Dopo aver analizzato i numeri degli incendi, la comunicazione mediatica main stream, le tecniche di manipolazione linguistica ed aver abbozzato una definizione di rogi scientifici, andiamo a vedere le possibili cause dei roghi. Quelle principali. E vediamo di capire fino a che punto prevale l’accidentalità e dove, invece, subentra l’interesse economico.

Dopo un lungo silenzio, coinciso, solo casualmente, con la stagione estiva – ovverosia per tutta l’estate mi son dedicato all’assorbente e temprante attività agricola, intervallata ogni tanto da qualche nuotata – eccomi qua a terminare il lavoro lasciato a metà, quello sulle cause dei roghi.

Roghi che, stando alla cronaca locale, nazionale ed internazionale, hanno riguardato non solo le nostre regioni meridionali, ma anche tutto il bacino del Mediterraneo (Grecia e Spagna in particolare), Russia e i paesi d’oltroceano.

Tutto ciò, chiaramente, non contraddice, ma anzi rafforza, la tesi per cui buona parte dei roghi son dolosi e i media main stream glissano continuamente le cause di questi o, al più, ne parlano attribuendole ai mutamenti climatici o alla disattenzione.

Le emergenze che piacciono a tanti

Sempre se ne parlano. Perché, com’è moda mediatica, se ne parla quando c’è un’emergenza, poi, con l’arrivo delle prime piogge e del fresco, cala il silenzio, che perdura finché non ritorna di nuovo l’emergenza – nella stagione estiva successiva – e così ci si ritrova impreparati e si grida ad una nuova emergenza.

Cosa che piace un po’ a tutti: ai media perché le emergenze generano titoloni sensazionalistici e pezzi pieni di pathos e passionevole ipocrisia; al governo perché nelle emergenze si glissa il processo democratico e pluralistico, si accentrano i poteri e si genera consenso; ai padroni perché dai provvedimenti normativi emergenziali traggono benefici diretti e indiretti nonché – ormai sempre più spesso – soldi pubblici a pioggia.

Ma di emergenziale c’è poco. Il fenomeno è strutturato, la risposta no. C’è in ballo una nuova fase di ristrutturazione capitalistica, con conseguente necessità di una nuova accumulazione originaria e i roghi ne rappresentano una delle punte dell’iceberg. Sicché occorre parlarne, dal basso, massicciamente, in ogni stagione dell’anno. In modo da far pressione affinché i pubblici poteri si assumano le responsabilità che gli competono e predispongano le misure necessarie per prevenire e affrontare questi fenomeni.

Banalmente, acquistare qualche canadair in più, rafforzare il corpo nazionale dei Vigili del Fuoco (che chiamarli eroi serve a poco. E’ gente che si fa il mazzo per uno stipendio di cazzo), sensibilizzare le comunità locali per presidiare e tutelare le zone di campagna dei propri comuni, attuare progetti di rinverdimento collettivo e dal basso, incentivare forme di gestione delle terre abbandonate da parte di cooperative locali e via discorrendo. Del resto i progetti per tutelare e mettere a frutto le terre e, dunque, prevenire gli incendi si contano a josa, ma spesso vengono cooptati dal capitale, che li fa marcire o ne crea un business.

E difatti è dai comuni che deve partire la pressione. O meglio, in via principale dalle popolazioni locali e dai rispettivi enti esponenziali, per poi – in via sussidiaria – costringere i comuni a prendere posizione. Primo, perché sono gli enti più vicini alle problematiche ed esigenze locali. Secondo perché lo Stato, nelle sue articolazioni istituzionali e politiche, non sempre rappresenta gli interessi pubblici ma (e lo abbiamo visto nella gestione Covid) è più vicino agli interessi di Confindustria e, più in generale del capitale (nelle sue varie sfaccettature lobbystiche), dunque è inutile sperare che sia lo Stato a risolvere la questione. Anzi, sperare è proprio inutile. Bisogna agire. Sul locale.

