Riflessioni su Finlandia e felicità

Davvero la Finlandia è il paese più felice al mondo, ormai da quattro anni, secondo l’ONU? Dalla classifica parrebbe di sì, ma c’è chi non è d’accordo. Ma poi, cos’è la felicità? Considerazioni sparse sul fatto che sì, forse ci sta che in Finlandia si rasenti la felicità e che questo concetto non corrisponda a quello di avere.

Da qualche anno a questa parte, più o meno in questo periodo, mi imbatto sempre nella immancabile classifica dei paesi più felici al mondo e, ormai da quattro lunghi anni, secondo il World Happiness Report, lo studio annuale condotto dalle Nazioni Unite che si basa sull’analisi del benessere delle popolazioni di 156 Paesi del mondo, la Finlandia arriva sempre prima.

Ora, non metto in discussione i criteri con cui vengono stilate queste classifiche; semmai metterei in discussione le classifiche in sé che, da pochi decenni a questa parte, ci ammorbano su ogni aspetto del vivere, facendoci litigare o invidiare i vicini (la cui erba è sempre più verde).

E così ci ritroviamo con le classifiche delle città più vivibili, del paese più ricco, della località più turistica, di quella che ha le gelaterie migliori, della città più inquinata o di quella dove ci sono più animali domestici.

Ma basta, dai. Preferisco vivere nell’ignoranza di sapere se la città vicina è più bella della mia e in che posizione si colloca. Già, esiste pure la classifica delle città più belle, come se la bellezza avesse criteri oggettivi per poter essere definita e classificata.

Ma viviamo in un’epoca storica dominata dalla modalità dell’avere, parafrasando Fromm, la cui ideologia di fondo tende a rendere qualsiasi cosa un oggetto (ovviamente anche l’essere umano ed i suoi sentimenti), sicché tutto dev’essere misurabile e, di conseguenza, tutto deve avere un prezzo. E’ la paranoia della borghesia: misurare, inscatolare, etichettare, prezzare, vendere. Come pacchetti d’un commercio.

La Finlandia è davvero felice?

Insomma, neanche la felicità, al pari della bellezza (e di qualsiasi altro concetto astratto e soggettivo), può essere catalogata, criterizzata, oggettivata ed inserita in un ranking, sicché anche questa specifica classifica che oggi ho deciso di perderci tempo per commentarla può essere seria, seppur provenga da un importante Organismo sovranazionale, l’ONU.

Ma detto organismo è governato da quella classe sociale che rende tutto un grande mercato, quindi sì, si permette pure di oggettivare la felicità e renderci persuasi che sia possibile farlo.

Non è dunque mia intenzione commentare la classifica o mettere in discussione il fatto che i finlandesi siano più felici dei norvegesi o dei greci (oddio, date le ultime razzie euro-germaniche in Grecia, ci sta che lì non siano proprio felicissimi), quanto evidenziare le contraddizioni ed il cortocircuito che i finlandesi creano in queste classifiche e, di conseguenza, la critica di fondo ad un modello diffusissimo, quasi globale, di sviluppo che, però, non porta le popolazioni ad essere felici (detta papale papale: il modo di produzione capitalistico).

Felici (ma neanche) sono solo quell’1% di popolazione che depreda l’80% delle risorse globali e sfrutta più o meno la metà della popolazione, forte che il restante 49% (percentopiù percentomeno) è composto da classi sociali variamente definite, ma grossomodo strumentali, ignoranti, incapaci di formare una propria autonoma visione del mondo e, soprattutto, parassitarie.

In Finlandia questa forma di depredazione (e depravazione) sociale è relativamente assente o, meglio, è governata da uno Stato sociale ben più forte rispetto ad altri del sistema Europa o, peggio, anglo-americano, che redistribuisce meglio le risorse provenienti dalla tassazione, contribuendo a limitare fortemente i fenomeni di disuguaglianza sociale, che – è scontato ribadirlo – contribuiscono fortemente all’infelicità e all’ingiustizia sociale.

Mi rende più felice un ospedale che funziona bene o un autobus che arriva in orario di uno smartwatch all’ultimo grido, che si rompe in un anno. Che ci volete fare, ho altre priorità.

Ma cos’è la felicità?

Insomma, se qualcuno dicesse (come spesso si sente dire) che la felicità non esiste, non sbaglierebbe tutto sommato, se si considera la felicità come il massimo piacere, ossia soddisfazione di ogni desiderio o bisogno soggettivo che una persona possa avere.

Perché nel momento in cui si raggiunge un grado di sviluppo materiale e di benessere individuale, ecco che sopraggiunge il desiderio di maggior benessere o di un piacere di natura diversa. Il tutto in una continua rincorsa all’avere, come un criceto nella ruota, che corre corre, senza mai raggiungere alcun luogo.

In questo quadro più si ha, più si desidera e più si consuma più si è insoddisfatti di quanto si ha, per illudersi che avendo di più o qualcosa di diverso (un modello nuovo di telefono, un’auto diversa, ecc.) si possa raggiungere attimi di felicità, in realtà si sta solo placando l’ansia.

