Sydney Sibilia, finalmente un grande regista in Italia

Erano anni che non mi divertivo così a vedere un film. Anzi, per fortuna una trilogia. E poi, qualche tempo dopo, un altro film. Bello. Un altro di quelli che ti tengono incollato allo schermo. Il riferimento è alla trilogia di Smetto quando voglio e all’incredibile storia dell’isola delle Rose. Tutti diretti da Sydney Sibilia. I primi tre scritti insieme a Valerio Attanasio, con cui il giovane Sibilia (mio coetaneo) ha iniziato la carriera nel mondo del cinema con il corto Oggi gira così.

Erano anni, insomma, che il cinema italiano non mi regalava qualche emozione, raccontando storie reali o realistiche, con pathos, azione, comicità, leggerezza e profondità, tutte caratteristiche sapientemente mischiate ad interpretazioni di attori di altissimo livello e grande coinvolgimento.

Oramai mi ero rassegnato. Da che ricordi, l’unico film che raccontava storie del nostro tempo con leggerezza e profondità fu Nati stanchi, del duo comico Ficarra e Picone. Dopo quell’esordio – costato pochissimo e girato in modo quasi amatoriale – il duo si cimentò in altre produzioni, ma mai all’altezza di Nati stanchi. Ad eccezione de l’Ora legale, ottimo film sulle contraddizioni sociali del vento del cambiamento politico, che fa sorridere, lasciando al contempo l’amaro in bocca.

A parte queste eccezioni, il cinema italiano, in particolare la commedia, nell’ultimo ventennio, è stato dominato dal degrado dei cinepanettoni, dalla banalità delle commediuole pieraccioniane, dal moralismo dei vari manuali d’amore, dalla noia pruriginosa dei Muccino e dal nichilismo di (quasi) tutto il resto.

Se vogliamo trovare delle eccezioni, dobbiamo scavare nelle produzioni di Domenico Procacci, unico produttore capace di scegliere attentamente le buone idee e trasformarle in un cinema degno d’essere visto e ricordato (a parte qualche epic fail).

Ma stiamo parlando di meno di 50 film (su quasi 3000 film prodotti in Italia dal 2000 ad oggi), di cui solo poche commedie. E comunque parliamo di un produttore che, pur se capace e brillante, deve scendere ogni tanto a compromessi nella dura relazione tra godibilità, messaggio che si vuole trasmettere e vendibilità del prodotto cinematografico, anche se privo di valore estetico e culturale.

Chi è Sydney Sibilia

Nato il 19 novembre del 1981, Sydney Sibilia è originario di Salerno, dove cresce con la passione per il mondo del cinema tanto da iniziare i suoi primi cortometraggi già dal liceo.

Nel 2007 si trasferisce a Roma, dove inizia a girare alcuni spot per diverse campagne pubblicitarie, ma un barlume di celebrità arriva con il cortometraggio Oggi gira così (2010) scritto insieme a Valerio Attanasio e prodotto da Ascent Film, che ottiene numerosi riconoscimenti, tra cui il premio SIAE come miglior sceneggiatura.

Insieme ad Attanasio scrive, nel 2014, Smetto quando voglio, in cui si cimenta nella regia. Il film, prodotto da Procacci, lo consacra alla notorietà e gli regala diversi riconoscimenti sia in Italia che all’estero.

Nel frattempo continua la sua attività di regista di spot pubblicitari e fonda insieme a Matteo Rovere la casa di produzione Groenlandia.

Il 2 febbraio 2017 esce la seconda parte, Smetto quando voglio – Masterclass, prodotto da Groenlandia, Fandango e Rai Cinema. il 30 novembre 2017 esce l’ultimo capitolo, Smetto quando voglio – Ad honorem. Infine, nel 2020, esce l’Incredibile storia dell’Isola delle Rose.

Smetto quando voglio

Il film racconta, come quasi tutti sappiamo, le vicissitudini di un gruppo di brillanti ricercatori universitari, ma precari. Uno di loro, Pietro Zinni (interpretato ottimamente da Edoardo Leo), neurobiologo, viene cacciato dall’Università perché il suo professore gli preferisce un altro, meno capace, ma più ammanicato.

L’unico lavoro rimasto è quello di fare delle ripetizioni pomeridiane a un gruppetto di ragazzini viziati e annoiati, che però non lo pagano. Uno di questi gli darà lo spunto per intraprendere una carriera del tutto nuova: quello di spacciatore di smart drugs. Ossia droghe legali, che non sono ancora state inserite nell’elenco delle sostanze illegali del Ministero della Sanità.

Un vuoto normativo in cui Zinni s’insinua, con l’obiettivo di produrre la migliore droga legale sul mercato. Per fare ciò ha bisogno di altri colleghi, come lui, o perennemente precari oppure cacciati dall’Università, nonostante le notevoli doti scientifiche.