Detto ciò, andiamo a spulciare le varie casistiche dei roghi e le sue cause. Ringrazio i diversi Vigili del Fuoco con cui mi sono confrontato per tutta l’estate, che mi hanno regalato ottimi spunti per scrivere quest’articolo (e gli altri, il primo e il secondo).

Le cause dei roghi

Possiamo suddividere i roghi boschivi in tre grosse categorie, per poi tentare di smontare la narrazione – diffusa e ridondante nelle cronache riportate nei precedenti articoli – per cui le responsabilità vanno attribuite alla disattenzione (gettare il mozzicone di sigaretta tra la sterpaglia) e alla narrazione del dolo, senza null’altra specificazione (che ricorre spesso nelle cronache e nelle analisi giornalistiche), il quale richiama alla mente il piromane che agisce saltuariamente, senza un motivo specifico o ragioni economicamente apprezzabili.

Ciò al fine di analizzare l’elemento del dolo legato inscindibilmente ad interessi economici e/o di opportunità, in quanto la narrazione del dolo fine a se stesso (il piromane che si diverte ad incendiare le campagne) non convince.

Come non convince anche la continua narrazione per cui la causa degli incendi va attribuita all’incuria, ossia all’abbandono delle campagne. Ciò è logicamente assurdo, in quanto – esclusi fenomeni di autocombustione, decisamente poco probabili – l’incuria semmai è una condizione che favorisce l’insorgere dei roghi, non una causa.

Prima di passare all’analisi, dato che ho notato esserci un po’ di confusione circa il concetto di rogo boschivo, sarebbe opportuno citare l’art. 2 della Legge 353/2000 che così definisce il concetto:

Per incendio boschivo si intende un fuoco con suscettività a espandersi su aree boscate, cespugliate o arborate, comprese eventuali strutture e infrastrutture antropizzate poste all’interno delle predette aree, oppure su terreni coltivati o incolti e pascoli limitrofi a dette aree.

Dunque quando si parla di rogo boschivo ci si riferisce anche ai roghi nelle campagne, nelle aree destinate al pascolo, negli orti (sempre di campagna), negli uliveti e frutteti (“aree arborate”) e nella macchia mediterranea (“aree cespugliate”).

Prima categoria: colpa e accidentalità

In questa categoria rientrano gli incendi controllati che sfuggono di mano, il mozzicone di sigaretta, il fiammifero, il pezzo di vetro e tutte le altre possibili cause di incendi che rientrano nell’alveo della colpa, ovvero dell’accidentalità, inclusi dunque i casi di autocombustione che però, in via causale diretta e indiretta, rientrano comunque nella responsabilità antropica.

I roghi controllati che sfuggono di mano

In particolare la prima casistica è quella relativa al contadino che, bruciando le sterpaglie (quindi controllando i roghi) ne viene sopraffatto, specie nella stagione estiva. Tuttavia, stando alle cronache, questo fenomeno è marginale.

Lo è perché grossa parte dei roghi controllati avviene d’inverno o, al limite, all’appropinquarsi della stagione estiva. Ossia proprio nel periodo limite dettato dai regolamenti comunali in materia di roghi (15 giugno – primi o metà di settembre). Chi frequenta continuamente le campagne sa benissimo che d’estate è molto difficile assistere a roghi controllati, perché grossa parte delle attività di pulizia del fondo (sfalcio erba, bruciatura residui potatuta, arature, erpicature, ecc.) avviene in primavera, per poi preparare la terra per la semina.

Ma anche in caso di frutteti o oliveti o terre non adatte alla semina, questi lavori avvengono comunque prima dell’estate.

Insomma, razionalmente, i roghi controllati estivi non servono ad una cippa. Chi brucia d’estate non lo fa per esigenze agricole, ma solo per altri motivi che vedremo nei prossimi punti.

Il mozzicone di sigaretta e il fiammifero

Le altre casistiche, ossia quelle del mozzicone di sigaretta, fiammifero e, più in generale, la disattenzione, stando alle analisi del VVFF, sono rare e poco credibili. Anche se spesso le cronache locali le mettono in primo piano.

