Alda Merini, nata il 21 a primavera

Il 21 marzo 1931 nasceva a Milano Alda Merini, per me la più grande poetessa contemporanea. Lo dico da neofita, da ignorante e da italiano medio, ossia da uno che s’accosta alla poesia capendone solo 1/4 della potenza concettuale e ideale espressa, a volte manco quello.

Eppure se dovessi trovare un sinonimo di poesia, oggi, penserei subito al nome Alda Merini. Non a Quasimodo o a Montale, che pure sono stati grandi poeti, ma in confronto ad Alda Merini erano dilettanti allo sbaraglio. Certo Quasimodo è stato amico di Alda e sicuramente l’ha orientata nel complesso mondo della poesia. Ma negli anni in cui faceva incetta di premi letterari – gli anni Cinquanta – e poco prima di vincere il premio Nobel per la letteratura (1959), Alda Merini era poco più che ventenne e da adolescente aveva scritto versi che il premio Nobel non si sarebbe mai sognato di scrivere.

La Presenza di Orfeo

Nel 1953 fu pubblicata la sua prima raccolta di poesie, La presenza di Orfeo, dove predominanti sono i temi mistici ed erotici. La raccolta fu pubblicata da Arturo Schwarz, nella collana Campionario, diretta da Giacinto Spagnoletti.

Pier Paolo Pasolini, nel 1954, sulla rivista Paragone recensì la raccolta e parlò di un caso molto complesso, cercando di venirne a capo. Di seguito uno stralcio del suo saggio (il grassetto è mio):

E quanto la nostra orripilante istanza positivistica non sia opportuna, lo sta a dimostrare l’età addirittura prepuberale in cui la Merini ha cominciato a scrivere i suoi versi orfici, così settentrionali (…). Rebora no: ma certo il romagnolo Campana, per non parlare dei tedeschi, Rilke o George o Trakl, si può nominare: per ragioni di parentela razziale, s’intende, di analogia di langue, di substrato psicologico e di fenomeni patologici. Ché di fonti per la bambina Merini non si può certo parlare: di fronte alla spiegazione di questa precocità, di questa mostruosa intuizione di una influenza letteraria perfettamente congeniale, ci dichiariamo disarmati (…).

Uno stato di informità quasi di deformità irriflessa – passiva nel senso più attinente al suo sesso – ristagnante, arcaico, è quello in cui vive la Merini: e da cui, destata dall’inquietudine nervosa, dei sensi infelici, si genera una mostruosa voce maschile a definirlo. A definirlo, per esser esatti, “oscurità” e “attesa”. È da questo atto, inconsulto e irrazionale, di riflessione, nasce un abito raziocinante: per cui dai versi della Merini è espunto ogni movimento di canto, riconducendovisi la musicalità alla meccanica metrica: applicata, poi, su un discorso intellettualistico e spesso ironico, della specie decadente, alquanto goffo, d’altronde, e pesantemente colorato da uno spirito immaginifico che potrebb’essere (se la Merini fosse una letterata) di terz’ordine. La Merini non è religiosa né cattolica: il cattolicesimo rientra attraverso una agiografia da santino sacrilego.

È soltanto la mancanza del senso dell’identità, per cui essa si espande nel mondo intorno, che configura nella Merini un dato mistico: ma l’intervento che essa attende, per unificarsi, essere persona, non è precisamente quello divino. A voler concludere: quale sia, e se vi sia, una necessità e un’utilità in esperienze di questa specie, non sapremo dire: provenienti come siamo – quali esitanti critici – da un gusto filologico che non distingue meglio o peggio, se tutto è storia stilistica e psicologica, e nulla è privo del più bruciante interesse – e, d’altra parte, mossi da un moralismo che ha trovato il suo contenente, sia pur contingente, nel cosiddetto impegno post-bellico: che tende invece alla distinzione e alla sintesi.

Leggiamo alcune poesie della raccolta, molte delle quali ho prelevato dal sito ufficiale di Alda Merini, gestito dalle figlie.

Lettere

Rivedo le tue lettere d’amore
illuminata, adesso, dal distacco;
senza quasi rancore…

L’illusione era forte a sostenerci;
ci reggevamo entrambi negli abbracci
pregando che durassero gli intenti,
ci promettemmo il “sempre” degli amanti,
certi nei nostri spiriti d’Iddii…

… E hai potuto lasciarmi,
e hai potuto intuire un’altra luce
che seguitasse dopo le mie spalle!

Mi hai suscitato dalle scarse origini
con richiami di musica divina,
mi hai resa divergenza di dolore,
spazio per la tua vita di ricerca
per abitarmi il tempo di un errore…

… E mi hai lasciato solo le tue lettere
onde ne ribevessi la mia assenza!

