Giorni addietro ho saputo della scomparsa di Franco Cassano. Chi lo conosce sa quanto questo grande intellettuale, professore di Sociologia all’Università di Bari, ha scritto, ha detto, ha fatto per il Sud. Quanto il suo pensiero, in passato, sia stato l’avanguardia, parlando di pensiero meridiano, mentre il Sud, più del Nord Italia, si ubriacava di sviluppo.
Durante la fase della cosiddetta americanizzazione, dal dopoguerra fino al consolidamento del consumismo, mentre il Nord, industriale e commerciale, sviluppava gli anticorpi avverso le derive inumane del fenomeno, in quanto più abituato ad avere a che fare con il modo di produzione capitalistico, il Sud si trovava avviluppato e invaso dal fenomeno e impreparato ad affrontarlo.
Con una società dei consumi nascente e l’illusione dell’industrializzazione mancata, realizzata a sprazzi e senza una visione d’insieme, il Sud si è trovato ad un bivio: inseguire un modello altrui o proseguire, far progredire la propria storia? Complice la classe politica che ha contribuito a colmare il Sud di massicce dosi di complessi d’inferiorità, questi compiva l’operazione più criminale della sua storia: ammazzare la Civiltà contadina e dimenticare la sua millenaria cultura.
La morte della Civiltà contadina
Avvenne, in quel periodo, un’operazione di stillicidio nei confronti degli anziani, della terra, dei saperi contadini, storie, musiche folkloriche, filosofia del riuso, della lentezza associata ai cicli naturali delle cose, insomma, di un complesso culturale che rappresentava una visione alternativa a quella dominante.
Non è avvenuto certo con i metodi violenti propri del regime fascista. E’ avvenuto con le beffe, l’arma della vergogna, abilmente guidata dalla persuasione della società dei consumi. Questa, attraverso le narrazioni mediatiche (e politiche), diffondeva le illusioni di un benessere ancorato al possesso di beni materiali. Creava bisogni da soddisfare con il consumo. Mostrava quanto fosse bello il dinamismo del vivere cittadino.
Improvvisamente l’urbanismo con i modi gentili (e falsi) dei borghesi, divenne il miraggio del proletariato rurale. Il vestir bene e pulito, il lavoro in città, la frenesia del traffico, il mito della velocità, dell’efficienza, dei rapporti usa e getta, dei centri commerciali fornitissimi e affollati la domenica pomeriggio divennero talmente appetibili da ubriacare le masse rurali e vergognarsi della propria condizione. La vergogna si estese a macchia d’olio ad ogni aspetto della millenaria cultura contadina. Persino il cibo sano e coltivato in modo naturale divenne meno appetibile del panino OGM del fast food.
Se qualcuno ha da obiettare che oggi il ritorno alla terra, alle tradizioni, al folklore, è un aspetto di cui ci stiamo riappropriando, rispondo sdegnato che in larga parte è solo una squallida operazione di facciata, di marketing piccolo borghese. Ad eccezione di poche realtà che hanno abbracciato una concezione di progresso legata alla Natura, fondendo elementi odierni con il vivere rurale, il resto è solo pura mistificazione. Quando un piccolo borghese tocca uno di questi elementi, lo tramuta in sterco. Non certo quello che si usa per concimare in modo naturale. Magari.
La piccola borghesia
Dunque imporre la cultura dominante attraverso le narrazioni, veicolate soprattutto dal mezzo televisivo, non sarebbe stato possibile senza una classe sociale che desse l’esempio, che mostrasse, per dirla meglio, quanto è bello vivere di fretta, quanto le nevrosi siano cool e quanto invece sia brutto, triste e vergognoso il vivere lento proprio della civiltà contadina.
L’artefice di tutto ciò fu la piccola borghesia, la classe sociale strumentale a quella dominante, composta da gente mediocre, il popolo delle scimmie (usando un’espressione gramsciana) che vaneggia, sproloquia, incolla etichette sociali, sguazza nella sua ignoranza ma occupa i posti chiave della comunità.
E’ la classe impiegatizia, commerciale, dei piccoli professionisti azzeccagarbugli. E’ la classe politica locale. Per capirci, è quella a cui la classe operaia, contadina, precaria, guarda talvolta come un punto di riferimento. Specie oggi che di riferimenti sani non ne ha più.
E’ la classe che oggi genera e diffonde i complottismi, quella degli analfabeti funzionali, quella dei pornografi, delle miserevoli vite prive di senso, del veleno gettato in rete, sui social. E’ la classe dei nevrotici, pettegoli, ansiosi, annoiati, quelli che sfruttano il lavoro altrui, i furbetti del cartellino, quelli del macchinone comprato a rate, a messa la domenica mattina, il vestito buono, il gelato o l’aperitivo nel bar figo, e l’indifferenza o, peggio, violenza tra le mura domestiche.