Ciò avviene per due ragioni. La prima è che mediaticamente tira di più. Leggere un bel titolo che parla dell’idiota che butta un mozzicone di sigaretta tra le sterpaglie e provoca un incendio di vaste proporzioni è la classica trovata di click baiting. Poi, però, spesso, leggendo il testo della notizia, ci si accorge che quella del mozzicone è solo un’ipotesi. Del resto, come fai a dire che è stato il mozzicone se è bruciato insieme a tutto il resto? Cioè, santa pazienza, se il mozzicone scatena l’incendio – e quindi è l’epicentro del rogo – è ovvio che sarà il primo a bruciare del tutto.

Quando – e se avviene – si trova un mozzicone mezzo bruciacchiato, è perché si trova nella periferia o nelle immediate vicinanze del rogo, che magari è stato bruciato in parte, ma non è assolutamente detto che quel mozzicone abbia scatenato l’incendio, anzi, se non sta all’epicentro è ovvio che non è stato la causa scatenante. Magari stava lì, per conto suo, gettato da giorni, tutto incatramato e, rinvenuto, gli viene addossata la responsabilità del rogo.

Nei report dei VVFF il mozzicone viene classificato e menzionato come esempio paradigmatico di accidentalità, da qui la seconda ragione. Già, perché il concetto di mozzicone, nelle statistiche dei VVFF, è esemplificativo. Ma il giornalista distratto, incapace o alla ricerca del pezzo da 1000 click, lo legge come unica causa dei roghi.

Spesso, nelle analisi dei VVFF, un rogo viene classificato nella categoria mozziconi e fiammiferi, ma ciò non significa che il rogo sia stato provocato proprio dal mozzicone o, cosa ancora più assurda, dal fiammifero. E’ ovvio che il fiammifero – fatto di legno e un pezzettino di zolfo, brucia del tutto e come fai a dire che è stato proprio il fiammifero?

Quando avviene – raramente – di attribuire la causa proprio al mozzicone o al fiammifero è perché le indagini, suffragate da testimonianze di chi ha generato (involontariamente) il rogo, portano in quella direzione. E non è manco detto che il tizio che dice di essersi scordato la sigaretta accesa, bruciando tutto, dica proprio la verità.

Il pezzo di vetro

I roghi provocati dall’accidentalità, poi, non spiegano gli incendi nelle zone raramente trafficate.

In aperta campagna o nella macchia impervia e difficile da raggiungere dalla mobilità di massa, dove anche nella settimana di ferragosto non passa un’auto, i rischi di incendi accidentali sono estremamente bassi.

Del resto il sensibile decremento dei flussi turistici che ha caratterizzato il 2020 in Puglia (V. qua) è incompatibile con la narrazione per cui all’aumento delle presenze turistiche aumentano i rischi di roghi.

Difatti se così fosse, non si spiega il dato del 2018, anno in cui, stando alle numerose fonti in rete (un esempio qui) v’è stato un vero e proprio boom di presenze turistiche, ma il dato degli interventi sugli incendi è calato sensibilmente rispetto agli anni precedenti. Lo stesso dicasi per il 2001, anno che non riporta particolari notizie di presenze turistiche eccezionali (con un turismo ancora lontano da quello di massa degli anni successivi), eppure il numero degli interventi dei VVFF è insolitamente alto.

Per questo tipo di incendi – in zone impervie e fitte di vegetazione – la fantasia giornalistica e di determinate classi sociali, volutamente acritica o incompetente, ha generato una causa che chiamare favolistica sarebbe poco: i cocci di vetro. Secondo questa teoria l’abbandono di rifiuti nelle campagne (fenomeno deprecabile e, nel Sud, molto diffuso), tra cui bottiglie di vetro, provoca un effetto detonatore: il vetro, difatti, attira i raggi solari e, generando maggior calore in una zona circoscritta, provoca il rogo.

