Rocco Scotellaro, il poeta contadino di Tricarico

Rocco Scotellaro è stato uno dei massimi poeti del Novecento, eppure poco conosciuto, per via della dinamica di marginalizzazione del Sud Italia che è viva ancora oggi (seppur in misura minore rispetto al passato). Qui di seguito una breve biografia del poeta-contadino e alcune delle sue poesie, divise in base alle stagioni della sua sin troppo breve vita.

Il 19 aprile del 1923 nasceva a Tricarico (Matera) il poeta, politico, contadino e intellettuale Rocco Scotellaro. Nonostante le umili origini, il padre Vincenzo, calzolaio e la madre Francesca, casalinga, decisero di continuare a far studiare il figlio, che già dall’infanzia mostrava interesse verso la letteratura. La famiglia si trasferì così a Sicignano degli Alburni, dove il dodicenne Rocco s’iscrisse al liceo classico del Convento dei Frati Cappuccini, visto che – va specificato – all’epoca, nel Meridione, le scuole erano appannaggio della Chiesa e si trovavano solo nei principali centri della Regione, sedi di Conventi e Confraternite.

La Basilicata, poi, soffriva dell’abbandono delle istituzioni statali, mancando praticamente di tutto: scuole, ospedali, persino strade. Quest’aspetto, insieme alle condizioni di estrema povertà della classe contadina, sfruttata dalla parassitaria piccola e media borghesia (parassitismo che sopravvive ancora oggi), colpì il giovane Rocco tanto che s’interessò sin da giovane alla politica.

L’abbandono di Tricarico e il ritorno

Costretto, come molti suoi coetanei, ad abbandonare la Basilicata, ultimò gli studi classici a Trento. Su suggerimento del padre, s’iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza della Sapienza a Roma, ma smise presto, avendo maturato una coscienza politica che lo portò ad iscriversi al Comitato di Liberazione Nazionale e, successivamente, al partito socialista. La guerra era in fase conclusiva, ma gli ultimi colpi di coda della repubblica sociale erano particolarmente violenti, da Nord a Sud.

Decise così di tornare a Tricarico, per contribuire, in prima persona, alla transizione democratica e, soprattutto, al processo di autodeterminazione delle classi contadine, fino ad allora soggiogate da quella piccola borghesia espressione del fascismo e prima ancora del parlamentarismo imperialista.

Restò sempre legato al suo paese, nonostante le continue peregrinazioni in giro per l’Italia (oltre a Trento e Roma visse anche a Tivoli, Potenza, Matera, Cava de’ Tirreni, Napoli e Bari). Le condizioni di vita dei contadini, sprofondate nella nera miseria a seguito dell’unità d’Italia e rese ancora più difficili dalla guerra e dal regime fascista, scossero il giovane Rocco, che così decise di dedicarsi all’attivismo politico.

L’elezione a sindaco

Ciò che contribuì allo sviluppo della sua coscienza politica fu proprio la pratica fascista di confinare i personaggi scomodi al regime nelle zone più degradate del Sud Italia. E così Rocco conobbe Carlo Levi (che lui stesso definì suo mentore), Manlio Rossi-Doria ed altri, grazie al cui contributo la Basilicata si preparò, ben prima delle Regioni del Nord Italia, alla transizione democratica.

Difatti Rocco Scotellaro divenne Sindaco di Tricarico a soli 23 anni, con il Fronte Popolare Repubblicano, nato dall’unione di PSI e PCI. Avvenne il 20 ottobre del 1946, dopo una lunghissima campagna elettorale, concomitante con la fine della guerra. Fu rieletto successivamente nel 1948.

Fu una stagione esaltante seppur breve per il giovane Rocco, che riuscì a coinvolgere la popolazione per la risoluzione di piccoli e grandi problemi dovuti proprio all’abbandono da parte dello Stato. Istituì le consulte locali, in cui, per la prima volta, i contadini potevano esprimere la propria opinione, fino ad allora mai ascoltati dalle istituzioni. Si batté per l’apertura della scuola in paese, per risolvere il grave problema dell’analfabetismo, consentendo a chiunque di frequentarla senza doversi spostare.

Fece aprire, nel 1947, l’ospedale civile di Tricarico, con 40 posti letto. Fino ad allora l’ospedale più vicino era a Matera, a 50 km. Capeggiò il movimento di occupazione delle terre, per permettere ai contadini di poterle lavorare in qualità di proprietari, senza essere sfruttati dai latifondisti. Cosa che poi verrà consacrata in legge, nel 1950, con la riforma Segni.