Se invece si considera la felicità come l’armonia tra l’essere umano, se stesso inteso in senso spirituale, e ciò che gli sta intorno, inteso come ambiente sociale e naturale, allora il discorso cambia, perché la continua ricerca dell’armonia, nel senso del divenire, ossia del conflitto dialettico tra individuo, gruppo e ambiente (e l’insieme di essi), porta a quell’equilibrio che lo stesso Eraclito aveva identificato come la vita, in parole estremamente povere, come l’essere.

Del resto, come diceva Marx, il lusso è un vizio esattamente come la povertà; dovremmo proporci come meta quella di essere molto non già di avere molto.

I finlandesi sono tutto questo? Perseguono l’essere? So’ così evoluti? Nossignore, tuttavia adottano un paradigma diverso, il ché si evince pure dalle interviste fatte dal Corriere della Sera ad alcuni nostri connazionali che vivono lì e che, occorre sottolinearlo, in alcuni casi sono critiche, nel senso che considerano queste forme di felicità come un cliché. Eccone giusto qualcuna.

Questo primato è realistico soltanto se per felicità si intende una vita facile e tranquilla.

Si vive bene, c’è uno stato sociale forte, i servizi funzionano, la vita è facile. Ma anche semplice, la gente apprezza piccoli piaceri, si appaga del contatto con la natura.

Poi, come ha opportunamente spiegato uno psicologo italiano che vive lì

Ma lo sa che felicità in finlandese si dice “onni”, che significa beato, pacifico, tranquillo? Questo è un Paese a basso voltaggio energetico. Felicità qui non significa allegria, ma quieto vivere, assenza di problemi e ostacoli. Serenità e fiducia nel prossimo: si vedono bambini di 7 anni da soli sui mezzi pubblici.

Il rapporto con la Natura

Il relativo sviluppo industriale (la Finlandia era nota quasi esclusivamente per la Nokia), un modello agricolo eco-sostenibile (sono quasi del tutto assenti forme di agricoltura intensiva) e un sistema produttivo integrato e diffuso, che consente uno sviluppo orizzontale e limitatamente verticale, ha prodotto un territorio ancora fortemente naturalizzato, dove le foreste occupano quasi il 74% del territorio finlandese, che è poco più grande dell’Italia a fronte di una popolazione di poco inferiore ai 6 milioni di abitanti (insomma, quasi una Roma in un giorno lavorativo qualsiasi).

Ciò ha contribuito a creare una coscienza ambientale piuttosto radicata e diffusa, che – guardacaso – si sviluppa sempre in zone dove l’ambiente è stato tutelato, con lungimiranza, durante il periodo dello sviluppo industriale selvaggio (da fine Ottocento ai ruggenti anni Ottanta, tolto il periodo delle grandi guerre).

La Toscana o il Trentino Alto Adige, per fare un esempio nostrano, sono regioni a forte sentimento ambientalista, perché sono state capaci di preservarsi e non cadere nel tranello dell’industrializzazione selvaggia, con ciò apprezzando – collettivamente – l’importanza del rapporto tra Uomo e Natura. Sul piano globale il Canada è un esempio parallelo.

Ora, in un quadro simile è più facile sentirsi a contatto con la Natura, anche in un contesto climatico ostile (la Finlandia è soggetta a bruschi contrasti luce/buio), proprio perché, sin da bambini, i finlandesi hanno la possibilità di conoscere la Natura e i relativi processi naturali.

Ciò li porta ad essere più realisti e a sviluppare anticorpi contro l’alienazione tipica del vivere in contesti fortemente urbanizzati, in cui si arriva ad ignorare la stagionalità della frutta, dato che ai banchi del supermercato si trova tutto l’anno. O ad ignorare che a raccoglierla, la frutta, ci sono eserciti di braccianti sfruttati e sottopagati, come ha spesso evidenziato Aboubakar Soumahoro, ironizzando (anche se non tanto) che la frutta e la verdura non crescono sui banchi del supermercato.

L’uomo è un animale – pur pensante, razionale, sociale – resta comunque una componente della biodiversità naturale. Estrapolarlo dal contesto naturale e inserirlo in contesti alieni (tipici della contemporaneità) produce effetti più o meno noti e più o meno violenti sullo stato di salute psico-fisica.

Diritto di conoscere la Natura

Sarà per questo che la Finlandia è andata oltre. Non solo dispone di un’estensione naturale enorme, ma concede a cittadini e visitatori di fruirla gratuitamente, evolvendo l’antico concetto di uso civico.

Gli usi civici, istituto giuridico sorto nel Medioevo, soprattutto in Italia, servivano a garantire la sopravvivenza e il benessere di una comunità, inclusa in un feudo, alla quale era consentito dal sovrano di sfruttare in modo produttivo determinate aree. Da qui nasceva il diritto di entrare nel fondo per caccia, legnatico (raccolta legna), fungatico (raccolta funghi), erbatico (cioè il pascolo e anche la raccolta di erbe spontanee), ecc.

Questi usi sopravvivono ancora in Italia, anche se la costante urbanizzazione li ha svuotati di significato in numerosi contesti sociali.