Ora, si dovrebbero verificare tutta una serie di coincidenze perché ciò avvenga: i cocci di vetro dovrebbero trovarsi a diretto contatto con il sole, in mezzo ad alta e folta sterpaglia secca (sennò cosa accendono? E se stanno tra la sterpaglia come fanno ad entrare a diretto contatto con il sole?), in direzione precisa affinché fungano da innesco. Chiaramente un vetro oscurato non genera incendi. Come nel caso del vetro di birre. Ossia quello che, gettato via da imbecilli, popola massicciamente le campagne.

Chiaramente, nel momento in cui si chiede agli assertori di questa teoria come fanno i cocci di vetro a fungere da innesco all’ombra, in mezzo ad una fitta vegetazione verde, tipica della macchia mediterranea, le risposte divengono evasive se non scostanti. Difatti questa teoria non regge, anzi, prova il contrario: che spesso chi provoca gli incendi sceglie volutamente zone in cui vi sono cumuli di immondizia, per favorire una maggiore durata dell’incendio. Cosa non difficile dalle nostre parti, visto che ogni campagna abbandonata diventa – in più o meno tempo, più o meno consistenza – una discarica a cielo aperto.

Le plastiche, che compongono una grossa fetta dei rifiuti gettati nelle campagne, bruciano più lentamente e mantengono il fuoco vivo. Lo stesso dicasi dei contenitori misto plastica-carta, che bruciano in modo veloce e intenso. E’ ovvio che, nei cumuli di immondizia, anche il vetro non manca mai.

Seconda categoria: il dolo fine a se stesso ed interessi economicamente irrilevanti

Qui rientrano i casi del piromane che si diverte ad incendiare, ovvero quelli dei contadini che vogliono vedere le campagne pulite. Dunque il punto comune è la piromania e l’assenza di interessi economici, anche indiretti.

In entrambi i casi – piromania fine a se stessa oppure ossessione per la pulizia con il fuoco – siamo davanti ad un disturbo di natura psichica oppure della personalità.

Secondo Wikipedia

La piromania, dal greco πῦρ (pyr, fuoco) e μανία (mania), è un’intensa ossessione verso il fuoco, le fiamme, gli esplosivi in genere e gli effetti a ciò correlati, che spesso si attua con l’accensione intenzionale di incendi. Un piromane in senso clinico non ha generalmente altri sintomi esclusa la fissazione per il fuoco, che è la causa del suo comportamento: il fuoco viene utilizzato solo per indurre euforia, e coloro che sono affetti da questa sindrome hanno spesso dei legami con istituzioni che controllano il fuoco stesso. A partire dal 1850, si sono fatte svariate supposizioni sulle cause della piromania: se la condizione di piromane nascesse da una malattia mentale più che da una scarsa moralità/devianza sono ipotesi che sono state modificate a seconda degli sviluppi della psichiatria e della cura delle malattie mentali in genere.

Nonostante questa sia la tesi preferita da diversi giornalisti, nonché quella più diffusa nel sentire comune, credo sia difficile che un piromane metta a rischio la sua persona per divertimento o per un’insana voglia di non vedere l’erba alta.

E’ vero che si tratta di una fissa, quindi alcuna spiegazione razionale farebbe desistere il piromane dal dare sfogo alla sua ossessione. Ma questa tesi – seppur vera in casi molto marginali – non spiega quella che nei precedenti articoli ho definito la scientificità dei roghi: in particolare la caratteristica della diffusione geografica dei roghi in ampie zone, con concentrazione in specifiche aree.

Se così fosse, questo fenomeno dovrebbe essere spiegato con un’insana quanto fantasiosa diffusione di piromani solitari lungo tutta la Provincia, cosa che caratterizzerebbe la composizione sociale salentina dalla presenza – costante – di soggetti affetti da disturbi psichici o della personalità, aspetto che però non emerge né da studi scientifico-sociali né dalle statistiche dell’ASL.

Del resto è difficile immaginare che ogni paese del Salento abbia uno o più piromani solitari, con detti disturbi. Quindi, ribadisco, anche se in qualche caso è stato pizzicato un piromane con queste caratteristiche, rappresenta comunque l’eccezione che conferma la regola. E qual è la regola? O meglio, qual è la teoria più credibile in tema di roghi boschivi?