La macchina del fango

Scuole, ospedali, strade, partecipazione popolare alla vita politica del paese, una rinnovata coscienza politica e una Tricarico faro per lo sviluppo di un’intera regione. Questo realizzò il giovanissimo sindaco in soli quattro anni. Poi arrivò la macchina del fango (che, ancora oggi, colpisce chi lavora per il popolo, specie nel Meridione. Il riferimento a Mimmo Lucano è solo casuale).

Era già tenuto d’occhio dalla polizia sotto il regime fascista e, senza alcun mutamento, sotto lo Stato repubblicano. Non cambiò nulla (e difatti gli apparati statali, nel dopoguerra, restarono popolati di ex appartenenti al regime fascista), tranne che si passò dal controllo all’azione. Nel 1948 un funzionario di pubblica sicurezza stese un rapporto, partito da una segnalazione anonima, secondo cui il giovane sindaco si sarebbe appropriato di somme di denaro destinate alla ricostruzione post bellica.

Partì dunque l’inchiesta della magistratura. Lo accusarono di concussione, truffa e associazione a delinquere (più o meno gli stessi reati per cui è accusato Lucano, tra l’altro spiato illegittimamente) e scontò 45 giorni di carcere a Matera. Poi, però, durante il processo d’appello si scoprì che le accuse erano del tutto infondate e il 24 marzo 1950 fu prosciolto con formula piena per non aver commesso il fatto (un’ottima ricostruzione della vicenda è contenuta qui). Ma la congiura sortì lo stesso i suoi effetti. Scoraggiato e deluso, il giovane Rocco abbandonò la politica. La sua era un’anima pura, una di quelle non avvezze agli oscuri giochi della politica borghese, che – quando fallisce con l’arma della repressione – s’adopera ad usare l’arma del fango, per cui un ingenuo sognatore non è preparato.

L’attività letteraria e scientifica

E difatti Rocco Scotellaro – da ingenuo sognatore – si concentrò da allora sull’attività letteraria e sociologica. Lo stesso anno dell’assoluzione l’amico Manlio Rossi Doria gli offrì di collaborare con l’Osservatorio Agrario di Portici, grazie al quale riuscì a contribuire al Piano di Sviluppo Regionale per la Basilicata. Inoltre collaborò attivamente con Ernesto De Martino che in quegli anni svolgeva ricerche sui riti e miti del Sud e che lo condussero a pubblicare Sud e Magia e La terra del Rimorso. Purtroppo l’attività letteraria e scientifica di Rocco Scotellaro s’interruppe precocemente a causa di un infarto che lo portò via all’età di 30 anni, il 15 dicembre del 1953, a Portici, dove si era trasferito per collaborare più da vicino con l’Osservatorio.

Le tre stagioni di Rocco Scotellaro

L’attività poetica di Rocco Scotellaro iniziò ben presto, sin dall’adolescenza. Viene suddivisa in tre fasi, le cui definizioni riprendo dalla raccolta Poesie (RCE, 2016): quella giovanile (1940-45), quella della sofferta presa di coscienza di sé, della sua terra, del paese, della gente (1946-50) e, infine, l’asciutta ed amara esperienza dell’inevitabile sconfitta, del distacco dalla sua gente, del nuovo rapporto con il mondo grande e complesso (1950-53).

Per ogni stagione della breve vita del Poeta proporrò qualche poesia, quelle che, sul piano contenutistico ed estetico, ritengo più significative. La selezione è ardua, dato che Scotellaro ha scritto quasi 500 poesie, oltre ad un romanzo rimasto incompiuto (L’uva puttanella, con prefazione di Carlo Levi), un’inchiesta (Contadini del sud), un’opera teatrale (Giovani soli) e diversi racconti, raccolti nell’opera Uno si distrae al bivio.

Stagione giovanile (1940-45)

Si ritiene comunemente che Lucania sia la prima poesia di Rocco Scotellaro, scritta a 17 anni. Il riferimento dell’ultimo verso è agli effetti del terribile terremoto del 1857, che provocò oltre 11.000 vittime e interi paesi devastati. All’estero se ne parlò tanto (Dickens scrisse un articolo sul settimanale inglese Household Words), ma lo Stato italiano, che s’unificò pochi anni dopo, ignorò la faccenda.

