici sono sotto gli occhi di tutti. Solo gli idioti si ostinano a negarli o a continuare nella narrazione per cui “i cambiamenti climatici sono sempre esistiti”. Questa è una delle narrazioni dominanti per cui la colpa non è della cultura della produttività ad ogni costo e della concezione della Natura come un infinito serbatoio di materie prime ed un’inesauribile discarica, senza effetti, bensì di un clima che cambia perché è sempre stato così.

Dunque i cambiamenti climatici sono un altro, enorme problema con cui fare i conti.

Il ruolo dei governi occidentali non è – come dovrebbe essere – quello di imporre una limitazione della sovrapproduzione di merci. Oppure quello di limitare lo spostamento delle merci da un capo all’altro del mondo (una banana può viaggiare in nave, treni, camion, per 10.000 km). O, ancora, di regolamentare il consumo di suolo. No, i governi occidentali scaricano sulle masse le responsabilità dei cambiamenti climatici. Per esempio, instillandoci ogni giorno l’idea che solo cambiando il parco auto a combustibili fossili con uno elettrificato, possiamo ridurre le emissioni. Oppure spingendoci ad effettuare una corretta raccolta differenziata. Oppure, ancora, a permettere di consumare ulteriore suolo per installare enormi parchi a energia rinnovabile (sic!).

Come già detto in altre occasioni, l’auto elettrica inquina più di un diesel del 1999. Sarà la prima responsabile di un ritorno dell’Italia al nucleare. Perché coprire il fabbisogno energetico in esponenziale crescita con nuovi parchi a energia rinnovabile è un po’ come spegnere un incendio con una pisciata.

Le politiche sulla raccolta differenziata sono l’ennesima presa per i fondelli, perché scaricano sui comuni la responsabilità di smaltire quello che il sistema produttivo globale crea come rifiuto già all’atto della produzione.

Anziché imporre ai produttori una riduzione degli imballaggi e un modello di distribuzione delle merci più razionale, si mantiene inalterato il sistema produttivo. Si impone, cioè, ai comuni e ai consumatori di smaltirli, senza minimamente considerare che in Italia vengono avviati al riciclo il 43,5% degli imballaggi raccolti. Ma solo il 60% di questi vengono effettivamente riciclati.

A questo va aggiunta la considerazione per cui si lascia ai comuni la libertà di determinare le modalità di raccolta differenziata. Ciò rende ancora più difficile stabilire dei metodi standard di stoccaggio e di avvio al riciclo. Tra l’altro la plastica, quando è riciclabile, può esserlo al massimo una volta, perché le molecole che la compongono si degradano facilmente.

Infine, in tema di consumo di suolo, leggiamo il Rapporto Il consumo di suolo in Italia 2023, pubblicato dall’ISPRA (trovato qui), per cui

ha raggiunto la velocità di 2,4 metri quadrati al secondo, avanzando, in soli dodici mesi, di altri 77 km quadrati, oltre il 10% in più rispetto al 2021. Questo rende le città sempre più calde: nei principali centri urbani italiani, la temperatura cresce all’aumentare della densità delle coperture artificiali, raggiungendo nei giorni più caldi valori compresi tra 43 e 46 °C nelle aree più sature.
Ma il consumo di suolo incide anche sull’esposizione della popolazione al rischio idrogeologico, oltre 900 – in un solo anno – gli ettari di territorio nazionale reso impermeabile nelle aree a pericolosità idraulica media, e provoca la costante diminuzione della disponibilità di aree agricole eliminando in 12 mesi altri 4.500 ettari, il 63% del consumo di suolo nazionale.

Dunque le promesse nazionali ed europee in tema di lotta ai cambiamenti climatici cozzano inesorabilmente con il liberismo che, invece, ne domina le stanze del potere. Bisogna risolvere il problema, ma senza intaccare lo sviluppo e scaricando le responsabilità sugli individui e sulle strutture amministrative più vicine al cittadino. Così le tensioni si scaricano a livello territoriale e si impedisce di attribuirle ai livelli sempre più alti. Ciò mortifica il dibattito pubblico e le possibili, reali, soluzioni ai problemi che hanno caratterizzato il 2023: guerre, fuoco, inondazioni. Che dire, buon 2024. Che ci porti un sano dibattito e una nuova consapevolezza: dare un calcio in culo ai super ricchi. A partire dal fascio Elon Musk.

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