Un sindacalista viene ucciso, durante una manifestazione, da un autista di un’azienda di trasporti. Ma di chi è la responsabilità? Dell’investitore, certo. E poi? Degli sfruttatori del settore della logistica. E basta? Manca il grande rimosso, che si lava la coscienza e non si sente mai tirato in causa.
Un moto di rabbia, impotenza e immenso cordoglio mi ha colpito quando ho letto la notizia della morte di Adil Belakhdim, trentasettenne operaio della logistica, sindacalista di SI Cobas, padre di due figli piccoli e con la dignità di chi si batte per i propri diritti e quelli dei propri colleghi.
Il moto di rabbia, inizialmente, ha riguardato il diretto responsabile della sua morte, un venticinquenne, autista di camion, che – all’uscita del magazzino della LIDL di Biandrate – dove si stava svolgendo la manifestazione degli operai, ha forzato il presidio e, dopo aver litigato con i manifestanti, ha messo sotto qualcuno di loro, per poi trascinare Adil per una decina di metri, prima che stramazzasse a terra, esanime.
L’autista, non sappiamo se cosciente o meno dell’accaduto, è stato fermato poco dopo in una stazione di servizio dell’autostrada, e condotto in caserma per essere interrogato, per poi essere arrestato.
Tre sono le storie che vanno raccontate, per comprendere la vicenda e per tentare di raccontare la storia nel suo complesso, anche se con sintesi, per contestualizzare i fatti e cercare di non cadere nel rapido giustizialismo (condannate il mostro! Krumiro! Assassino!) e nel sentenzialismo facile nei confronti del settore della logistica, troppo sbrigativamente dichiarata il cuore nero del capitalismo italiano (Il Manifesto, 19 giugno 2021).
Il cuore sta altrove, ma tra poco ci arriviamo. E per farlo passeremo anche attraverso l’ultimo film di Ken Loach, che ha dato il titolo a quest’articolo.
Le tre storie riguardano gli operai, contrattualizzati e liberi. I padroncini e il gioco dello scaricabarile. Infine il grande rimosso della GDO e dei colossi dell’e-commerce.
Il sindacalista e il crumiro
Adil era il coordinatore del SI Cobas novarese, un piccolo sindacato, poco rappresentativo, ma cosciente, forse uno dei pochi in Italia a mettersi per davvero dalla parte dei lavoratori, senza calarsi le braghe, come continuamente assistiamo quando i sindacati confederali – e in particolare la CGIL, vista la sua origine e storia – firmano accordi che, direttamente o indirettamente, suggellano gli interessi dei padroni. Oppure che, come è accaduto di recente, avallano le scelte del governo il quale, liberalizzando i subappalti, crea una patina di intermediazione tra i committenti e i lavoratori, impedendo di applicare i contratti collettivi e contribuendo a determinare forme di sfruttamento sempre più evidenti, ma impossibili da eliminare in quadri normativi liberal.
Il mercato delle spedizioni
Il terreno in cui si è inserito quest’ultimo – tragico – fatto, è composto da un continuo crescendo di sfruttamento. Specie da quando è cresciuto esponenzialmente il numero delle spedizioni effettuate in Italia, in massima parte gestite dai corrieri espressi.
Dal 2014, secondo Qapla’, i pacchi movimentati per il solo e-commerce, sono passati da 240 a 400 milioni all’anno. Che si sommano – non solo numericamente – alla mole di consegne effettuate per conto della GDO (Grande Distribuzione Organizzata), oltre che a tutte le altre (spedizioni b2b, pacchi tra privati, ecc.).
Durante la pandemia, poi, come tutti sappiamo, il numero di spedizioni è aumentato a dismisura, arrivando, ad un +103% rispetto all’anno precedente (dati Qalpa’). Senza determinare blocchi del settore, che ha continuato ad essere produttivo anche durante i focolai di Covid-19 nelle sedi dei maggiori corrieri espressi (con operai che lamentavano pure la mancanza di DPI, nella fase in cui erano introvabili e ci si speculava sopra).
Con la fase II del lockdown, dal 4 maggio 2020 e sino al nuovo lockdown autunnale, pur calando sensibilmente, le spedizioni on-line si sono attestate su un +68,5% rispetto al 2019.
Questi numeri sembrano dire poco, anzi, paiono pure positivi. Un “+” è sempre un bel segno, che esprime aumenti di fatturato, un’economia in crescita, crisi economiche e sanitarie affrontate al meglio dalle nuove tecnologie.
