La poesia è come la matematica. Per comprenderla bisogna scavare a fondo. Come la matematica richiede di scavare nelle profondità della ragione, la poesia richiede di scavare nelle profondità del sentimento. E non tutti ne sono capaci. Io, per esempio, non ne sono mai stato capace, se non forse in qualche fugace momento della mia vita passata.
La poesia, come la matematica, si esprime in formule sintetiche e ad ogni formula corrisponde un significato più ampio. Non è solo una questione stilistica, aspetto già affrontato in riferimento alla struttura del linguaggio e alla formazione dei versi, ma è una questione contenutistica.
Nell’evoluzione stilistica della poesia si è arrivati persino all’ermetismo, diffuso nella metà del Novecento, in cui massima è stata la compressione concettuale, a volte racchiusa in pochissime parole, salvo poi – da parte di chi ne è capace – spacchettare il significato e costruirne lunghissimi concetti, fiumi di parole.
La poesia scava nelle profondità dell’animo, incontra luci, ombre, mostri, sensazioni sopite, che si credevano ormai sparite, sentimenti che non s’immaginava nemmeno di possedere. Incontra i fantasmi del passato, che i più tengono ben sepolti nelle profondità dell’inconscio.
Il poeta è uno speleologo dell’anima, a costo di rischiare la vita, scava e va in profondità, si serve della meditazione, dei simbolismi, della natura, dell’ausilio di altri poeti, della spiritualità, della religione, dei miti, della cultura, della quotidianità, delle genti, degli usi, dei costumi, delle filosofie, insomma, di tutto ciò che è immanente e trascendente per percorrere una strada buia e scoscesa, irta di ostacoli.
Poi a volte cala la mano nel buio e ne tira fuori un mostro, una vicenda personale che l’ha segnato, un vecchio brandello d’amore, e ci costruisce sopra un verso. Ogni parola del verso, persino una virgola o un punto o un punto esclamativo sono una ferita, una sensazione, un ricordo, un sentimento, a volte contrastante.
Si dice che siano i sentimenti forti ad ispirare il poeta: una profonda passione amorosa, un odio, un dolore lancinante. Qualsiasi sia il sentimento, più è forte e più il poeta si sente pungolato e spinto a scrivere, ad esternare qualcosa che da dentro spinge per uscire fuori.
Questa considerazione, seppur comune e apparentemente banale, è vera e ha un senso profondo: ogni sentimento intenso, forte, persino doloroso, è uno stoppino di tenue luce che s’accende nell’inconscio e ci spinge a scrutarlo. Lì troviamo noi stessi, non quell’Io composto da mura e maschere che teniamo tutti i giorni quando stiamo con gli altri e persino con noi stessi, ma quell’Io intimo, rappresentato dalla nostra storia, dal vissuto, dalle esperienze, dal costrutto sentimentale che abbiamo edificato sin da infanti e che a volte esce fuori, quando meno ce l’aspettiamo, e ci spiazza, ci destabilizza, ci porta a rimettere in discussione persino i rapporti umani che credevamo cementificati o le credenze che ritenevamo incrollabili.
Ecco, il poeta non aspetta che quel suo Io riemerga all’improvviso, a mozzichi e bocconi, cogliendolo impreparato e incapace di agire. Con coraggio sfrutta il sentimento forte e lo ricerca, grazie alla luce che il sentimento fa emergere per poco nel suo inconscio, e lo scruta, ci entra persino dentro, lo analizza, arrivando anche, forse, ad affrontare i suoi demoni, per poi – pazientemente – ricostruire il tutto e dargli un senso.
Per il poeta la scrittura non è solo espressione di quanto più profondo ci sia in lui, ma è anche terapia, un modo per mettere su carta le sue emozioni, per poi tornarci, analizzarle con più freddezza, sistemarne gli aspetti stilistici per razionalizzare i versi, che non sono meri orpelli decorativi, ma rilettura razionale di un flusso di coscienza che proviene dal profondo e va ricostruito con matematica ragione.
