Il 29 marzo ci sarà il referendum confermativo costituzionale relativo al taglio dei parlamentari (Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari), che prevede la riduzione del numero di deputati da 630 a 400 e del numero di senatori da 315 a 200, portando quindi il numero complessivo dei parlamentari da 945 a 600.
NB A seguito delle misure emergenziali per la lotta al coronavirus, il referendum è stato spostato in autunno.
In passato ho parlato della mia contrarietà alla riforma, ma oggi voglio trattare l’argomento inserendo un ulteriore elemento di riflessione.
Non deve trarci in inganno il fatto che la proposta del taglio dei parlamentari sia arrivata da un movimento giovane e (a detta loro) anti-casta; come ebbi modo di dire qualche tempo fa, tale riforma ha radici lontane e s’innesta in un quadro di progressiva riduzione della rappresentatività e del metodo di decisione democratico. Dunque il M5S, qualunque siano le motivazioni estrinseche che l’hanno spinto a fare tale proposta, non fa altro che attuare un processo di accentramento già ben radicato e di cui abbiamo riscontri oggettivi negli ultimi decenni di storia repubblicana.
Non voglio addentrarmi nei motivi intrinseci, tipo, per esempio, che il M5S (almeno al suo vertice) rappresenta interessi privati ed economici, ma voglio sottolineare che il taglio dei parlamentari è intimamente connaturato al sopravvento del potere esecutivo sul potere legislativo nonché ai tentativi di istituire in Italia l’elezione diretta del Premier, tutte misure orientate ad accentrare i processi decisionali politico-istituzionali.
Questi tre argomenti (taglio dei parlamentari, sopravvento del potere esecutivo, elezione diretta del Premier) sono indissolubilmente legati e il fatto che sia stato Renzi, di recente, a reintrodurre l’argomento dell’elezione diretta del Premier, definendolo Sindaco d’Italia (qualche giorno fa e nel 2013), nemmeno deve trarre in inganno, perché gli schieramenti politici, seppur formalmente avversari, rispondono alle medesime logiche e ai medesimi interessi dell’alta borghesia, la quale – attraverso il potere politico – può più facilmente gestire il potere economico e attuare i propri programmi.
Non è un caso – come ebbi modo di dire – che l’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti e la conseguente introduzione dei finanziamenti privati abbiano di fatto aperto le porte ai grossi gruppi industriali e finanziari, anche transnazionali, nella gestione indiretta delle scelte politiche dei rispettivi partiti o movimenti da essi finanziati. In altre parole il finanziamento privato di fatto comporta un’ingerenza nelle strategie politiche e l’orientamento di esse verso la soddisfazione di interessi del tutto alienati dall’interesse pubblico.
I decreti legge
La Costituzione italiana disciplina i modi e i termini del ricorso alla decretazione straordinaria e d’urgenza, prevedendo che solo al verificarsi di certe condizioni (“in casi straordinari di necessità e di urgenza” dice la Costituzione, all’art. 77) si può derogare all’ordinaria formazione delle leggi e consentire al Governo di emanare un provvedimento normativo in piena autonomia, salvo poi presentarlo subito alle camere, le quali devono convertirlo in legge entro 60 giorni, altrimenti il provvedimento perde d’efficacia.
Straordinarietà e urgenza. Queste sono le condizioni che pone la Costituzione circa l’uso dei decreti legge. Eppure da quasi 40 anni sono diventati, insieme ai decreti legislativi (che prevedono una delega al governo da parte del Parlamento per la produzione di un testo di legge) lo strumento ordinario di formazione delle leggi.
L’uso della decretazione d’urgenza ha avuto un’impennata negli anni Ottanta (in concomitanza con la crisi del PC) per poi essere progressivamente usato come regola anziché come eccezione, tanto che addirittura l’allora Presidente della Repubblica Cossiga, durante il suo settennato, si rifiutò diverse volte di emanare un decreto legge denunciando formalmente l’abuso dello strumento. Difatti, nella storia repubblicana, i vari governi, attraverso i decreti legge, hanno regolato di tutto: opere pubbliche, istruzione, università, pensioni, lavoro, edilizia, telecomunicazioni ecc. (per un ottimo approfondimento della questione, vedi qui).
Insomma, è sufficiente inserire un vago riferimento all’urgenza o alla straordinarietà della vicenda (anche quando è palesemente inverosimile, in considerazione dei fatti o della materia trattata) per utilizzare lo strumento. Negli anni questa prassi si è assestata, anche a motivo della scomparsa dal Parlamento di forze reali d’opposizione e dalla progressiva uniformazione ideologica che ha condotto i partiti al bipolarismo formale, conseguenza della borghesizzazione sostanziale del Parlamento, preludio del pensiero unico in tema di interessi economici alti.
