Un pensiero a Carmelo Bene

Il 16 marzo del 2002 ci lasciava Carmelo Bene, attore teatrale e cinematografico, drammaturgo, poeta, regista, sceneggiatore, scrittore. Classificare Carmelo Bene in categorie artistiche è piuttosto complesso. La sua vita, come le sue opere, sono state sempre fuse in un unico filo conduttore narrativo.

Lui stesso amava definirsi genio: “Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può. Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento” scrisse in Opere con l’Autografia di un ritratto. La sua non era vanità, ma l’autoriconoscimento dell’essere un tutt’uno con l’arte, del vivere una vita immersa nell’arte.

Evito di riportare la sua lunga biografia, che è ben scritta qui. Quello su cui vorrei riflettere è il suo essere Artista a tutto tondo. Dopo gli studi classici a Campi Salentina e poi a Lecce, prima all’Istituto Calasanzio dei padri scolopi e poi presso i gesuiti, si trasferì a Roma per studiare giurisprudenza, ma abbandonò subito gli studi per intraprendere la carriera teatrale. Rifiutò di continuare gli studi presso le scuole e accademie canoniche e iniziò a recitare su piccoli e precari palcoscenici dei bassifondi di Roma, ma il suo estro e genio creativo lo portò ben presto a calcare le scene della Scala di Milano, per poi arrivare ai più grandi eventi nazionali e internazionali.

Ciò che emerse subito in Carmelo Bene non fu solo la bravura interpretativa e il genio creativo, ma la profonda conoscenza dell’Arte, a tutto tondo. Lui era un profondo conoscitore dei mezzi dell’artista che seppe maneggiare e destrutturare, per arrivare al nocciolo dell’Arte, alla sua essenza, priva degli inutili orpelli ornamentali tipici dell’arte borghese.

I monologhi

L’essenza, nel teatro di Bene, era rappresentata da una saggia commistione tra monologhi, con inserti poetici e assonanze che prendono la spinta verso il canto. In Carmelo i dialoghi teatrali, le scene pompose, i numerosi personaggi, gli effetti scenici, rappresentano una distrazione dei sensi dello spettatore, il quale difficilmente riesce a percepire l’essenza del messaggio poetico. Ecco che Carmelo, sapientemente, nei momenti più alti della rappresentazione teatrale, riduce. Elimina tutto ciò che può distrarre per restare da solo a rimuginare, in versi e canto, e raggiungere l’intimità, sia sua sia di chi l’ascolta. L’unica compagna sempre presente nella produzione di Bene è la musica, che favorisce la meditazione e l’intospezione.

Il periodo del cinema

Il periodo del cinema rappresentò la seconda parte della carriera artistica del Bene. La rappresentazione del Pinocchio (1961) gli diede una fama inaspettata e gli diede pure la possibilità economica di esplorare altri campi. Fu così che nel 1966, in concomitanza con la seconda replica del Pinocchio, uscì Nostra Signora dei Turchi, film basato sul suo primo romanzo. Poi fu la volta di Don Giovanni, Capricci e Salomè, un film kitsch e visionario, osteggiato dalla critica conservatrice ma ampiamente apprezzato da numerosi intellettuali.

Nostra Signora dei Turchi, premiata al Festival del Cinema di Venezia, oltre al successo teatrale, valse a Carmelo Bene la stima di numerosi intellettuali, tra cui Pasolini, che lo volle nel ruolo di Creonte nel suo Edipo re. Scrisse di lui: “C’è il caso straordinario di Carmelo Bene, il cui teatro del Gesto o dell’Urlo è integrato da parola teatrale che dissacra e, per dirla tutta, smerda se stessa”.

Il successo di Bene gli consentì di mettere in scena, dagli anni Settanta agli anni Novanta, numerosi spettacoli teatrali, e tournées regolari nei principali teatri italiani ed esteri, in particolare a Parigi, dato che la letteratura francese aveva influenzato molto le sue opere. In questo periodo l’Artista Bene divenne più maturo e riuscì a trascrivere la sua visione artistica. Iniziò, difatti, una lunga opera saggistica dove esplicitava i fondamenti del suo operato e metteva in luce il suo distacco dalla politica culturale.

Politica della cultura e politica culturale

Il pensiero di Carmelo Bene sulla cultura è assimilabile a quello di Norberto Bobbio il quale, nel suo scritto Politica e Cultura (1955) distingue nettamente la politica della cultura, come politica degli uomini di cultura in difesa delle condizioni di esistenza e di sviluppo della cultura, dalla politica culturale, cioè la pianificazione della cultura da parte dei politici. Ecco, Carmelo si schiera a favore della prima, la politica della cultura, rivendicando la libertà culturale e la distanza da ogni forma di controllo, egemonia o anche solo influenza indiretta da parte di ogni sovrastruttura.

Difatti ogni forma di cultura istituzionalizzata – in altre parole la cultura che s’identifica con il concetto di civiltà – o la cultura di massa, per Carmelo, è sinonimo di inculturazione, tanto da arrivare a dire: “la cultura, nel suo etimo – l’ha rilevato … Jacques Derrida –  equivale a colo …, cioè del verbo colo: colonizzare. Cioè, cultura è tutto quanto è colonizzazione. Per non parlare poi della depravazione culturale, che è l’informazione…”.

Le apparizioni televisive

Purtroppo, però, anche Carmelo, nel suo ultimo periodo artistico, Come capitò ad Alda Merini, fu vittima della sua stessa fama e fagocitato dal consumismo mediatico che approfittò del personaggio per chiare ragioni commerciali, spogliandolo della sua essenza. Pur eccedendo nelle sue ormai celebri provocazioni, l’ultimo Carmelo si spense nel chiacchiericcio volgare della cultura di massa, quella che lui stesso combatté per tutta la vita.

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