Terza categoria: l’interesse economicamente apprezzabile

Qui rientrano diversissimi casi. Vediamoli.

  • il proprietario che brucia le sterpaglie per risparmiare i soldi delle arature o dello sfalcio meccanico. Fenomeno deprecabile, certo, ma che non spiega totalmente il preoccupante aumento dei roghi nel 2020 e, in particolare, 2021. Dato che questa prassi dovrebbe essere costante nel tempo e, dunque, ripetibile ogni anno. Inoltre questo spiega i roghi nel proprio fondo agricolo, non in quelli altrui;
  • i roghi appiccati dai pastori che, secondo alcuni, hanno interesse a bruciare la sterpaglia in modo che, entro poco tempo, l’erba ricresca florida e rigogliosa e ottenere dunque materia prima per il pascolo. Anche in questo caso il fenomeno dei roghi boschivi dovrebbe mantenersi stabile nel tempo, visto che questa prassi è ripetibile ogni anno;
  • i roghi appiccati dagli stessi VVFF, assunti in modo precario, oppure – addirittura – dalle società private che gestiscono i canadair. Se nel primo caso è possibile che ciò sia avvenuto, in modo isolato, nel secondo caso è assodato che si tratta di una bufala. Anche perché – in un caso e nell’altro – si tratta di fenomeni vecchi. Sia il precariato che la privatizzazione di servizi essenziali – politiche da criticare aspramente – non spiegano comunque la drammaticità dei roghi nel 2021 e nemmeno la loro diffusione così capillare in diverse regioni, oltre che in diversi paesi del Mediterraneo. Tra l’altro un fenomeno di sistema, quali sono i roghi capillari, dovrebbe corrispondere ad una struttura di sistema in grado di appiccarli quotidianamente, simultaneamente e in più zone. Ciò condurrebbe all’assurda conclusione che tutti i precari siano piromani o che tutte le società che si occupano della gestione dei canadair siano criminali. Conclusione di certo mediaticamente piacevole, ma realisticamente poco plausibile.

Gli interessi realisticamente più plausibili che si celano dietro i roghi scientifici

Ora arriviamo al punto che più interessa quest’analisi. Quali sono le cause che – più realisticamente – si nascondono dietro i roghi scientifici? Possiamo suddividerli, per comodità, in due grosse categorie: i roghi dovuti ad interessi economici indiretti; quelli dovuti ad interessi economici diretti.

Gli interessi economici indiretti

Rientrano nella prima categoria i casi di chi brucia le proprie campagne e quelle altrui per lanciare un segnale alle istituzioni e sbloccare i bandi legati ad attività agricole. Lo abbiamo visto nel precedente articolo, analizzando in particolare il caso pugliese, in cui i roghi sono associabili ai finanziamenti per espianti e reimpianti. Lo abbiamo scorto nelle parole del Presidente Emiliano, che, ad un certo punto, esasperato dall’aumento consistente degli incendi, ha ammonito chi di dovere a smetterla, perché i soldi ci sono. E difatti i finanziamenti regionali sono stati decuplicati e sono in corso trattative per raddoppiare, se non triplicare, i finanziamenti statali.

Questo fenomeno, in altre regioni, come in altre nazioni, può assumere contorni diversi, ma la struttura di fondo resta uguale: roghi come segnale per far cacciare i soldi pubblici.

Rientra nella prima categoria anche il fenomeno dei roghi protomafiosi. Questa categoria si sviscera in diverse sotto categorie: il rogo doloso volto a convincere il proprietario che vuole vendere a farlo a costi più bassi; quello che non è diretto ad uno specifico proprietario, ma serve a convincere a vendere chi, invece, non vuole. Poi c’è quello che – genericamente – serve a squilibrare i valori di mercato delle terre. Perché un frutteto vale, nella mia zona, 15 mila euro ad ettaro. Ma prova a mettergli fuoco e ne varrà la metà. Se non meno.