Il poeta ha bisogno di scrivere. Non per pubblicare, quello è un aspetto secondario, nemmeno per alimentare il proprio Ego, quanto per tenere traccia dei cambiamenti, dell’evoluzione dell’udito. Quell’udito che affina sempre più quando inizia ad ascoltare la voce interiore. E allora scrive, come fosse un sintetico diario del proprio percorso. Se per un periodo non scrive, i critici lo interpretano come perdita d’ispirazione. In realtà i tempi dell’anima non sono simili ai tempi della vita individuale, terrena.
A volte il poeta è incapace di gestire l’irruente potenza del misticismo a cui accede scrutando le profondità della propria anima e reagisce in modo scomposto, ricercando nel mito, nella storia e nell’incontro quelle ragioni che possano placare l’anima e spiegare i motivi di processi così apparentemente incomprensibili. Ma è il tempo l’unica ragione che eleva a intellegibili fenomeni così incomprensibili, tanto da arrivare – in alcuni casi – a far comprendere la pienezza della vita.
Alda Merini
Come accadde, per esempio, ad Alda Merini. Senza entrare nei dettagli della sua vita (qui un ottimo riassunto, raccontato dalle figlie), quello che vorrei mettere in luce è che, anni dopo le sofferenze patite in manicomio, Alda scrisse
Ho la sensazione di durare troppo, di non riuscire a spegnermi: come tutti i vecchi le mie radici stentano a mollare la terra. Ma del resto dico spesso a tutti che quella croce senza giustizia che è stato il mio manicomio non ha fatto che rivelarmi la grande potenza della vita.
Ecco una poetessa che ha scandagliato l’intima essenza della sua anima, subendone pure pregiudizi sociali, ma – alla lunga – ha riconosciuto la grande potenza della vita, grazie non solo ad un’accurata analisi introspettiva, ma grazie all’incontro, al mito, che riecheggiano costantemente nelle sue opere.
Mi permetto di citare qui una sua poesia, scritta quando aveva 18 anni e raccolta in La Presenza di Orfeo, sua prima pubblicazione.
Luce
Chi ti scriverà, luce divina
che procedi immutata ed immutabile
dal mio sguardo redento?
Io no: perché l’essenza del possesso
di te è “segreto” eterno e inafferrabile;
io no perché col solo nominarti
ti nego e ti smarrisco;
tu, strana verità che mi richiami
il vagheggiato tono del mio essere.
Beata somiglianza,
beatissimo insistere sul giuoco
semplice e affascinante e misterioso
d’essere in due e diverse eppure
tanto somiglianti; ma in questo
è la chiave incredibile e fatale
del nostro “poter essere” e la mente
che ti raggiunge ove si domandasse
perché non ti rapisce all’Universo
per innalzare meglio il proprio corpo,
immantinente ti dissolverebbe.
Si ripete per me l’antica fiaba
d’Amore e Psiche in questo possederci
in modo tanto tenebrosamente
luminoso, ma, Dea,
non si sa mai che io levi nella notte
della mia vita la lanterna vile
per misurarti coi presentimenti
emananti dei fiori e da ogni grazia.
Ho citato questa, tra le tantissime poesie di Alda Merini, perché forse rappresenta più compiutamente l’intreccio poetico tra immanenza, trascendenza, mito e incontro. Il tutto sintetizzato in giochi di parole che, da sole, descrivono la complessità dell’animo nel suo essere immanente e nelle sue relazioni con l’altro e con la struttura del mito. Ecco, Alda Merini è una poetessa, una di quelle con la P maiuscola. Non che altri Poeti che hanno solcato la storia letteraria non lo siano, ma lei, per me, sintetizza l’essere poeta, il saper racchiudere in una formula quanto di più complesso l’animo umano possa partorire, in se stesso e nel mondo che lo circonda.