In questo periodo il poeta è attento alla metrica, usa termini e concetti fusi tra il realista e il bucolico, idealizzando quasi in figure da cartolina la sua terra e in cui compaiono solo in nuce gli elementi che matureranno in seguito, durante la fase della coscienza di sé e della sua terra.

Lucania (1940)

M’accompagna lo zirlio dei grilli
e il suono del campano al collo
d’un inquieta capretta.
Il vento mi fascia
di sottilissimi nastri d’argento
e là, nell’ombra delle nubi sperduto,
giace in frantumi un paesetto lucano.

In autunno (1940)

Trasvolano le rondini
i mari e i deserti,
a una dimora certa
lontana tendono,
all’orizzonte forse,
dove sempre il sole
cade in sera.

Traguardo (1941)

Sconfinati deserti
io mi figuro.
Cammino e cammino
ansante
sfinito.
Desolato
la voce sola mi resta.
Una sillaba sola
l’eco non ripete
del mio grido.
Avanzo m’abbatto
mi levo.
In un baleno improvviso
un traguardo ravviso.
E un tuono rimbomba al mio grido.

Pioggia settembrina (1941)

Ciclo bigio, l’aria è tetra
dorme il cane alla sua cuccia
tace il vento senza pioggia
ed un bimbo guarda ai vetri
l’uccellino che non c’è.
Forse il vecchio conta i giorni
già da tanto sta nel letto
volerà come la rondine
fuggita dal suo tetto.
Ecco guarda, aspetta, aspetta:
viene pioggia da quei monti.
Ecco cade dal suo ramo
un frutto già maturo,
anche una foglia cade.
Aspetta, aspetta.
Cosa sarà di te?
Cosa sarà di noi?
Quel carretto fermo.
Il fumo del camino.
Un asino che raglia,
i contadini: guance sulla zappa,
tetra la terra, il cielo bigio.

Danza (1942)

A crespe lievita e mezz’onde
in alto il mare.
Così della fanciulla in bicicletta
la veste svolazza.
La carnagione bianca
in vivido contrasto
con la blusetta rossa
piccola, succinta.

Tempo nostalgico (1942)

Una legge impose
alla mia vita un carme;
cercare i miei lidi da me
canti d’arrivi e di partenze.
Ho l’anima sfilacciata a brandelli
per tutti i luoghi più solitari.
Vado rincorrendo fanciulle lontane
per le strade di tutti i paesi.
Mi fingo i vari colori delle valli
e qualche più grave scampanio,
un’aria più assorta,
il declino delle strade affollate
e le canzoni della notte
E’ la sosta di casa mia
che compone i brandelli dell’anima.
Quei boschi e le terre di stoppie
s’hanno il mio saluto di pianto
per l’ultimo addio.
Ecco che corre la terra
gli alberi mi dicono addio sciogliendo le chiome
e mi rifaccio altrove a pensare
a quei boschi e le terre di stoppie.

E nel cervello straripa (1943)

Dal mio mondo decimato,
quando vago stormire di vento
volge faccia alle foglie
in annuncio di rondini bianconere,
rivolgo passi e pensiero
e cruda una voce mi strappa:
Bisogna andare, bisogna partire.
Sulle mie orme
batte il mio nome il cuore della mamma:
Ritornare, figlio, ritornare.
E nel cervello straripa
l’orologio delle ore incantate:
Più in là, più in là quel porto
dove ancora non so.

Mezzogiorno (1943)

Negletti i morti alle loro pareti
le tombe agli effimeri nomi:
è la colmata di sole nel vico.

Amarezza (1943)

Soffri, lo sento
dal vento impavido che ti lava
il volto ottenebrato dai capelli
che piovono disadorni.
Mi guardi che t’aiuti e perché doni
la metà che ti manca
come m’implora la natura quando
è derelitta sull’aspre giogaie.
Filomena, docile una mano
ti pacifica i capelli e mi lusingo
l’averti dato pace con quell’atto.
Ma la mia strada è sola
anche se t’appendi al braccio
e se m’implori, ché cento vorrei
salvarne di fanciulle ammalate
e chi mi salvi non trovo – nel cammino
d’ogni sera – dentro vicoli abissali!
Non posso e non m’è dato amarti, vedi
la mia donna cadrà dalle stelle
nel buio per consolarmi. Addio.