In Finlandia gli usi civici si sono evoluti dialetticamente tanto da diventare un vero e proprio diritto individuale. Jokamiehenoikeudet lo chiamano, che tradotto significa proprietà di tutti.

Insomma, è possibile accedere al suolo pubblico (che è estesissimo), ma anche privato (ad eccezione di luoghi tutelati per oggettivi motivi) ed esplorare liberamente le regioni rurali, raccogliere funghi e frutti di bosco, pescare con canna fissa e fare uso ricreativo delle aree naturalistiche, senza i lacci e lacciuoli che caratterizzano le aree naturalistiche italiane, per cui se ti trovano con una canna da pesca in un’area marina protetta, t’appioppano una multa di 2000 euro.

Proprietà collettiva vs individuale

E curiosamente, più una proprietà pubblica (o privata, indifferentemente) viene considerata collettivizzata, più viene protetta dai suoi stessi fruitori, a differenza della concezione per cui al crescere del senso della proprietà, cresce la disaffezione verso l’ambiente e le comunità.

Detto in altre parole, il fatto che in Italia, specie nel Meridione, sia diffuso lo scarso senso ambientale, non dipende solo e tanto dalla cultura o dalla mentalità del posto (i quali sono concetti fumosi, che spesso degenerano in qualunquismi), quanto dallo sfaldamento della concezione, ad opera della piccola borghesia, che apparteneva alla Civiltà contadina (ben prima che la Finlandia fosse pure abitata), per cui un certo bene è sia individuale che comune, soggetto a forme solidaristiche e mutualistiche.

Da ciò ne consegue che più è cresciuta la concezione della proprietà come diritto assoluto ed individuale, più si è sfaldata la maglia collettivistica e più si è rotta la concezione della terra e dell’ambiente come una cosa di tutti.

In Finlandia il rispetto dell’ambiente dipende invece da ciò: una concezione della terra come una cosa di tutti, anche e non solo mia. Ciò ovviamente produce forme di rispetto dell’ambiente, in un’ottica collettiva.

Insomma, mentre in larghi strati sociali d’Italia la concezione diffusa è roba di tutti, roba di altri (quindi chissene), in Finlandia vige l’opposto paradigma: roba di tutti, roba mia (quindi ci sto attento). E le conseguenze, sul piano del rispetto dei beni comuni, si possono vedere (e/o immaginare).

Tempo liberato dal lavoro

In un quadro di Stato sociale evoluto (almeno rispetto a numerosi paesi europei, tra cui l’Italia) la politica dell’attuale Premier del governo finlandese tende ad individuare le reali criticità sul piano delle relazioni sociali.

Mentre nei paesi a capitalismo avanzato ci si nasconde dietro ad un dito, dicendo che la colpa delle crisi (oltre al covid) sono le troppe tutele sul lavoro e che per superarle bisogna lavorare di più e in modo più flessibile (ossia precario, cosa che trova d’accordo pure i sindacati), la giovanissima premier, invece, fa una proposta radicale, in linea con il perseguimento della felicità: lavorare meno, lavorare tutti.

La recente proposta è finalizzata alla riduzione delle ore di lavoro, passando dalle attuali 8 a 6 ore quotidiane, a parità di salario, mentre in Italia la rivoluzionaria proposta del M5S era quella del salario garantito (che peraltro avrebbe prodotto forme maggiori di sfruttamento), senza mettere in discussione lo sfruttamento della giornata lavorativa.

Finlandia, la premier promuove la riduzione dell’orario di lavoro

 

Ovviamente in Italia si sono affrettati a dire che si è trattato di una bufala e che non c’è, nell’agenda del governo finlandese, una proposta simile. Difatti la Premier la espresse in un’occasione informale, quando era ancora Ministro, nel 2019.

Ora, al di là del fatto che tale intendimento sia stata una proposta istituzionalizzata o meno, è comunque una notizia reale (la proposta l’ha fatta davvero, non importa in che sede) che affronta un nodo essenziale dei rapporti sociali: lo sfruttamento del tempo dei lavoratori.

E mette il dito nella piaga di un sistema economico di stampo capitalista che fa dello sfruttamento del plusvalore (le ore in più che il lavoratore dedica sono quel tanto in più che serve a remunerare il capitale, cioè ad ingrassare lo sfruttatore, che poi userà quei soldi per fare speculazioni finanziarie) il proprio fondamento.

La proposta, come detto, è stata fatta dall’attuale Premier come parere personale, ma l’ha fatta. Ne ha parlato. Ha parlato di un argomento tabù per l’alta borghesia, che ha una paura matta ad affrontare quest’argomento. E sono sicurissimo che prima o poi, durante il suo mandato, la Premier la formalizzerà e aprirà un dibattito politico nazionale ed europeo (che in Italia oscureranno e minimizzeranno).

Ad ogni modo, mettere in discussione il furto del tempo, ai danni dei lavoratori, per alimentare quell’1% di popolazione che usa i soldi per depredare terre e comunità, se per voi non è felicità, per me quasi la raggiunge.

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