Tuttavia quel “+” simboleggia anche altro. Un aumento del numero delle consegne. Il conseguente aumento della giornata lavorativa. E, nelle stesse ore lavorative, l’aumento della velocità di consegna. Quindi aumento di stress, malattie professionali, incidenti sul lavoro, conflittualità tra lavoratori.
Poniamo che se, fino a qualche anno fa, il corriere consegnava ogni giorno 1000 pacchi in 8 ore, oggi ne deve consegnare 2500. Il padroncino gli dirà: velocizza le consegne, oppure fai gli straordinari, fai come ti pare, però a fine giornata devi tornare con il camion vuoto. E poi arriva anche ad imporre ad operai e driver di lavorare la domenica, come detto in quest’articolo.
L’inquadramento contrattuale dei driver…
Spesso, molto spesso, il corriere espresso che ci consegna i pacchi è inquadrato come libero professionista. Ha la Partita IVA. Non certo per sua volontà, ma perché è prassi diffusa nel settore. Quindi se vuoi lavorare, apri la P. IVA, sennò ciccia. Trova lavoro da qualche altra parte, che qui c’è la fila.
Lavora esclusivamente per il marchio che gli affida le spedizioni (es. BRT, TNT, SDA, ecc.), ma formalmente è un piccolo imprenditore. Tecnicamente non si potrebbe fare, ma i grossi corrieri sfruttano le scappatoie lasciate (volutamente?) aperte dalla legislazione in materia giuslavoristica, per risparmiare un monte di soldi: contribuzione, tredicesima, INAIL, ferie pagate, straordinari, sono tutte voci su cui risparmiano.
Passano un fisso (molto, molto basso) al driver e un tot di soldi per ogni spedizione effettuata, calibrato sul peso volumetrico. Quindi: più consegni e più ti paghiamo. Siccome sei libero professionista e ti devi pagare da te i contributi, l’IRPEF, le manutenzioni al mezzo, il carburante, il medico se ti fai male, e tutte le spese – legate al lavoro – che spetterebbero al datore, hai tutto l’interesse a lavorare di più, per guadagnare di più.
Ma il guadagno non è legato alla cupidigia e alla voglia di accumulare denari, bensì alla necessità: con 10.000 spedizioni mi son pagato le spese, con 10.000 altre mi pago da mangiare, con 15.000 mi pago l’affitto, con le restanti mi pago le bollette, l’assicurazione alla macchina, qualcosina da parte che non si sa mai e, se resta qualcosa, le ferie ad agosto, una settimana al massimo, però, che ogni giorno fermo sono soldi che non entrano.
…e degli operai
Gli operai che lavorano in magazzino, invece, sono assunti come dipendenti. E, al pari dei colleghi autisti, fanno la stessa vita di merda. Devono smistare ogni giorno decine di migliaia di pacchi, spostarli, caricarli, scaricarli, facendo il più velocemente possibile.
Se qualche pacco arriva rotto al destinatario, sappia che ciò è dovuto – spesso, anzi, azzarderei un quasi sempre – ai massacranti ritmi di lavoro che si celano ogni giorno dietro le mura dei corrieri espressi. Non c’è tempo per leggere quella scritta fragile appiccicata sul pacco, né gli occhi – accecati dal sudore – si fermano a leggere l’alto, maneggiare con cautela scritto a penna dall’ignaro mittente. Oppure posizionare con delicatezza il pacco sul nastro.
La delicatezza è un lusso che non ci si può permettere quando i tempi sono misurati dal cronometro e, dopo già due ore di lavoro, la schiena inizia a far male.
Questo dato – la differenza contrattuale tra driver e operai – è importante per capire quali conflittualità si possono generare tra persone sfruttate allo stesso modo, ma con livelli di reddito differenti, e ricatti diversi.
Sì, perché se il driver è una Partita IVA e più lavora e più guadagna, il dipendente guadagna sempre la stessa cifra (che spesso non supera le 700/900 euro al mese), indipendentemente dal numero di pacchi lavorati.
Il casus belli
Il casus belli, che ha ampliato le proteste, è stata la scelta del gruppo Fedex-TNT, uno dei più grossi al mondo, di chiudere, a febbraio, l’hub di Piacenza e lasciare senza reddito 272 famiglie, di altrettanti operai sindacalizzati, licenziati in tronco, per distribuire le proprie sedi in diversi capannoni tra Lodi e Milano. Gli operai licenziati si sono presentati, per riprendere il posto di lavoro e, invece, hanno preso manganellate.