Bugiarda l’anima (1943)

Teso su informe miscuglio di cose
era antico scialle nero la notte.
E dimenticanza solo conforto
all’errare dei giorni.
Tempo che torna remoto d’infanzia
cancella come su nera lavagna
i percorsi traversi della vita.
Tardi è ricominciare.
Gli occhi docili ora cedono al sonno.
Anche ragione è sedare stanchezza.
Strada riprendo col sole domani
insieme al contadino.
Gallo cantò. Mi lacerava il sonno.
Cantarono più galli il tradimento
il mio spergiuro innocuo d’ogni sera.
Volli sferzare di sangue il mio corpo
come frati con catene di ferro.
Il mio corpo innocente!
Bugiarda l’anima avrebbe bruciato
uomini e mondo, rogo di vendetta!

Passo nel treno (1943)

S’aggira la terra convulsa in molecole.
Gli alberi ballano pericolosamente sul piano
ma l’orizzonte non batte ciglio lontano.
Sento sul volto carezze perdute del mondo che
abbandono
il suono di tante campane di mille canzoni
d’una voce malata, velata ma dolce.
E la carrozza cadenza sul ferro
e non afferro un pensiero
non calpesto quel sentiero
che l’onda veloce del treno travolge.
Qui! tra due mondi disgiunti
che con rabbia la macchina aggancia
tra il padre morto e me che lo raggiungo.

Festa alla stazione (allo scalo Grassano – Garaguso – Tricarico; 1944)

Voci rauche, al sommo dell’estate,
e cortei con stendardi
dei vicini borghi.
Così i prati e così
variopinte le donne.
C’è la trombetta foriera di sussulto
battono i tacchi la terra
e le anime pie son ebbre
e il treno rugge
la gran fiera borbotta
di ragli abbrividenti
le farfalle fan stormo
sull’erbe gialle,
è lungo nel fiume
il lamento del rospo.

Liberate, uomini, il carcerato (1945)

Mentre insiste questa pioggia
che porta nella stanza tanta luce,
quanto basta alle tiepide cappelle,
han bussato alla tua nel silenzio
i contadini laceri,
i calzolai tisici dipinti
come l’acqua sporca della suola.
Sento, sul libro le parole
riacquistano il calore della fiamma!
L’ora dei falchi solitari
induce al refrigerio
dell’ombra delle acacie.
Le voci sono maledizioni
dei mietitori contro il sole:
non è tempo che la tua mano inerte
tracci motti sibillini
sull’arena accaldata.
Hai tu un carcerato nel tuo cuore
appeso alle sue sbarre,
così solo come sei.
I mietitori si son dato
convegno questa sera
a batter pugni sulle panche.
Essi sanno la mano sulla spalla
del datore di lavoro.
E sento che t’insorge la preghiera
tra le loro canzoni e le bestemmie:
Liberate, uomini, il carcerato.

Verde giovinezza (1945)

C’è tempo quando abbondano
lucertole nelle vigne
e a qualcuna nuova coda inazzurra,
quando nei campi spuntano covoni
impazienti di fuoco
e la cicala assorda e mi tappa
l’0recchio alle campane, alle canzoni,
al lungo richiamo di mamma
che mi rivuole vicino e suo.
Quando la fiumara è bianca…
Allora mi voglio scolare l’orciuolo
e coricarmi in terra
senza memoria più
della verde giovinezza.

La presa di coscienza (1946-50)

Nel maggio del 1946 Rocco Scotellaro incontrò per la prima volta Carlo Levi, che aveva appena pubblicato (nel 1945) Cristo si è fermato a Eboli e, come aveva promesso una decina d’anni prima, durante il confino, ai suoi contadini, tornò più volte in Basilicata. L’incontro fu decisivo per il giovane Poeta, che da lì in avanti maturerà una precisa coscienza politica che lo porterà ad interpretare le reali condizioni di marginalizzazione del Sud e ad impegnarsi attivamente nella lotta di classe.

Lo stile poetico cambia un po’, diviene più realistico e meno legato alla forma, alla musicalità. E’ più rude, a tratti più ritmato, quasi seguendo il processo di sviluppo della coscienza: si schiude, muta e, verso la fine, si affretta a crescere, quasi a voler colmare, correndo, quell’immenso baratro che distanzia il mondo contadino da quello civile, due realtà agli antipodi, che faticano a comprendersi a vicenda.