La vergine

Non avete veduto le farfalle
con che leggera grazia
sfiorano le corolle in primavera?
Con pari leggerezza
limpido aleggia sulle cose tutte
lo sguardo della vergine sorella.
Non avete veduto quand’è notte
le vergognose stelle
avanzare la luce e ritirarla?…
Così, timidamente, la parola
varca la soglia
del suo labbro al silenzio costumato.
Non ha forma la veste ch’essa porta,
la luce che ne filtra
ne disperde i contorni. Il suo bel volto
non si sa ove cominci, il suo sorriso
ha la potenza di un abbraccio immenso.

Lasciando adesso che le vene crescano

Lasciando adesso che le vene crescano
in intrichi di rami melodiosi
inneggianti al destino che trascelse
te fra gli eletti a cingermi di luce…
In libertà di spazio ogni volume
di tensione repressa si modella
nel fervore del moto e mi dissanguo
di canto “vero” adesso che trascino
la mia squallida spoglia dentro l’orgia
dell’abbandono. O, senza tregua più,
dannata d’universo, o la perfetta
nudità della vita,
o implacabili ardori riplasmanti
la già morta materia: in te mi accolgo
risospinta dagli echi all’infinito.

Luce

Chi ti scriverà, luce divina
che procedi immutata ed immutabile
dal mio sguardo redento?
Io no: perché l’essenza del possesso
di te è “segreto” eterno e inafferrabile;
io no perché col solo nominarti
ti nego e ti smarrisco;
tu, strana verità che mi richiami
il vagheggiato tono del mio essere.

Beata somiglianza,
beatissimo insistere sul giuoco
semplice e affascinante e misterioso
d’essere in due e diverse eppure
tanto somiglianti; ma in questo
è la chiave incredibile e fatale
del nostro “poter essere” e la mente
che ti raggiunge ove si domandasse
perché non ti rapisce all’Universo
per innalzare meglio il proprio corpo,
immantinente ti dissolverebbe.

Si ripete per me l’antica fiaba
d’Amore e Psiche in questo possederci
in modo tanto tenebrosamente
luminoso, ma, Dea,
non si sa mai che io levi nella notte
della mia vita la lanterna vile
per misurarti coi presentimenti
emananti dei fiori e da ogni grazia.

Colori

S’io riposo, nel lento divenire
degli occhi, mi soffermo
all’eccesso beato dei colori;
qui non temo più fughe o fantasie
ma la “penetrazione” mi abolisce.

Amo i colori, tempi di un anelito
inquieto, irrisolvibile, vitale,
spiegazione umilissima e sovrana
dei cosmici perché del mio respiro.

La luce mi sospinge ma il colore
m’attenua, predicando l’impotenza
del corpo, bello, ma ancor troppo terrestre.

Ed è per il colore cui mi dono
s’io mi ricordo a tratti del mio aspetto
e quindi del mio limite.

La presenza di Orfeo

Non ti preparerò col mio mostrarmiti
ad una confidenza limitata,
ma perchè nel toccarmi la tua mano
non abbia una memoria di presagi,
fusa io stessa, sciolta dentro il buio,
per quanto possa, eleborata e viva,
ridivenire caos…

Orfeo novello, amico dell’assenza,
modulerai di nuovo dalla cetra
la figura nascente di me stessa.
Sarai alle soglie piano e divinante
di un mistero assoluto di silenzio,
ignorando i miei limiti di un tempo,
godrai il possesso della sola essenza.

Allora, concretandomi in un primo
accenno di presenza,
sarò un ramo fiorito di consenso,
e poi, trovato un punto di contatto,
ammetterò una timida coscienza
di vita d’animale
e mi dirò che non andrò più oltre,
mentre già mi sviluppi,
sapienza ineluttabile e sicura,
in un gioco insperato di armonie,
in una conclusione di fanciulla…

Fanciulla: è questo il termine raggiunto?
E per l’addietro non l’ho maturato
e non l’ho poi distrutto
delusa, offesa in ogni volontà?
Che vuol dire fanciulla
se non superamento di coscienza?
Era questo di me che non volevo:
condurmi, trascurando ogni mia forma,
al vertice mortale della vita…
Ma la presenza d’ogni mia sembianza
quale urgenza incalzante di sviluppo,
quale presto proporsi
e più presto risolversi d’enigmi!

E quando poi, dal mio aderire stesso,
la forma scivolò in un altro tempo
di più rare e più estranee conclusioni,
quando del mio “sentirmi” voluttuoso
rimase un’aderenza di dolore,
allora, allora preferii la morte
che ribadisse in me questo possesso.

Ma ci si può avanzare nella vita
mano che regge e fiaccola portata
e ci si può liberamente dare alle dimenticanze più serene
quando gli anelli multipli di noi
si sciolgano e riprendano in accordo,
quando la garanzia dell’immanenza
ci fasci di un benessere assoluto.