Spezzare le reti sociali
La narrazione dominante, veicolata attraverso i mezzi mediatici e la piccola borghesia, ha prodotto svariati fenomeni negativi in seno alle comunità locali. Il primo, più grave, è la rottura delle reti sociali locali. La grande borghesia ha approfittato, dunque, del crescente individualismo per imporre la propria visione, conscia che un mucchio di individui è innocuo rispetto ad una classe sociale coesa e cosciente di sé.
Erigere l’individualismo a filosofia di vita ha prodotto, tra l’altro, lo svuotamento dei centri storici delle città e dei paesi (spesso gentrificati), l’esigenza di avere la villetta in periferia o, peggio, nelle campagne (con tutto ciò che ne consegue: sottrazione di suolo, cementificazione selvaggia, ecc.), dunque la rottura di una rete e la conseguente paura dell’altro, visto come un pericolo e non come un sostegno.
Quanto si sta diffondendo la cultura del sospetto? Un esempio vivido è la diffusione dei sistemi di videosorveglianza. Proteggere i propri beni dalle invasioni altrui, anche quando la minaccia non è reale ma solo illusoria, è una forma di nevrosi, che allontana chi lo fa dal vivere quieto e sicuro che solo una rete sociale sana può garantire.
Una volta si dormiva con le porte aperte (e non solo quando c’era lui). Qualcuno dirà che si faceva perché non c’era niente da rubare nelle case. Appunto, ma non solo. Vi era intorno una comunità che, nel bene e nel male, offriva una sorta di protezione. La protezione di chi fa del mutualismo e dell’aiutarsi a vicenda un valore fondante. Per farla breve: a che serve rubarti il motorino se te lo chiedo e me lo presti? Consapevole che io farò qualcosa per te. Insomma, una filosofia che fa del bene privato un bene comune, del gruppo una forza.
La diffidenza, preludio dell’odio sociale
Un altro aspetto legato alla filosofia dell’individualismo, fortemente voluta dalla classe dominante, è la diffidenza.
Pensate alla narrazione della competizione individuale, che la borghesia assume come principio fondante di una società evoluta: più siamo in competizione e più aumenta l’efficienza, si riducono i costi, si acquisiscono nuove skills, si diviene esperti e utili alla società.
Mai una narrazione simile fu più falsa. Basti vedere ciò che avviene in ambito economico globale, dove non esiste concorrenza, ma polarizzazione. La concorrenza, la competizione, l’homo hominis lupus, sono mezzi e idee per favorire l’erosione dei diritti sociali, l’ampliamento dello sfruttamento e permettere che la classe dominante continui a far profitti a scapito delle masse.
Grottescamente la piccola borghesia appartiene in buona parte al popolo degli sfruttati, ma la sua mediocrità le impedisce di comprendere la realtà, dunque vive immersa nelle proprie rappresentazioni, alimentate dalla narrazione dominante.
Una di queste rappresentazioni, frutto dell’individualismo, è la diffidenza. Prendiamo un esempio banale: i vicini di casa. Meno relazioni avrò con loro e più aumenterà la diffidenza, che genererà delle rappresentazioni mentali avulse dalla realtà.
Estendendo questo banale esempio su scale sempre più grandi, si genera odio sociale per il paese vicino, i tifosi della squadra avversaria, i migranti, gli islamici, gli ebrei, gli omosessuali, ecc. ecc. Insomma, l’altro diverso da me.
La conoscenza dell’altro diverso da me, invece, ci riporta alla realtà. Scopriamo di avere cose in comune, desideri, ambizioni, sogni simili. Ci sentiamo più legati, anche nelle differenze. E così si sgretola il muro di rappresentazioni che falsamente abbiamo creato.
Ma ciò richiede tempo e lentezza.
La frenesia urbana e la lentezza della memoria
In questo contesto la velocità, valore fondante della civiltà attuale, dominata dalla mediocrità piccolo borghese, diviene il mezzo per consumare qualsiasi cosa: rapporti sociali, tempo, beni materiali e immateriali, cultura, racconti, memoria.
E’ paradossale che chi vive sempre di fretta non ha mai tempo, mentre chi abbraccia la filosofia della lentezza, il tempo lo trova per fare qualsiasi cosa. E farla bene.
Inoltre la lentezza alimenta la memoria, è ripetitiva, cerimoniale, unificante. Come ha spiegato Umberto Eco, è la memoria che ci rende umani. Ma la memoria va alimentata e solo vivendo il presente, con lentezza, fissiamo i ricordi nella memoria.