Sera lontana (1946)

Batte già il mulo il ferro sopra il ciotolo
mentre si assestano i guanciali
nelle bisacce. Si parte così
nel Sud per le campagne la mattina,
per la stazione rossa sull’arena
del fiume, ogni anno mi parto anch’io.
Io non so se posso per il mondo
tenere il pugno chiuso nell’attesa
di sgranarlo nel gioco della morra,
di tracannare oltre il desiderio
e sentire la lama del coltello
più calda della fetta rovesciata
sul tavolo a bocconi dei compagni.
Di certo non potrò sentire i canti
le nenie della mamma e le assonnate
tiritere con zampogna e tamburino.
E… La stazione non è già montagna.
Tu non risali sull’imbrunire
con frutti acerbi, paglia e fiasco vuoto
non rivedi le quattro luci a segno
di tutto il lungo borgo addormentato.
Han perduto sapore, spaesato
le tue parole. La tua terra, cara
terra, che lì questa notte respira
con grilli ridestati e le stelle,
passa qui per un inutile inferno.

Noi che facciamo? (1946)

Ci hanno gridata la croce addosso i padroni
per tutto che accade e anche per le frane
che vanno scivolando sulle argille.
Noi che facciamo? All’alba stiamo zitti
nelle piazze per essere comprati,
la sera è il ritorno nelle file
scortati dagli uomini a cavallo,
e sono i nostri compagni la notte
coricati all’addiaccio con le pecore.
Neppure dovremmo ammassarci a cantare,
neppure leggerci i fogli stampati
dove sta scritto bene di noi!
Noi siamo i deboli degli anni lontani
quando i borghi si dettero in fiamme
del Castello intristito.
Noi siamo i figli dei padri ridotti in catene.
Noi che facciamo?
Ancora ci chiamano
fratelli nelle Chiese
ma voi avete la vostra cappella
gentilizia da dove ci guardate.
E smettete quell’occhio
smettete la minaccia,
anche le mandrie fuggono l’addiaccio
per qualche stelo fondo nella neve.
Sentireste la nostra dura parte
in quel giorno che fossimo agguerriti
in quello stesso Castello intristito.
Anche le mandrie rompono gli stabbi
per voi che armate della vostra rabbia.
Noi che facciamo?
Noi pur cantiamo la canzone
della vostra redenzione.
Per dove ci portate
lì c’è l’abisso, lì c’è il ciglione.
Noi siamo le povere
pecore savie dei nostri padroni.

La città mi uccide (1947)

Datemi pure a mangiare il pane della questua
nero indurito, ho tanta voglia di lavorare.
Si sono mangiati i miei calcagni
queste strade d’asfalto dure a pestare.
Era nel vento una pioggia di piccoli prezzi
sulle immobili merci delle vetrine.
Sfolgorava sui cartelloni gente
che usciva quella volta dall’incognito
e io che minuzzavo alacremente
le cronaca viola dei miei passi perduti.
Oh stanco appendermi lo sguardo
alle luci al neon infinite.
Sentite furie: alberghi e panifici
e padroni che muovete questa ruota
orrenda che ci stride sulle carni,
ditte, navigatori, capitani sentite:
eccovela la testa del mercenario
accalappiata nel vostro frustone.
Mi avete inutile respinto
ad alloggiare nelle ville
accanto agli immondi vespasiani
e la notte mi bastonano i ladri
le prostitute mi sputano indosso.
Gerusalemme! Gerusalemme!
I porci hanno invaso gli ulivi
sotto la luna lontana,
la moda si dà convegno
nel tempio sontuoso
Bari, Napoli, Roma, Milano
i fiori, gli uccelli, la donna
qui si comprano
e io cammino con la mano al cuore
perché a forza potrebbero rubarlo.

L’agosto di Grassano (per Carlo Levi)

Grassano, qui da Santa Lucia
io t’abbraccerei.
Hai morbide trecce
le tue piante arruffate sulla nuca.
Il mandorlo che mise i suoi veli di nozze
quando ancora si sfaldavano le nevi.
Vidi che crebbero al fico i corbezzoli.
Ora l’ulivo ti presta sontuoso
lo scialle di primavera
sulle tue arse pendici.
L’amore che tu dici
lo sa l’uomo che ti passa intorno
solo sulle argille
nel cuore di mezzogiorno.