Tra quest’ultimi v’è Alberto Petrelli (Stefano Fresi), uno dei chimici computazionali migliori d’Italia. Ma costretto a fare il lavapiatti in un ristorante cinese. Pietro lo convince e, nottetempo, s’intrufolano nei laboratori della Sapienza per produrre una sostanza che, insieme, avevano precedentemente teorizzato.

Coinvolgono, nell’improvvisato e comico sodalizio criminale, due latinisti di fama mondiale, che fanno i benzinai di notte per un cingalese. Un antropologo, che nasconde di essere laureato per essere assunto da uno sfasciacarrozze. Un economista che, per amore e interesse, è costretto a convivere in un difficile rapporto con la comunità Rom. Infine un archeologo, da più di un decennio precario e malpagato, costretto a vivere ancora con mamma e papà.

La storia si evolverà, con un ritmo sempre crescente e numerosi colpi di scena, fino all’epilogo, in cui Zinni si costituisce e viene a sapere che l’antagonista, un boss mafioso è, in realtà, un suo collega universitario, anch’esso cacciato via (la sua storia si evolverà nel secondo e terzo capitolo).

I temi di Smetto quando voglio

Il film mette in evidenza numerosi temi sociali. Cosa ormai assente nel cinema egemone degli ultimi decenni. E già qui sta la capacità critica e di lettura della realtà di Sydney Sibilia.

A partire dal precariato e dal nepotismo universitario, che mette ai margini i capaci e brillanti per favorire gli ammanicati. Poi, in modo grottesco ma sempre realista, la capacità dei giovani di adattarsi ad ogni contesto, pur di lavorare. Anche se si tratta di nascondere, con vergogna, la propria laurea, oppure fare lavori umili che poco c’entrano con l’altissima professionalità raggiunta.

Professionalità impossibili da spendere in un contesto sociale dominato dal mercato. E qui sta la critica allo stacco netto tra Università e struttura economica. La prima autoreferenziale, dominata da dinosauri e borghesi annoiati (che spesso si spacciano per rivoluzionari), la seconda utilitarista e capace di premiare solo la competizione individuale, anche se agisce ai margini della legalità (o, indifferentemente, nella piena illegalità). Prova è il fatto che i ricercatori accedono al jet set solo dopo essere diventati dei noti e ricchi spacciatori.

Anzi, i ricercatori dimostrano come, agendo in gruppo e unendo le diverse forze e competenze individuali, riescono a scalare le vette sociali con rapidità e restando nell’ombra. Da qui una sottile critica all’individualismo.

Con la camaleontica capacità di adattamento, di analisi delle contraddizioni attuali e con l’agire collettivo, i giovani ricercatori dunque sfruttano il mercato per sopravvivere e adattare le proprie competenze in un settore profittevole, dominato dal vuoto normativo. Un’altra critica è all’edonismo e allo scollamento dalla realtà. Difatti solo dopo che i ricercatori si saranno montati la testa, arriverà il declino.

Ovviamente, la questione delle smart drugs è centrale. A causa dell’incapacità politica di regolamentarle, permette alle mafie di proliferare. Ancora, una sottile critica si coglie nel rapporto tra classi sociali. I più giovani, figli di alti borghesi, che hanno accesso ai vizi e divertimenti facili, mentre i capaci – privi di mezzi – fanno lavori umili. I baroni universitari, i politici e i grossi imprenditori che partecipano a festini pieni di droghe e prostitute. Tutti temi che traspaiono da una sceneggiatura e una regia intelligente, critica, sagace e cosciente.

Piccola curiosità

Nella prima versione del film Smetto quando voglio, verso la fine, quando Petrelli viene interrogato dal Commissario, si sente una voce maschile di sfondo, ma senza inquadratura. La domanda è: agente, chi fa le segnalazioni al Ministero delle smart drugs?

Le facciamo noi da questo ufficio, risponde la voce maschile.

In Smetto quando voglio – Masterclass, quella voce, poi, appartiene all’agente Paola Colletti, interpretata da Greta Scarano, compagna di Sydney Sibilia. Si sono appunto conosciuti sul set e stanno insieme dal 2019. Ora, a parte la vita privata dei due (di cui poco ci importa), la curiosità è che nella seconda versione del primo film l’agente uomo è stato sostituito da una donna. Ottima scelta dal punto di vista della trama, ma ciò ha comportato una successiva, piccola, modifica al primo film, che forse è passata inosservata, in modo da sostituire la voce maschile con quella femminile.

Ciò lascia presupporre o che ancora non c’era un’idea di proseguire il film (e meno male che non è andata così), oppure che ancora non era chiaro come proseguirlo.

Smetto quando voglio, Masterclass e ad honorem

I successivi capitoli della trilogia sono avvincenti quanto il primo. Non vi faccio perdere tempo a leggere il commento. Mi limito solo a riportare una breve considerazione.