Ancora, la notte tra il 10 e l’11 giugno a Tavazzano (Lodi), un altro presidio dei lavoratori SI Cobas è stato preso a mazzate e manganelllate da parte di gente che, stando ad un video, pareva mandata lì apposta e che ha ferito numerosi lavoratori, lasciandone uno in gravi condizioni.
Ancora, a San Giuliano Milanese, a fine maggio, dei tipi palestrati, con mazze e taser in mano, si sono presentati davanti ad un presidio di lavoratori, mandandone all’ospedale diversi.
E poi questo. L’uccisione di Adil, da parte di un altro sfruttato, che, per le ragioni poc’anzi dette e chissà per quali altre ragioni, non si è unito alla lotta, ha ceduto al ricatto del padrone, ha forzato il blocco e, facendosi dominare dagli eventi, è giunto al tragico epilogo.
Sorry we miss you
Un tragico epilogo che un osservatore attento come Ken Loach ha saputo cogliere, nel suo ultimo film (uscito in Italia a gennaio 2020), in cui ha messo in rilievo le condizioni di sfruttamento dei driver, da parte dei padroncini, nell’Inghilterra di oggi (ma che, ovviamente, vale in tutti i paesi a capitalismo avanzato).
Un film assolutamente da vedere, dove le vicende familiari dei protagonisti, Ricky ed Abbie, una coppia con due figli adolescenti di Newcastle, si intrecciano inequivocabilmente a quelle delle condizioni lavorative, che nel peggiorare sempre più, peggiorano la vita tra le mura domestiche ed il rapporto con i figli.
Ricky, per risolvere i propri problemi economici, si fa convincere a lavorare per un corriere espresso, allettato dalle promesse di un lavoro pagato bene, anche se faticoso.
Il primo ostacolo all’ingresso di quel mondo è dovuto proprio ai mezzi di produzione. Il corriere non gli fornisce il furgone, deve comprarne uno per conto suo. Così convince la moglie – assistente domiciliare per malati ed anziani – a vendere l’auto per comprare il furgone. E così lei è costretta a muoversi per tutta Newcastle con i mezzi pubblici.
Il livello di auto-sfruttamento, condizionato dalla ricerca di guadagni, dal ranking aziendale e dalle pressioni dei capi, è pienamente messo in luce lungo l’evolversi del film, che si concluderà lasciando lo spettatore con il dubbio – probabilista – che finirà in tragedia.
E’ con questa chiave di lettura che occorre guardare allo sfruttamento non palese, ma occulto, dei driver e, dunque, al rapporto tutto interno alla classe operaia. Ecco perché è pericoloso – come sta accadendo oggi, con i commenti a caldo – prendersela con un altro operaio, definirlo crumiro, servo, complice dei padroni, assassino e via discorrendo.
Così come è anche pericoloso cadere nella facile narrazione del driver pagato dai padroni apposta per rompere i presidi, impaurire i manifestanti e, ovviamente, consegnare le merci.
Questa è un’analisi deviata (fatta da esponenti di una sinistra radicale) di ciò che è la realtà: i driver sono in effetti pagati a cottimo e hanno il (necessitante) interesse a consegnare le merci. Metterli alla gogna equivale a protrarre l’arcinoto modello del divide et impera su cui il dominio capitalista si regge.
Il ruolo dei padroncini
Altra narrazione fuorviante vuole che i padroncini, ossia i titolari di aziende di trasporto – centinaia di migliaia in tutta Italia – siano i diretti responsabili delle impossibili condizioni di vita della classe operaia del settore della logistica.
Se è giusto che le rivendicazioni sindacali siano direttamente indirizzate ai datori di lavoro – i corrieri espressi, i padroncini – e quindi bene fanno i sindacati radicali a proclamare scioperi, indire manifestazioni, presidiare ingressi e uscite dei magazzini, difendere gli interessi di una classe sempre più sfruttata, male invece fanno i commentatori di turno, gli intellettuali, i gruppi politici della sinistra, i giornalisti, a prendersela direttamente con loro.
Volendo fare un esempio rurale, è come se vedessi distrutto un intero raccolto di grano causato da un nuovo insetto patogeno, mai visto prima. Me la prendo direttamente con lui, trovo un rimedio per eliminarlo, senza però andare ad indagare le cause e scoprire che, magari, quell’insetto è stato portato qui dai mutamenti climatici e quindi hai voglia ad eliminarlo, ne arriveranno sempre di più e sempre più resistenti alle cure, continuando a distruggere interi raccolti, fintantoché non si troveranno i rimedi per la vera causa.
