Carmelo Bene, medium e soggetto liberato

Il 16 marzo 2002 ci lasciava Carmelo Bene. Oddio, se fosse ancora qua direbbe che non può lasciare chi non c’è mai stato.

Quella del non-essere, del non-esserci, per Carmelo non era solo una provocazione, era una consapevole critica alla mediocrità borghese. Quella, insomma, che lo circondava, volente o nolente, che lo criticava, tentava di inscatolarlo, lo accusava, magari, di speculare sugli spettacoli teatrali, specie durante il periodo della sua massima fama.

Altri, alla fine della sua carriera, lo criticavano per essersi svenduto al mezzo televisivo, che lui stesso ha detestato per tutta la sua vita. Del resto la stessa operazione è stata fatta con Alda Merini, Pier Paolo Pasolini e, in generale, con tutti gli intellettuali che i benpensanti, i borghesi e gli addetti ai lavori riuscivano con fatica ad etichettare e controllare, e perciò usavano l’arma del fango. L’arma degli incapaci, strumentali al potere, insomma. Con Carmelo, però, ci sono riusciti poco, e male.

Etichettare e controllare

La società moderna, secondo Foucault, si fonda su un insieme di organizzazioni, basate su delle strutture, che tendono ad oggettivizzare il soggetto. Non è una questione di volontà o di finalità legate a chissà quali complotti. Affatto, è questione di esigenze di disciplinare e gestire le organizzazioni sociali. Che sia lo Stato, la Chiesa, un ospedale, una prigione, una scuola, una fondazione, un’impresa, l’insieme di regole di comportamento, gli automatismi, le previsioni, le sanzioni, le convenzioni, i comportamenti accettati dalla maggioranza, l’additare il diverso (e quindi escluderlo o educarlo all’accettazione delle regole), sono tutti aspetti che oggettivizzano e generano più o meno evidenti forme di alienazione.

Non ci sarebbe nulla di male, in astratto, se non fosse che queste regole non sempre nascono e si sviluppano secondo ragione. Non sempre sono finalizzate alla soddisfazione di bisogni comuni. Insomma, non è detto che rispondano alla logica del bene comune. Questo avviene quando due o più forze sociali si contrappongono e, dalla contesa, si genera l’equilibrio. Non voglio dilungarmi oltre su questo argomento, ne ho già parlato più diffusamente in altri articoli.

Dunque le regole sociali spesso rispondono alla concretizzazione di un’ideologia. Nel nostro caso, nella nostra epoca storica, a quella borghese. L’ideologia borghese, cioè di quella classe sociale che detiene i mezzi di produzione e dunque controlla o influenza le sovrastrutture (istituzioni, politica, media, ecc.), tende, per varie ragioni, ad oggettivizzare, controllare e influenzare, anche pesantemente, i comportamenti sociali, di massa.

Tende, così, ad escludere il diverso, a castrare la soggettività.

Il soggetto liberato

Carmelo Bene, probabilmente influenzato dal pensiero di Foucault (e non solo), libera il soggetto, dà valore alla follia, alla potenza creativa che si sprigiona solo quando ci si libera dalle catene dell’oppressione d’una società che tende al controllo, alla catalogazione, alla reclusione pur senza mura e sbarre.

Per fare ciò, però, ha bisogno di un rapporto diretto con il suo pubblico. Gli spettacoli di Bene sono un tutt’uno tra un soggetto (l’attore) ed altri soggetti (il pubblico). Non è un rapporto tra uno e massa. Cioè tra soggetto e un corpo informe, funzionale solo a pagare un biglietto e assistere passivamente.

Ciò avviene negli spettacoli tradizionali, quelli da cui Carmelo rifugge (ed è questo uno dei punti che la critica non ha mai capito di lui, manco oggi).