Gli stati d’emergenza
Non va anche sottaciuta la prassi di considerare come stato d’emergenza qualsiasi evento, preso singolarmente che, invece, andrebbe affrontato in un’ottica unitaria e con provvedimenti strutturali ed incisivi. Negli ultimi anni, per esempio, le crisi aziendali derivanti dalle crisi globali (non ultima quella del 2006), le crisi idrogeologiche e ambientali derivanti dai cambiamenti climatici (che affondano le radici nel secolo passato), le crisi fitosanitarie (anch’esse effetto dei cambiamenti climatici e del mercato globale) o anche gli interventi in materia di lavoro, edilizia scolastica, sanità, ecc. sono stati affrontati con il metodo dell’emergenzialità e dunque con provvedimenti governativi se non addirittura ministeriali.
Tale metodo consente una più discrezionale azione amministrativa e limitati poteri di controllo, anche in ambito finanziario, permettendo dunque di aggirare il metodo democratico nella gestione di temi di ampia rilevanza socio-economica.
L’elezione diretta del Premier
Renzi sta riproponendo, nelle ultime settimane, l’elezione diretta del Premier, che prevede di accentrare sul Presidente del Consiglio numerosi poteri, tra i quali quello di sciogliere le camere, di nominare e revocare i ministri, di determinare la linea politica (non coordinare il Consiglio dei Ministri, ma dirigerlo proprio), di formare direttamente le leggi. Quindi il Premier avrebbe pieni poteri e deciderebbe sostanzialmente da solo, bypassando ogni forma di metodo democratico. Quello che spinge Renzi a ripresentare questa proposta non è solo la tracotante volontà di tornare al potere, ma un esperimento mediatico di frammentazione della riforma da lui proposta nel 2016 in vista della prossima consultazione referendaria.
Il tentativo di riforma costituzionale del 2006
L’argomento dell’elezione diretta del Premier è intimamente connesso ai precedenti: accentramento del potere nelle mani dell’esecutivo (in particolare del Premier), svuotamento di potere del Parlamento (e della relativa rappresentatività e funzione di controllo) e riduzione del numero dei parlamentari. Una proposta simile a quella fatta oggi da Renzi e alla riforma costituzionale voluta dal M5S è stata fatta, oltre che nel 2016, nel 2006, su proposta del centro-destra e su cui l’elettorato si espresse negativamente.
Quello che allora uscì dalla porta oggi rientra dalla finestra, grazie al connubio Renzi/M5S/Lega. E non si dica che si tratta di argomenti diversi, dato che l’allora riforma costituzionale è identica ai temi tanto a cuore oggi alle attuali forze politiche: premierato, riduzione del numero dei parlamentari, federalismo (c’era anche quello nella riforma del 2006, simile all’attuale regionalismo differenziato, con l’eccezione che oggi spudoratamente solo alcune regioni del Nord chiedono simili prerogative).
Il finanziamento privato
Come già accennato, il finanziamento privato ai partiti è l’arma che i grossi gruppi industriali e finanziari hanno per orientare le scelte politiche in Italia, incluse le scelte sull’accentramento dei poteri e sulla riduzione della rappresentatività. Inoltre il finanziamento privato rafforza la presenza sul territorio dei partiti dominanti, impedendo ai gruppi subalterni di esprimere il proprio dissenso con la creazione di un proprio soggetto politico.
Quand’anche un partito nuovo e privo di sponsor alle spalle riuscisse ad accedere in Parlamento, riceverebbe scarsi finanziamenti pubblici (destinati al gruppo parlamentare) né, ovviamente, riceverebbe mai finanziamenti privati e non avrebbe i fondi sufficienti per competere con partiti plurifinanziati, sia lecitamente che illecitamente.
Si configura così una competizione elettorale del tutto privata, i cui esiti porteranno gli schieramenti a rappresentare presso le strutture democratiche non gli interessi del ceto di riferimento o, in larga parte, della nazione, ma dei propri finanziatori, da qui la nascita di provvedimenti normativi accentrati e spesso irrazionali, al cui interno si annida la volontà di salvaguardare gli interessi dei centri di potere economico.
Ognuno di questi argomenti va letto in modo organico, perché se prendiamo i singoli temi potremmo anche rinvenire qualcosa di buono, ma non comprenderemmo quale percorso si sta tracciando per portare l’Italia (e, più in generale, buona parte dei paesi occidentali) verso l’oligarchia e l’esclusione di ogni forma di legittimo dissenso.
Ecco perché è necessario opporsi all’attuale riforma costituzionale, non tanto perché così ogni elettore pagherà solo un euro all’anno (a tanto ammonta il risparmio sbandierato dai 5S), o perché ci piace l’attuale classe politica, quanto perché è indispensabile lanciare un segnale forte ai loro padroni: l’Italia è una Repubblica democratica, una e indivisibile e la sovranità appartiene al popolo, che non è così stupido come credono.