I santi contadini di Matera (1948)

Anima di lupo antico
assassinato davanti le porte
il giorno della fame più crudele,
vicina ti ridesti a noi soffusa
nel tuono del tristo orologio
e brami pane e cipolla, e miele
all’ultima ferita del corvo.
E che strazio nell’aria le campane
che ci pungono d’aghi il nostro cuore!
Che vogliono da noi?
Fanno paura agl’innocenti
come ai fanciulli beati
gli ultimi fiati del macello.
Finitela, benedette campane!
Con questi venti nei nostri tuguri
svegliate la faccia dei morti violenti
e ci fate più lupi di prima.
E voi date una mano
perché l’avranno interrata profonda
la pupa della fattucchiera
nella Gravina che circonda
i santi contadini di Matera!

I Lucani cantano monotoni (1948)

Urla la nostra canzone araba
perché solo agli zingari
noi abbiamo creduto.
Gli zingari rubano
le mandrie ai padroni
e noi cantiamo cantiamo
nella notte con loro.
Il re degli zingari è con noi
mangia con noi la carne rubata.
E noi cantiamo le lodi
solo al re degli zingari.
La donna zingara è la più bella
di quante donne che ci hanno guardato.
E noi cantiamo le grazie
delle femmine belle.
Gli animali degli zingari
hanno l’occhio mansueto
dei compagni di viaggio.
E noi compriamo i cavalli
che ci vendono gli zingari.
E solo gli zingari
ci fanno ridere e piangere
così per diletto.
Il fuoco degli zingari nel petto
le notti che il nostro tamburo
aduna i cafoni lucani
battendo nel viottolo scuro.

La benedizione del padre (1948)

Oggi fanno sei anni
che tu m’hai lasciato, padre mio.
Attendo, dicesti, figlio mio
in questo mondo maledetto.
Mi hanno messo le manette già una volta,
sto bussando alle locande per un letto
ed arrivo così lontano
che tu pare non sia mai esistito.

Un girotondo (1949)

Non ti avessi toccata, figlia della notte,
il giorno luminoso dice il mio peccato,
e i pascoli e i fiori sciolgono il segreto
ai morsi alle mani, poi che il dare è dato.
Mi guardi col volto che non era il tuo,
deve amareggiarti che non ti sono grato.
Rifiorirai più, figlia della notte,
tentando le radici per un altro giuoco,
o io sono la luce che ti ha scovata per sempre?
Un girotondo, non mi scordo mai,
cademmo e si sciolsero le dita,
io venni fino a te strisciando mani e piedi:
era al tramonto il nostro giuoco finito.

Io sono un uccello di bosco (1950)

M’hanno portato a te
i canti gemebondi della sera.
Sono il più mansueto prigioniero
che tesse nell’ombra
le maglie con l’uncino.
Mi prese la tua luce dai cespugli,
la notte mi avrebbe sommerso:
io sono un uccello di bosco
che canta nell’aria persa.

Il distacco (1950-53)

scrive Giuseppe Amoroso (tratto da un articolo di Anna Stella Scerbo, 2018):

Rocco Scotellaro doveva avvertire dentro di sé la difficoltà derivante dall’essere un” intellettuale organico” e di ambire, nello stesso tempo, al ruolo di poeta lirico. Sapeva che di rado la poesia politica si fa poesia lirica, che di rado raggiunge la categoria dell’universalità, legata com’è ad un momento preciso, deperibile nei contenuti e nelle attese. Eppure dal 1950 e per tre anni, fino alla morte, compone i versi più convincenti, più autenticamente lirici, nei quali a fare da alimento sono il senso profondo di una realtà antica, una riflessione ripiegata e drammatica sulla propria e sull’altrui condizione umana, fatta di dissonanze, di privazione e di perdita.

Aggiungo a questa pregevolissima analisi, che gli anni 1950-53 sono quelli della sintesi, secondo un probabile processo dialettico, reso più accelerato dalle tragiche vicende umane che il giovane Poeta ha dovuto subire. La sintesi è dunque la capacità di fondere i temi della coscienza politica con l’espressività poetica presente nella sua fase giovanile. L’ultima poesia che propongo in questa difficile selezione (difficile perché selezionare, in un percorso di vita poetico, è sempre un’operazione irta di rischi) fu scritta da Rocco due giorni prima dell’improvvisa morte, il 13 dicembre del ’53, dedicata alla madre. Gli ultimi due versi hanno una forza evocativa che quasi sembrano annunciare il canto del cigno.