Non è mai facile proseguire un film. Il rischio è di diventare banali, ripetitivi e noiosi. Trilogie ben riuscite fanno parte a buon diritto della storia del cinema. Le altre? Man mano si perdono nell’oblio. Penso alla trilogia del dollaro, a Indiana Jones, a Matrix, al Padrino (che, seppur il terzo sia stato fortemente criticato, è invece ben strutturato). Trilogie che reggono il passare del tempo perché diventano icone del loro.

Ecco, la trilogia di Smetto quando voglio è paragonabile a quelle citate. E’ una prosecuzione ottimamente strutturata, in cui vengono introdotti nuovi personaggi che s’amalgamano a quelli principali. La storia si evolve e cresce, per giungere poi in modo coerente ad un epilogo. E’ una storia iconica del nostro tempo, chiara, coerente, razionale, i cui riferimenti culturali reggeranno il passare del tempo e porteranno la trilogia ad essere apprezzata, anche nel futuro remoto.

Il lavoro di Sydney Sibilia è stato a dir poco paragonabile a quello di Leone, per restare in Italia. Oppure a quello di Tarantino, per andare oltre oceano. La capacità di proseguire la storia, di costruire i personaggi, di mantenere sempre una visione d’insieme, di raccontare storie parallele e sotto storie senza mai confondere o annoiare, oltre che leggere la realtà e criticarla senza diventare paternalista è una capacità dei migliori registi della storia del cinema. E Sibilia, stando a quanto finora prodotto, è tra questi. Sono convinto che, vista la stoffa, sarà capace di stupirci e regalarci altre perle di buon cinema nostrano.

Intervistato, Sibilia ha spiegato un po’ da dove nasce questa sua capacità.

Io vedo, leggo e gioco un sacco, vado spesso in giro, anche per cercare di captare. Perché se non vivi non puoi raccontare. In base alle cose che faccio e alle esperienze che vivo, in qualche modo poi costruisco le storie per i miei film.

L’isola delle rose

Il 9 dicembre 2020 Netflix distribuisce il suo nuovo film L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, ispirato alla storia dell’Isola delle Rose.

Per farla breve, racconta l’esperimento dell’ing. Giorgio Rosa (scomparso nel 2017) che, nel 1967, costruendo una piattaforma al largo di Rimini, in acque libere, voleva costituire uno Stato sovrano. L’esperimento durò poco, ma si fece conoscere nel mondo e mise in imbarazzo la comunità internazionale, dato che – formalmente – la sua doveva essere considerata una micronazione. Ciò mise a nudo la debolezza delle norme convenzionali e costrinse lo Stato italiano ad agire in violazione delle norme internazionali, mettendo in atto un blocco navale per sgomberare l’isola e mettere fine a quell’esperienza.

Molti particolari contenuti nel film sono ben diversi dalla vera storia, ma – come detto da un marinaio che, all’epoca si occupava di portare la gente sulla piattaforma – lo spirito del tempo è stato ben riprodotto nel film.

In un’altra intervista, Sydney Sibilia ha raccontato l’origine di questo suo nuovo, ottimo, film. E’ nato curiosando su Wikipedia, dove ha scoperto la storia e poi si è evoluto parlando di persona con l’inventore dell’Isola delle Rose, Giorgio Rosa.

Ho parlato con Giorgio Rosa nella sua casa di Bologna tre o quattro anni fa. È stato un incontro stupendo. A 92 anni, da bravo ingegnere aveva ancora le penne nel taschino della camicia. C’erano delle cose che mi interessava capire prima di decidere se fare il film. Su tutte perché decise di realizzarla e cosa c’era dietro a quell’isola. Molte cose che ci sono nel film, come la tempesta, vengono dai suoi racconti. Alla fine gli ho chiesto se gli avrebbe fatto piacere un film su di lui e la sua storia. Mi ha risposto: “No”. Ecco, dietro quella negazione c’è il perché ho deciso di fare questo film.

Da grande regista qual è, Sydney Sibilia non ha scelto la via facile. Quella, per esempio, di proseguire a raccontare storie sulla base dei vecchi successi. Non ha fatto, insomma, l’operazione che fanno i fautori dei cinepanettoni: il modello funziona? Ripresentiamolo fino allo sfinimento. Nossignore. E’ andato oltre, ha raccontato un’altra storia, lontana nel tempo e che nessuno, finora, aveva mai raccontato. Ha usato altri canoni, altre lenti interpretative.

Lo spirito con cui l’ha fatto è lo stesso di Smetto quando voglio. Solo cambia tutto. Anche i personaggi. E anche qua sta l’intraprendenza di un regista che sa il fatto suo. Non ha scelto il cast collaudato. Lo ha cambiato. Certo, si è servito di un Elio Germano che, in quanto a bravura cinematografica, se la gioca con i grandi del cinema. Ma per il resto ha scelto un cast nuovo, fresco, che ben s’è immedesimato in ruoli difficili. Qualcuno dice che ha accentuato troppo i caratteri romagnoli e ha falsato qua e là. Ma il risultato complessivo è un lavoro degno del grande cinema italiano. Quello che, da un ventennio ad oggi, ci eravamo scordati.

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