Ecco, più o meno il ruolo dei corrieri è assimilabile a quello dei patogeni vegetali: è inutile che te la prendi con loro, perché a loro volta sono schiavi di un ricatto contrattuale, che gli impone di aumentare i ritmi di lavoro pur di non perdere il contratto. Che, se pur volessero mantenere ritmi lavorativi umani, aumentare i salari, ridurre la giornata lavorativa – insomma, aderire alla contrattazione collettiva – l’unico effetto sarebbe quello di perdere il contratto e, in buona sostanza, ridurre sensibilmente il fatturato, se non addirittura chiudere i battenti.
Grosso corriere e piccolo corriere
Sia chiaro, non li sto affatto giustificando. Dico solo che il sistema funziona a cascata: il padroncino è crudele con i lavoratori perché il committente è crudele con il padroncino. Ma chi è il committente?
Qui occorre fare una distinzione tra piccolo e grosso corriere. Per capirci, tra trasporti pincopallo s.r.l. di Bagnacavallo e, per fare un esempio tra i tanti, il gruppo FedEx-TNT, che opera in tutto il mondo.
Il grosso corriere stipula un contratto con il grosso committente (e tra poco lo vediamo meglio). Chiaramente la contrattazione è serrata, perché il grosso committente vuole ridurre quanto più possibile l’importo, mentre il grosso corriere tende in direzione opposta.
La parte debole del contratto è il grosso corriere, perché il grosso committente vanta un numero di spedizioni all’anno di milioni di pacchi. Oppure di un numero cospicuo di bancali. Il ché è indifferente, perché in un modo o nell’altro il corriere sa che riempirà i tir e ottimizzerà i costi.
Il grosso committente sa di essere la parte forte del contratto e quindi, di fatto, impone il suo prezzo. Che il corriere accetta di buon grado. E accetta anche i tempi medi di consegna, molto più brevi rispetto al passato. E se non vengono rispettati, fioccano fior fior di penali.
Il grosso corriere ha chiuso un ottimo contratto. Ma ora ha la strizza al culo, perché perdere questo contratto significa perdere più della metà del suo fatturato.
Per favorire il grosso committente, ha anche aumentato le tariffe per i piccoli imprenditori. Così crea una barriera all’accesso. E se se li fa clienti, poco male: guadagna di più, ma offre un servizio più scarso in termini di tempi di consegna, perché la priorità va assolutamente al contratto con il grosso committente, che dev’essere soddisfatto.
Tuttavia il grosso corriere sa di non avere i mezzi per rispettare totalmente il contratto. Qualcosa andrà sicuramente storto. E se va male, non solo pagherà le penali, ma il contratto si risolverà e il grosso committente si rivolgerà alla concorrenza.
Ecco che iniziano le politiche di sfruttamento dei propri dipendenti. Con le differenze di trattamento che abbiamo visto poc’anzi.
Tuttavia i mezzi sono quelli. Sono limitati. Puoi spremere quanto vuoi i tuoi dipendenti e collaboratori esterni, ma le ore della giornata sono e restano 24 e le braccia sempre due rimangono.
Ecco che si apre al subappalto, all’esternalizzazione. Il grosso corriere si rivolge al padroncino, titolare della trasporti pincopallo s.r.l., promettendogli un contratto consistente, a condizione che rispetti il numero di consegne in un dato arco di tempo. E così il padroncino si può permettere, con quei soldi, di tenere aperta l’azienda e, magari, fare qualche investimento. Ma, per non perdere il contratto, è costretto a rispettarlo, inducendo i suoi sottoposti ad aumentare i ritmi di lavoro.
Chiaramente né il padroncino né i driver (assunti con P. IVA) sono costretti ad applicare la contrattazione collettiva, e così è possibile sfruttare e auto-sfruttarsi per tirare a campare.
Quindi, se proprio vogliamo parlare di sfruttamento nel settore della logistica, sarebbe più appropriato parlare di sfruttamento di secondo grado.
Il grande rimosso: la GDO ed i colossi dell’E-commerce
I corrieri espressi sono un tramite, un mezzo. Consegnano pacchi. Per comprendere chi sono gli sfruttatori di primo grado, dobbiamo risalire la china di chi, quei pacchi o quei bancali, li spedisce.