Carmelo reinventa il modo di fare teatro. Elimina la figura dell’attore interprete, che come un pappagallo ripete cose dette e scritte da altri, e lo fonde nel complesso teatrale. Fonde, insomma, il testo e il linguaggio scenico, impedendo, dunque, la reinterpretazione. Ogni spettacolo è unico, è un tutto diverso dal precedente. Così come il pubblico è diverso, lo è tutto il resto. Ciò ovviamente, spiazza la critica borghese, abituata a certi paradigmi e impedisce la riproduzione teatrale. Impedisce, cioè, che lo spettacoli diventi merce da consumo, ribadendo al contempo, l’unicità.

Un po’ come fa oggi Banksy con le sue opere, non a caso inserite in contesti avulsi da quelli civili, quando vengono minacciate di finire nelle esposizioni borghesi o, peggio, commercializzate: le distrugge.

Ecco, Bene fa così: rende lo spettacolo un unicum, lo distrugge appena finisce, e libera il soggetto dall’oggettivazione e dalla catena di montaggio artistica.

La critica alla critica e al mezzo

Da qui la critica alla critica di Bene, cui s’inserisce la critica di Pasolini. Critica alla critica perché entrambi – da due distinti punti di vista – criticano chi critica. Criticano chi non è in grado di leggere la soggettività, oppure ne è terrorizzato, perché rompe uno schema sociale. E dunque criticano non in senso costruttivo ma distruttivo. Non in modo libero, ma condizionato.

Non permettono che un medium, che indossa per giunta le lenti borghesi, possa degradare il pensiero del soggetto, liberato dagli schemi sociali imposti.

Criticano il mezzo, sia esso un giornale o la TV, che si pone come filtro, come strumento che mastica, tritura e poi risputa, da un piedistallo, l’espressività dell’artista, ridotta a ciò che il potere approva, come tutore dell’ordine e del testo.

Il bisogno di etichettare è il bisogno del potere di controllare la soggettività, di attuare forme di censura, di confinare la follia creativa, l’incontrollabile, e togliere loro la voce, perché danneggerebbe l’ordinato svolgersi delle cose, darebbe spunto ad altre soggettività di esprimersi e, dunque, mettere in discussione il potere.

Il critico teatrale, per Bene, svolge esattamente la stessa funzione della televisione per Pasolini (come medium di massa per eccellenza, oggi affiancato dai Social). Entrambi, da un piano più elevato rispetto a chi legge o chi ascolta (i soggetti), sputano sentenze, educano (o dis-educano) le masse, si pongono come maestri d’una grottesca farsa che viene spacciata per verità.

La censura che non cancella più

Una volta queste operazioni, nel medium, venivano svolte dalla censura. Un’istituzione organizzata che spulciava qualsiasi genere di produzione artistica, scientifica, letteraria, per poi tagliare o far riscrivere ciò che non era conforme alle regole sociali, imposte dal potere.

Tuttavia questa forma è stata storicamente superata perché il potere stesso si è reso conto che non serve più, in quanto produce l’effetto contrario. E poi perché è avvenuto un cambiamento.

Come direbbe Umberto Eco, anche l’eccesso di informazione produce gli stessi effetti della censura. Tra la Pravda, giornale sovietico che censurava le notizie, e l’odierno New York Times della domenica, con più di 600 pagine tra quotidiano e inserti, non c’è alcuna differenza, spiegava Eco. Perché anche l’eccesso di informazioni non consente di leggere e assimilare le notizie, di interpretare la realtà. E così oggi, nel mare magnum dell’informazione, non occorre censurare, in quanto il tutto e il contrario di tutto che viene veicolato dal web e dall’informazione tradizionale, genera quella confusione che tiene le masse aggrappate alle strutture fabbricate dal potere.

Ecco, liberarsi dall’oggettivazione è un processo rischioso. Non tutti s(t)iamo Bene. Tuttavia bisogna interrogarci sul peso che preferiamo nel piatto della bilancia: il non-vivere da oggetti nei quieti confini dell’approvazione sociale o il rischiare, liberando la propria soggettività e facendo di se stessi, come direbbe Bene, il proprio capolavoro.

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