Così, nelle tue braccia ordinatrici
io mi riverso, minima ed immensa;
dato sereno, dato irrefrenabile,
attività perenne di sviluppo.

Quello che più mi colpisce, delle poesie di Alda Merini, al di là del sapiente uso delle parole e della metrica, è la capacità di scavare a fondo nella propria anima e fondere con sapienza misticismo, erotismo e mito, quasi a voler ricercare l’essenza, la purezza, il nucleo delle cose, procedendo in un percorso immaginifico ben definito, quasi a voler prendere per mano il lettore e condurlo con sé nei meandri di un’anima inquieta, che si guarda dal di fuori e cerca corrispondenza tra l’essere e l’apparire, tra i bisogni della carne e quelli dello spirito, che in Alda Merini si fondono e spesso trovano spiegazione nel mito.

La Terra Santa

Per me però le poesie più belle, quelle dell’Alda Merini matura, che ha affrontato i demoni della cura psichiatrica e ne è uscita più profonda, più consapevole, sono quelle contenute ne La Terra Santa, raccolta iniziata nel 1979 e poi edita da Scheiwiller nel 1984, con la quale vincerà nel 1993 il Premio Librex Montale.

Per comprendere meglio le opere di questa raccolta va sottolineato che Alda Merini fu internata in un ospedale psichiatrico dal 1961 al 1972, per disturbo bipolare, con brevi ritorni in famiglia durante il periodo di cura.

Dieci lunghi anni di isolamento – fatto di tanti silenzi – e terapie che oggi si definirebbero crudeli e insensate.

Lei elaborò questa dura esperienza e ci costruì sopra una metafora biblica contornata da una ossessiva ricerca di spiritualità e di un senso che si ritrova a volte nella figura del Cristo, altre volte nella dicotomia tra corpo e anima, il primo che patisce i dolori delle terapie, la seconda che ne esce ferita, ma in fondo più rafforzata e capace di far fuoriuscire quei mostri e quei desideri rimasti sopiti nel suo inconscio. Alda Merini ebbe il coraggio e la lucidità d’animo di costruire un simulacro intorno alle mura del manicomio, un luogo di culto, di solitudine, di meditazione, trovando persino amore in quei luoghi di sofferenza, in ogni sua forma, tra cui l’amore che solo una madre può provare.

Prendo giusto qualche poesia, per me le più significative.

La Terra Santa

Ho conosciuto Gerico,
ho avuto anch’io la mia Palestina,
le mura del manicomio
erano le mura di Gerico
e una pozza di acqua infettata
ci ha battezzati tutti.
Lì dentro eravamo ebrei
e i Farisei erano in alto
e c’era anche il Messia
confuso tra la folla:
un pazzo che urlava al Cielo
tutto il suo amore in Dio.

Noi tutti, branco di asceti
eravamo come gli uccelli
e ogni tanto una rete
oscura ci imprigionava
ma andavamo verso le messe,
le messe di nostro Signore
e Cristo il Salvatore.

Fummo lavati e sepolti,
odoravamo di incenso.
E dopo, quando amavamo,
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno.

Ma un giorno da dentro l’avello
anch’io mi sono ridestata
e anch’io come Gesù
ho avuto la mia resurrezione,
ma non sono salita nei cieli
sono discesa all’inferno
da dove riguardo stupita
le mura di Gerico antica.

Corpo, ludibrio grigio

Corpo, ludibrio grigio
con le tue scarlatte voglie,
fino a quando mi imprigionerai?
anima circonflessa,
circonfusa e incapace,
anima circoncisa,
che fai distesa nel corpo?

Un’armonia mi suona nelle vene

Un’armonia mi suona nelle vene,
allora simile a Dafne
mi trasmuto in un albero alto,
Apollo, perché tu non mi fermi.
Ma sono una Dafne
accecata dal fumo della follia,
non ho foglie né fiori;
eppure mentre mi trasmigro
nasce profonda la luce
e nella solitudine arborea
volgo una triade di Dei.

Ieri ho sofferto il dolore

Ieri ho sofferto il dolore,
non sapevo che avesse una faccia sanguigna,
le labbra di metallo dure,
una mancanza netta d’orizzonti.
Il dolore è senza domani,
è un muso di cavallo che blocca
i garretti possenti,
ma ieri sono caduta in basso,
le mie labbra si sono chiuse
e lo spavento è entrato nel mio petto
con un sibilo fondo
e le fontane hanno cessato di fiorire,
la loro tenera acqua
era soltanto un mare di dolore
in cui naufragavo dormendo,
ma anche allora avevo paura
degli angeli eterni.
Ma se sono così dolci e costanti,
perchè l’immobilità mi fa terrore?