La frenesia impedisce di vivere il presente. Erode la memoria, la rende un fardello inutile, specie oggi in cui la tendenza è delegare la memoria alla tecnologia, salvo poi scoprire quanto sia facile cancellarla con un click sbagliato. La velocità non consente di conoscere l’altro, di fermarsi a meditare sulle parole o i piccoli gesti del linguaggio non verbale, di connettersi alle frequenze della Natura e osservarne i dettagli. Tutto ciò rende superficiale qualsiasi relazione, con l’altro, l’ambiente, la memoria, il presente. Il passato non c’è più, il futuro non c’è ancora. Occorre vivere il momento presente, con lentezza.
Oggi, invece, il culto del multitasking sembra essere il simbolo dell’intelligenza individuale, quasi come se l’essere umano fosse progettato come un potente PC: svolgere più compiti, contemporaneamente, e nel più breve tempo possibile.
Vivere in questo modo ci conduce alle nevrosi, alle ansie da prestazione, ci allena ad iniziare ed abbandonare subito le cose, a non comprenderle a fondo, perché la comprensione abbisogna di tempo e attenzione. Ci impedisce di sviluppare la concentrazione e favorisce la proliferazione dell’analfabetismo funzionale, anche di ritorno, che altro non è che l’applicazione della fretta nella relazione con cose, idee e persone.
Lentezza e riuso
La frenesia e l’affidarsi al soddisfacimento di bisogni indotti per cercare un senso alla propria esistenza impediscono di dare il giusto valore alle cose. La tendenza di oggi è quella di comprare e gettare via. Ho imparato sulla mia pelle che tutto ha un valore, persino ciò che in apparenza sembra essere immondizia. Quante volte ho pensato: se quell’involucro di plastica non l’avessi buttato, ora mi sarebbe utile. E sono costretto a comprarlo nuovo.
Negli anni Ottanta, quando la nostra civiltà si ubriacava di consumismo, un attento osservatore della realtà, un filosofo meridionale e meridionalista, Luciano De Crescenzo, con l’ironia tipica del grande intellettuale, ci metteva in guardia sul rapporto pericoloso tra velocità e consumo.
Il riuso è una concezione figlia della lentezza. Il consumo è foriero di nevrosi, vuoti interiori e continue ansie e depressioni. Forse tocco un tasto delicato, anche perché un vecchio articolo sul rapporto tra psicologia e capitalismo ha generato violente critiche, ma vi lascio un interrogativo (sicuramente inevaso). Che rapporto c’è tra consumismo e depressione? Quanto ha inciso la società dei consumi nella crescente domanda di consulenze e cure psicologiche?
Per concludere sulla lentezza
Come scrive Franco Cassano, non si tratta di ritornare al passato. Non è mia intenzione cadere nel facile qualunquismo di dire prima si stava meglio. Oppure, torniamo al passato. Prima non si stava meglio. E tornare al passato è un’illusione, una rappresentazione mentale, individuale e collettiva, priva di riscontro con il divenire, il processo dialettico, insomma, la realtà.
Non siamo di fronte, dice Cassano, ad un banale rimpianto di una modernità passata di moda, ma alla necessità di scegliere tra l’accodarsi ad una deriva distruttiva e un’altra possibilità. Si tratta di arricchire il futuro, di non rassegnarsi all’idea che esso debba essere dominato da cattedrali di rifiuti (il rovescio rimosso della retorica dell’innovazione). In queste discariche si aggirano non solo miliardi di esseri umani, ma anche forme di relazione ed esperienza preziose per un mondo più giusto e più saggio, libero dal delirio di Faust e capace, come Peter Handke, di cantare la durata.
Nota finale: onde evitare fraintendimenti, nel parlare di classi, fenomeni sociali, ecc. non parlo mai in termini assoluti, ma relativi. E’ triste ribadirlo ogni volta, ma è necessario. Poi, per approfondire il concetto di classe sociale oggettivo e soggettivo, leggi quest’articolo.
Le conclusioni alla fine di questo pezzo, contraddicono tutto quanto hai scritto prima. Rimpiangi la civiltà contadina dei bei tempi andati, la vita bucolica e i ritmi lenti…eh sì andavano lenti, ma perché tutto il lavoro era manuale e la vita era durissima e ben diversa da quel quadretto idilliaco che dipingi! Credo che nessuna persona sana di mente oggi farebbe a cambio con quel passato.
Dove la leggi la contraddizione? Puoi indicare il passaggio? Dove leggi la descrizione di un “quadro idilliaco”? Dove leggi che rimpiango i “bei tempi andati”? Se crei un’associazione lentezza = passato, forse hai frainteso tutto il discorso. Se hai letto con frenesia, allora mi sa che appartieni alla cultura della velocità e quindi confermi esattamente tutto il discorso.