Un uliveto, invece, con alberi ormai secchi, vale si e no 10 mila euro ad ettaro. In alcune zone anche 5 mila. Ora, con alberi secchi e, per giunta, bruciati (spesso singolarmente), il piccolo e ormai sfiduciato proprietario è propenso a toglierselo davanti.

Se bruci un terreno pubblico convinci l’ente che lo gestisce ad abbandonarlo e provochi quella che la giurisprudenza chiama sdemanializzazione di fatto, o tacita, del patrimonio disponibile. E le ultime pronunce della Cassazione vanno in questa direzione. Difatti, da quando il demanio pubblico è stato regionalizzato (con la riforma del titolo V del 2001) e numerose competenze sono passate ai comuni, sono avvenute numerosissime forme di speculazione sui terreni. Un’analisi del fenomeno è contenuta qui.

Ristrutturazione capitalistica e land grabbing

Lasciando per un momento la questione dei roghi nel Salento e guardando il fenomeno da un punto di vista più ampio, noteremo che in tutto il globo, specie nelle zone del Sud del mondo, vi è in corso una corsa all’accaparramento delle terre, da parte di numerose società private occidentali, inclusa l’Italia.

Questo perché il nuovo corso preso dal capitalismo è quello di assecondare le istanze provenienti dal basso, che spingono per il rispetto dell’ambiente, le riduzioni delle emissioni, la gestione dei cambiamenti climatici, ma degradandole e svuotandole di contenuto. Ovverosia senza abbandonare il paradigma che ha provocato proprio tutti i disastri ambientali e ha generato i mutamenti climatici: il modo di produzione capitalistico.

Dunque interesse del capitale è di accumulare terre, per portare avanti diversi progetti, che si possono ricondurre nell’alveo della bioeconomia e della transizione energetica. Il tutto verniciato di green, termine sempre più in voga, ma che nasconde gli stessi identici processi che caratterizzano il capitalismo: accumulazione di capitale e sfruttamento di risorse naturali ed esseri umani. La grande differenza rispetto al passato è che oggi la risorsa primaria per questa nuova forma di capitalismo è la terra, che fino a ieri apparteneva alle comunità locali.

Per citare un esempio di land grabbing di casa nostra, come scrive Francesco Santoianni

la Benetton già possiede 900.000 ettari di terre in Argentina per allevarci pecore e montoni. I Mapuche che vivevano lì e che si erano ribellati, nel 2016, sono stati spazzati via; nel 2018 il loro leader, Santiago Maldonado, venne trovato ucciso. L’Oxfam calcola che l’accaparramento di terre nei paesi del Terzo Mondo da parte di multinazionali (che già possiedono 88 milioni di ettari di terra fertile) continua a crescere, gettando nella fame milioni di contadini e pastori costretti così ad andarsene. I capitalisti italiani fanno la loro parte: nei dintorni di Timisoara in Romania, ad esempio, quasi 150 mila ettari di terre è ora nelle loro mani.

E’ ormai risaputo che la foresta amazzonica si sta velocemente riducendo. Come riportato qui, nel 2017, il presidente Temer – che si ricorda per il coinvolgimento del governo nell’immane scandalo di  Carne Fraca – ha concesso un condono tombale alle rapine di foresta amazzonica. Ogni sedicente occupatore ha potuto così acquistare fino a 2.500 ettari di terre, a costi ridotti del 90% rispetto a quotazioni già inferiori ai valori di mercato. Per poi cederli ai grandi possidenti, coltivatori e allevatori di bestiame. I quali in cambio, con le loro  lobby, hanno indotto il Congresso a risparmiare Temer – allora sotto inchiesta per corruzione – dal doveroso  impeachment.

Jair Bolsonaro, presidente del Brasile dal 2019, ha stimolato l’accelerazione del disastro. In pochi mesi, secondo stime prudenziali, sono stati devastati almeno 133 mila ettari di foresta (+39% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente). Pari al 44% della superficie dell’Italia (301 mila ha), poco più dell’intera Grecia. Per liberare rapidamente spazio alle coltivazioni intensive – soia OGM, olio di palma e mais geneticamente modificato – prima che la comunità internazionale possa reagire.