Il grano del sepolcro (1950)

E’ cigliato nello stipo il grano
del sepolcro per Gesù bendato.
Verrà giugno, morirà anche mia madre,
voglio portarle spighe spigolate
dentro il suo scialle sacro
che per altro non avrò toccato.
Allora la casa sarà la via che mi mantiene:
muorimi, mamma mia, che ti vorrò più bene.

Il Santuario (1951)

Tramonta la veglia azzurra
nella vuota cima del cielo:
per tanto rumore negli occhi,
tanta polvere di pellegrini,
il santuario è più lontano
del nudo dei boschi che pareva
prenderlo con mano. Ora si vede,
il santuario, a quella carta sul monte
che il giorno riappende alla parete:
carceri, ospedali e la fatica
su mia madre lontana formica.

Senza titolo (1951)

L’amore in città scoppia furente
è inverecondo e loquace.
L’arsa solitudine delle anime abitua
a colpi più efferati, al disamore,
estremo, al doppio amore per
un dissetamento continuo.
Nessuno è contento e pieno.
I giorni sono più lunghi
dei lunghi tempi di amore
perché i cittadini sanno l’ora
provvisoria e devono riempirla.

Il morto (1951)

Non voglia mai far notte, mai far giorno,
è venuto di piombo il pane al forno.
Cicala canta la canzone spasa,
il tizzone si è spento nella casa.
S’alzano i gridi ringhiera ringhiera:
Giustizia nera, Giustizia nera.

E’ fatto giorno (1952)

Le piramidi di stelle in tre quattro punti del cielo
sopra un quadrone di ulivi o una vite o una gine-
stra:
terra senza consolazione finalmente stai zitta.
Ora che si rompono i tempi avrai dato ciò che puoi.
Noi ti teniamo a mente perché settembre
ricomincia,
possiamo sempre sperare i frutti di un’altra
stagione.
E’ fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi
con i panni e le scarpe e le facce che avevamo.
Le lepri si sono ritirate e i galli cantano,
ritorna la faccia di madre al focolare.
Ma non ho una bella dormiente da svegliare
né io, né i miei compagni che tutta la notte
ci hanno tenuti sotto le fruste dell’amore
e nessuno doveva cedere, guai, avanti.
L’amore non viene col giorno.

Il posto (1953)

E ora ti sei messo a posto
tieni il posto e mangi pane.
Piangi, piangi cuore contento,
non ti puoi più lamentare.
Hai fatto la faccia del pane
con la crosta e la mollica
ti diverti con la fatica,
con le femmine ti arrangi.
Piangi piangi cuore contento
non ti puoi più lamentare.
Dicevi una volta che quelli dei posti
camminano col culo
e con la faccia di pane.
E’ vero. Quelli fanno finta
di essere chissà che cosa
e fanno finta di essere niente.
Piangi piangi cuore contento
non ti puoi più lamentare.
Poi si sposano e portano le tasche
piene di chiavi ed hanno
figli femmine e maschi
e si chiamano e sono soavi.
Ma tu che hai tradito patria e onore
sei punito e non trovi l’amore,
ma tavola pronta e mangi tonno.
Piangi piangi cuore contento
finita è la fame, la sete e il sonno…

Ora che ti ho perduta (1953)

Ora che ti ho perduta come una pietra preziosa
so che non ti ho mai avuta, né spina né rosa;
non stavi al fondo della cassa che sarebbe ba-
stato
alzare panni e coperte per rivederti a posto
con pena e occhi incerti nella massa delle cose.
Ti portavo addosso con carte e matite e monete
e sapevo di perderti ma non come pietra pre-
ziosa,
credevo che tant’acqua poteva levarmi la sete.
Ora, che voglio fare? Guardare dove non c’eri
dove non sei dove non sarai coi tuoi occhi neri.

Tu sola sei vera (1953)

Colei che non mi vuole più bene è morta.
E’ venuta anche lei
a macchiarmi di pause dentro.
Chi non mi vuole più bene è morta.
Mamma, tu sola sei vera.
E non muori perché sei sicura.

In copertina Lucania ’61, quadro di Carlo Levi che omaggia Rocco Scotellaro, custodito nella Sala Levi del Museo nazionale d’arte medievale e moderna di Matera, Palazzo Lanfranchi.

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