Penso che lei debba rileggere o per giunta leggere l’ articolo ( le sue critiche sembrano sprezzanti a prescindere dal contenuto che evidentemente non ha compreso o voluto comprendere ). Crede che dare valore al tempo, riconoscere l’importanza delle piccole cose , delle proprie radici contadine e soprattutto del lavoro nei campi, voglia dire dover tornare indietro? Che rimpiangere la vita bucolica sia da folli? I tempi sono cambiati, e forse proprio a causa dell’ eccesso di velocità ,del consumismo e della voluta rimozione del nostro passato che ha nettamente inficiato il ruolo di chi coltiva la terra, molte comunità, in tutta Italia, dal nord , al centro( come il Lazio che conosco molto bene), al mio sud, stanno riscoprendo l’ importanza del lavoro contadino, applicando un vero e proprio ritorno alla terra. Ci sono movimenti contadini internazionali di lotta che portano nelle proprie bandiere alcuni dei principi espressi in questo articolo. Ciò non significa voler tornare a “spaccarsi la schiena” o a “sporcarsi le mani”. Per inciso nel 2021 anche senza meccanizzazione spinta o sementi brevettate e agrofarmaci, il lavoro in campagna può essere gestito senza il duro lavoro tipico del passato, basato , le rammento, principalmente sul rapporto latifondista- coloni sfruttati( sebbene ancora esistano i braccianti schiavizzati e ignorati grazie al circolo vizioso della GDO – l’ evoluzione del supermercato-); inoltre la terra non è sporca e tanti altri lavori “moderni”forse per lei più consoni , sono debilitanti, se non addirittura degradanti, sottopagati e sfruttati ma accettati perché gestiti da chi muove grandi capitali. Se vuole la metto in contatto con realtà contadine della sua zona. Chissà magari la terra le insegna a muovere semmai considerazioni costruttive e a non offendere per partito preso, sia chi scrive l’ articolo ,che noi altr* che siamo tornat*, forse per un eccesso di sanità mentale,alla cara inestimabile terra. P.s.: La sua sinistra , da quanto leggo, costruita solo sulla retorica, ha a che fare con quell* che noi contadin* di sinistra combattiamo. Quelli che ci vorrebbero schiavi delle multinazionali, in virtù del progresso.
A parte che non mi pare di aver offeso nessuno, al contrario di lei che mi accusa di essere sprezzante e non comprendere ciò che leggo.
Che senso hanno le critiche moralistiche e discorsi che alludono alla decrescita (in)felice, quando tre quarti della popolazione mondiale vive in paesi che sono ancora in via di sviluppo?
L’alternativa quale sarebbe? Coltivare ortaggi e verdure? Invece di consigliare me di visitare la realtà contadina, che per altro già conosco, le consiglio io un viaggio, magari in Nicaragua, per vedere come vive la maggior parte della gente nel mondo.
Se la mia sinistra, come dice, è costruita sulla retorica, la sua è costruita su fantasticherie romantiche che non rappresentano alcuna alternativa se non per piccoli gruppi di privilegiati che hanno la possibilità di sottrarsi alla “frenesia” imposta dal capitalismo e dal mercato, pena la fame o la miseria.
Il tuo discorso sulla scomparsa della civiltà contadina portatrice di sani valori e di una più autentica visione della vita a causa del progresso, rivela un modo di pensare più conservatore che progressista. La sinistra è contro lo sfruttamento, non contro lo sviluppo che al contrario ha consentito di migliorare enormemente le condizioni di vita delle persone, dei contadini in primis, che oggi non devono più spaccarsi la schiena come cent’anni fa!
Rileggi con calma, anzi, per restare in tema, con lentezza. Aspetto che decisamente ti è mancato nella lettura. Comprenderai che la tua critica è basata sul nulla. Che, anzi, fai la figura di quello che non capisce il senso delle parole.
Aggiungo, solo per zelo, che questo articolo, come altri, è inserito in un contesto, è una prosecuzione di riflessioni e critiche alla società dei consumi e al rapporto con il processo di progresso sociale. Non dico che devi leggere tutti gli articoli sul tema (saranno 2-3 al massimo), ma quantomeno non perderti in qualunquismi e generalismi da bar sport, onde quantomeno evitare di perdere di credibilità qualora mi imbattessi in futuri tuoi commenti, che a questo punto, considerando il tutto, eviterei pure di leggere, dato che non apportano alcunché di costruttivo al dibattito e, anzi, dimostrano sterile polemica e incapacità di lettura.
Non preoccuparti, non verrò più a disturbare il tuo blog!
Fai come ti pare. Però ti invito, prima di gettare impulsi alle dita, di leggere i testi, non di leggicchiare qualche parola chiave e reinterpretare a tuo piacimento i discorsi. Questo è il classico atteggiamento del leone da tastiera.