Ovviamente non mi riferisco a piccole realtà commerciali che si servono dello strumento dell’e-commerce per vendere oltre i propri confini geografici. Né alla PMI che fa le sue 1000 spedizioni l’anno.
Il grande rimosso delle critiche al capitalismo della logistica sono i colossi dell’e-commerce, tra cui spicca – primo tra tutti – Amazon.
Ora, qualcuno s’indispettirà perché spesso, in vecchi articoli, ho parlato male di Amazon e continuo a farlo. Non lo faccio certo per antipatia o per chissà quale forma di dissenso, anche se preferisco non comprarci sopra. E’ solo perché Amazon rappresenta uno dei modelli (il principale) del continuo alzare l’asticella dei servizi offerti alla clientela, che – a cascata – diventano – alla base – sfruttamento.
Amazon, in questo senso, è un paradigma. Un tipo-ideale, come direbbe Weber, per semplificare e capire come funziona il modello dello sfruttamento a cascata, che impedisce di arrivare a criticare chi mette in moto i meccanismi che poi portano ai terribili fatti di cronaca di cui stiamo parlando.
Si parte dalla politica delle spedizioni gratuite. Cosa introdotta da Amazon (su larghissima scala) e che ha influenzato pesantemente tutti gli operatori del settore dell’e-commerce, i quali – attraverso svariate peripezie e passando per forme dovute di sfruttamento del lavoro o conflitti con fornitori e tasse da eludere/evadere – si son dovuti adattare, a prezzi di vendita dei propri prodotti (quasi) invariati.
Poi Amazon, superando se stessa, ha introdotto la consegna rapida. Si è passati, in pochissimo tempo, dai canonici 4/5 giorni per la consegna, a 2/3 giorni, per poi arrivare – con la formula Prime (che per Amazon rappresenta un flusso continuo di introiti) – ad un giorno scarso. Addirittura ad ore, per chi vive nei pressi dei magazzini del colosso.
Anche questa politica ha influenzato pesantemente la concorrenza (buffo termine per operatori del settore che sono la formica davanti all’elefante), portandoli a chiedere in ginocchio ai corrieri tempi rapidi di consegna, che spesso si infrangono in un niet (celato da calde rassicurazioni, che nascondono le postille contrattuali) oppure da contratti più onerosi, il ché ci riporta al punto precedente: il piccolo operatore si trova costretto a pagare di più le spedizioni, ma deve barcamenarsi per offrire le spedizioni gratuite, erodendo così il proprio margine di profitto (altro buffo termine, che per un piccolo operatore significa reddito di sussistenza) oppure arrivando a grottesche forme di auto-sfruttamento o sfruttamento dei propri collaboratori.
Queste due politiche – consegna gratuita e rapida – producono tre effetti. Il primo l’abbiamo abbondantemente analizzato (anche se non compiutamente): lo sfruttamento a cascata dei corrieri, che poi si riverbera sui padroncini, che poi finisce per sfruttare i driver in un modo e gli operai in un altro.
Il secondo effetto lo abbiamo appena visto: l’influenza sulla concorrenza.
Il terzo effetto è l’influenza che questo modello di sfruttamento a cascata ha sul capitalismo nostrano dei consumi di massa: la GDO. Per capirci, catene come Coop, LIDL, Esselunga, Conad e via discorrendo, che sono avvezze da decenni a forme variegate di sfruttamento, vedono in questo sistema un buon modo per scaricare le responsabilità sulle ultime ruote del carro. Insomma, se il modello funziona, applichiamolo tutti.
E così la GDO riproduce sulla sua porzione di logistica i modelli delineati dall’americanizzazione sbandierata dai grossi committenti, come Amazon. Per andare ad ingrossare le fila di un meccanismo (quasi) perfetto: la cascata delle responsabilità.
E dunque l’effetto è che il povero Adil viene barbaramente ucciso da un altro sfruttato che se la passa poco poco meglio, che a sua volta è sfruttato da un altro sfruttato il quale se la passa un pochino meglio del precedente, che però è sfruttato da un altro sfruttato (questo, però, inserito nel meccanismo di accumulazione del capitale), il quale, infine, è sfruttato dal vero sfruttatore. Quest’ultimo non compare mai nelle critiche e, anzi, se ne lava le mani, generando forme di difesa che, nel caso di specie, giungono ad affermare che il vero responsabile è un fornitore terzo.