Ora, sarebbe da sciocchi pensare che questi fenomeni non coinvolgano anche il Sud dell’Occidente (Grecia, Spagna, sud Italia, ecc.), dove ci sono tutta una serie di condizioni sociali, politiche e ambientali che favoriscono il land grabbing.

Giusto per fare un esempio locale, in Puglia e nel Salento in particolare è in corso il progetto di accorpamento fondiario, uno dei capisaldi del Piano di rigenerazione olivicola, volto ad accentrare la gestione delle terre nelle mani di chi possiede i capitali.

Non va dunque commesso l’errore di pensare che le multinazionali sporche e cattive siano le uniche responsabili di tutto ciò. E’ evidente che il modo di produzione capitalistico favorisca grandi gruppi, ma gli interessi sono diversificati e spesso coinvolgono aziende del territorio che in apparenza sembrano lontane da queste logiche. Tra poco vedremo l’interesse vitivinicolo, ma in linea generale tutte le realtà imprenditoriali che operano in regime capitalistico, ossia con l’obiettivo di massimizzare i profitti e ridurre i costi, hanno tutto l’interesse ad ottenere terre a bassissimo costo, ad ogni costo. Leggasi: anche attraverso l’illegalità.

Visto che il fenomeno di land grabbing è relativamente nuovo e visto che è ancora più nuovo il gigantesco progetto europeo di bioeconomia, volto a trasformare la produzione industriale passando da fonti fossili a fonti naturali, è chiaro che la corsa ad accaparrarsi le terre, specie in zone dove il conflitto sociale latita e la politica è sonnecchiante, passa anche attraverso i roghi e il conseguente deprezzamento delle terre.

L’interesse per le rinnovabili

Con quest’ottica va vista anche la corsa ad accaparrarsi le terre per progetti di eolico, fotovoltaico e per il nuovo fenomeno dell’agro-fotovoltaico, che consiste in un uso ibrido delle terre, in parte destinate alla produzione e in parte alla generazione di energia elettrica. Ci mettono il prefisso agro- per spacciarlo per un qualcosa di green, di ecosostenibile, di rispettoso dell’ambiente. Ma non ci vedo nulla di rispettoso nel piazzare pannelli fotovoltaici che sottraggono terra e sulla cui terra ci irrorano continuamente veleni per evitare che l’erba interferisca con l’impianto. Dopo lo smontaggio quella terra diventa deserto. Cosa c’è di ecosostenibile?

Dato che le terre su cui dovranno sorgere questi impianti sono spesso di proprietà di piccoli proprietari, spesso riottosi e non inclini a vendere, è chiaro che un bel rogo è un’arma di persuasione, che produce anche l’effetto di deprezzare il terreno e rendere più economica tutta l’operazione. Chi ha voglia di approfondire la questione dell’eolico, che tutto è tranne che green, può leggere quest’articolo.

L’interesse vitivinicolo

Il Covid-19 ha rallentato le economie del globo e, in Italia, sono in tanti che hanno sofferto le conseguenze della disastrosa gestione governativa, tanto che hanno faticato a riprendersi. Ma ci sono diversi settori che, invece, ne hanno beneficiato oppure non hanno sofferto crisi. Uno tra questi è il settore vitivinicolo. Il quale, sappiamo, è caratterizzato da dimensioni aziendali sempre più grosse, volte all’internazionalizzazione e ad una domanda, interna ed estera, in continua crescita.

Leggendo un recente articolo del Corriere della sera, si scopre, per esempio, che

Da notare la grande estensione di vigneti di proprietà dei viticoltori-soci della cooperativa. Il gruppo Caviro, da solo, dispone di 36.272 ettari in produzione, quasi un quinto delle vigne dell’intero campione. La Marca vini e spumanti ha dalla sua 15 mila ettari, 2 mila in più rispetto allo scorso anno, al gruppo Ermes fanno capo 10.453 ettari. Mentre Colomba bianca ne conta 7 mila ettari, Terre Cevico 6.920, Cantina di Soave, Vivo, Cavit, Collis Veneto wine group oltre 6 mila ettari ciascuno.