Ah se almeno potessi

Ah se almeno potessi,
suscitare l’amore
come pendio sicuro al mio destino!
E adagiare il respiro
fitto dentro le foglie
e ritogliere il senso alla natura!
O se solo potessi
corpo astrale del nostro viver solo
pur rimanendo pietra, inizio, sponda
tangibile agli dei
e violare i più chiusi paradisi
solo con la sostanza dell’affetto.

Il mio primo trafugamento di madre  

Il mio primo trafugamento di madre
avvenne in una notte d’estate
quando un pazzo mi prese
mi adagiò sopra l’erba
e mi fece concepire un figlio.
O mai la luna gridò così tanto
contro le stelle offese,
e mai gridarono tanto i miei visceri,
né il Signore volse mai il capo all’indietro,
come in quell’istante preciso
vedendo la mia verginità di madre
offesa dentro a un ludibrio.
Il mio primo trafugamento di donna
avvenne in un angolo oscuro
sotto il calore impetuoso del sesso,
ma nacque una bimba gentile
con un sorriso dolcissimo
e tutto fu perdonato.
Ma io non perdonerò mai
e quel bimbo mi fu tolto dal grembo
e affidato a mani più « sante »,
ma fui io ad essere oltraggiata,
io che salii sopra i cieli
per avere concepito una genesi.

La produzione successiva di Alda Merini

Sono nata il ventuno a primavera

Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.

(da Vuoto d’amore, 1991)

Molti critici, anche oggi, hanno demolito la Merini per l’eccessiva produzione letteraria, soprattutto negli ultimi anni di vita, nonché per le sue apparizioni televisive o perché scriveva pensierini da baci Perugina, riferendosi agli aforismi o alle brevi poesie che ha pubblicato e che molto spesso le venivano estorte, data la sua fama e il suo essere considerata, dagli editori, un oggetto commerciale da destinare al consumo di massa.

Gian Paolo Serino, di recente, ha scritto di lei che è la poetessa del nulla, musa ispiratrice degli internauti cretini che si credono poeti. E’ vero che nella giungla della rete molto spesso gli aforismi o le frasette da quindicenni innamorati o depressi s’attribuiscono a lei, perché fa figo o perché tanto mai nessuno andrà a controllare le fonti. E’ vero che la Merini ha scritto, tanto, ha pubblicato, tanto. Chissà, magari l’ha fatto per bisogno di soldi o per semplice civetteria, ma ciò non significa che si debba demolire tutta una vita spesa per la poesia. E la sua poesia non è stata quella formale e formalistica tipica dei poeti famosi, degli accademici o dei letterati aristocratici, ma quella sanguigna, vera, essenziale, introspettiva, mitologica, mistica. Nessuno dei poeti contemporanei è mai arrivato ad una poetica così elevata eppur così semplice.

Insomma, distinguiamo – solo sul piano letterario – la Merini del prima e del dopo. Ossia la Merini poetessa dalla Merini (scientemente) trasformata in un business da chi ha approfittato del suo buon cuore e delle sue debolezze.

Clinica dell’abbandono

Comunque della sua produzione successiva c’è una raccolta che mi piace particolarmente, Clinica dell’abbandono, pubblicata nel 2003 da Einaudi. Della raccolta prendo solo qualche poesia, quelle più significative. Rispetto alla sua produzione originaria, di quando era ragazza, o alle raccolte della maturità, legate alle tragiche esperienze di vita, si nota una certa semplicità, che però non è semplificazione. Affatto. Le ultime poesie di Alda Merini mi ricordano le parole di Pablo Picasso: A quattro anni dipingevo come Raffaello, poi ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un bambino. Non so se ho reso l’idea, ma penso di si.

In cima ad un violino 

In cima ad un violino
ci sta forse un respiro
che nessuno raccoglie
perché è un senso d’amore.
Tu suoni per il vento e viaggi
dove la pace sussurra tra le piante
tutta una nostalgia.

L’amore quello che io cerco

L’amore,
quello che io cerco
non è certo dentro il tuo corpo
che adagi su donne facili
senza alcuno spessore.
L’amore quello che voglio io
è la costante presenza
è l’occhio vigile del padrone
che arde del suo cavallo.
Così ho cavalcato cavalli d’ombra
e gli altri che mi hanno
visto correre senza briglie
mi hanno considerato pazza.
In effetti una donna che vive sola
senza uno scudo istoriato
senza una storia di bimbi
non è né madre né donna
ma un ibrido nome che viene
stampato in calce alla tua pagina.

Ti aspetto

Ti aspetto e ogni giorno
mi spengo poco per volta
e ho dimenticato il tuo volto.
Mi chiedono se la mia disperazione
sia pari alla tua assenza
no, è qualcosa di più:
è un gesto di morte fissa
che non ti so regalare.

Un grande può permettersi di divenire piccolo. Questo non è un problema. Il problema è quando i piccoli s’illudono d’essere grandi.

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