Anche in questo caso il fenomeno è nuovo. L’aumento dimensionale delle aziende vitivinicole è fenomeno piuttosto recente. La corsa ad accaparrarsi terre da trasformare in vigneti è pure roba recente. Basta farsi un giro tra le terre dell’Arneo, nel medio Salento, per vedere che dove un tempo c’erano uliveti, frutteti e terre destinate alla semina, oggi fioriscono vigneti che si perdono a vista d’occhio, con impianti ultra moderni che tutto lasciano presupporre tranne che si tratti impianti di piccoli produttori.

E’ plausibile che la corsa ad ottenere terre, da parte di queste realtà, passi anche dalle cattive. E non è da escludersi che tra le cattive vi sia anche uno smodato uso del fuoco, secondo i criteri appena visti: si convince più facilmente e si riducono i costi.

L’interesse edilizio

Infine, un evergreen è sempre l’interesse edilizio. Bruciare per poi costruire fa guadagnare tempo e soldi. Qualcuno dirà che non si può costruire per almeno 15 anni in zone percorse dal fuoco, come prescrive la Legge 353/2000. Già, tuttavia quella stessa legge demanda ai comuni l’obbligo di predisporre dei catasti, da aggiornarsi annualmente, delle aree percorse dal fuoco. Requisito essenziale per l’applicazione del vincolo di inedificabilità. E indovinate quanti comuni, in Provincia di Lecce (e sicuramente in tanti comuni del Sud) hanno il registro? E se ce l’hanno, quanti sono aggiornati? Date un’occhiata qui. La domanda è retorica.

Questo vulnus apre le porte alle speculazioni più varie. E’ sufficiente sapere che quel dato comune non ha il catasto o non ce l’ha aggiornato, per accanirsi con roghi boschivi estivi, tanto la colpa sarà data al piromane, al proprietario che non sfalcia, al caldo o ai cocci di vetro. E si costruisce più in fretta, senza il fastidio e l’alto costo di dover abbattere alberi, stoccare la legna, eliminare gli arbusti, ecc. ecc.

Le due C, Capitalismo e Criminalità

Invito a leggere questa analisi, intitolata, appunto, il capitalismo è criminalità organizzata, che spiega in modo chiaro le dinamiche criminali alla base del sistema capitalistico. Dunque non c’è da stupirsi quando si scopre, per esempio, che numerose aziende si servono di ‘ndrangheta, camorra, mafia foggiana, eccetera eccetera per smaltire i rifiuti pericolosi. Come non c’è da meravigliarsi quando si viene a sapere, per dirne una, che un’azienda agricola nel senese, confiscata alla mafia, finisce incendiata.

E’ qui che ti voglio! Avrebbe detto mio nonno, giungendo al bandolo della matassa. Se il sistema capitalistico, di base, è sistema criminale, perché per giungere al miglior rapporto costi/benefici non guarda certo il capello del rispetto delle norme (figurati delle persone o dell’ambiente), non è difficile immaginare lo stretto rapporto tra capitalismo (e aziende in odor di modo di produzione capitalistico) e criminalità organizzata, ossia il braccio armato del capitalismo nei territori. Una criminalità che, in determinate zone – specie al Sud – è talmente diffusa in modo capillare che è sufficiente un unico ordine, dal capo, affinché in un solo giorno scoppino diversi e vasti incendi.

Questo sì che spiega il fenomeno dei roghi scientifici e, visti gli interessi in ballo analizzati poc’anzi (transizione energetica, interesse vitivinicolo, bioeconomia) spiega pure l’aumento recente dei roghi e, ahimè, se non daremo una risposta collettiva e dal basso, spiegherà anche l’aumento dei roghi la prossima estate e quelle successive. Fintantoché le terre resteranno nelle mani della collettività e non di pochi e grossi criminali.

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