L’arresto di Matteo Messina Denaro ha suscitato un dibattito serrato che ha visto, grossomodo, due schieramenti contrapposti. Da un lato i sostenitori della legalità, che plaudono alle forze dell’ordine e alla magistratura. Dall’altro lato i dubbiosi, che si chiedono come mai ci siano voluti 30 anni per arrestarlo e alludono a connivenze tra Stato e mafia. Nel dibattito, però, manca un concetto fondamentale: cos’è la legalità e serve davvero a sconfiggere la mafia?
La rete è piena zeppa di articoli su Matteo Messina Denaro, arrestato dopo 30 anni di latitanza. Se ne parla ovunque, nei tiggì, nei talk show, per strada, al bar. Ovunque si analizza sotto la lente ogni dettaglio dell’arresto, dei covi, dei documenti, pizzini e oggetti sequestrati, dei suoi protettori.
Si parla tanto pure del fatto che sia stato portato via, dalle forze dell’ordine, senza manette. Quasi a voler simboleggiare una sorta di rispetto, da parte delle istituzioni, verso la figura del boss. Si parla pure del fatto che non è giusto curarlo a spese dello Stato, in una sorta di discussione che tende sempre di più verso la melma.
Insomma, si sta parlando di ogni dettaglio, ogni lato, ogni vicenda di questa storia, con toni da tifoseria da stadio.
Il grande assente
Ma c’è un grande assente nel dibattito, che invece occorrerebbe analizzare a fondo per capire come davvero si può affrontare la cultura mafiosa, ovverosia: cosa diavolo è il principio di legalità e perché è una stronzata invocarlo?
Giorni fa leggevo diverse interviste o editoriali, tutti accomunati dal fatto che la mafia si combatte con la cultura della legalità.
Scrive il direttore del quotidiano online Provincia Cremona,
la sfida della legalità passa attraverso un cambio di abitudini e di mentalità da compiere a ogni livello. E a ogni latitudine. L’autentico riscatto del Paese, la rinascita dell’Italia come Stato e come comunità, sarà possibile solo con un ritorno collettivo al rispetto delle regole, delle leggi, dei doveri.
Oppure così si pronuncia l’ex presidente del parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, attualmente sotto scorta perché miracolosamente scampato ad un agguato nel 2016, in una lunga intervista a LeccePrima,
Fondamentale è la differenza tra prediche e pratiche: la lotta alla mafia si fa con dovere di cittadinanza e nella consapevolezza che il miglior testo antimafia è la Costituzione.
Come non essere d’accordo con queste parole? Eppure, c’è qualcosa di fondo che non convince, che ci lascia perplessi, che non ci entusiasma quando sentiamo parlare del rispetto della legalità e della cultura della legalità.
Che cos’è il principio di legalità?
Una critica al principio di legalità non può prescindere da una sua, seppur sommaria, definizione. Questo perché, per capire dove voglio andare a parare parlando di critica al concetto di legalità, occorre sapere che cos’è.
Non c’è una definizione scritta del principio di legalità. Non nella Costituzione, né in leggi ordinarie né nelle fonti costituzionali europee, tipo il Trattato sull’Unione europea o il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Nemmeno nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea o nelle varie Convenzioni e carte di diritto internazionale.
E’ un principio che si ricava dal fondamento stesso degli ordinamenti moderni a base democratica. La democrazia rappresentativa.
Ogni ordinamento democratico, specie quelli di Civil Law (cioè quelli in cui prevale la legge scritta, contrapposti ai sistemi di Common Law, in cui prevale il precedente nel definire un caso concreto), è fondato sul principio di rappresentatività e su quello di prevalenza della legge.
La rappresentatività
Da un lato abbiamo il Parlamento che rappresenta gli interessi del proprio elettorato in quanto, ogni tot anni, viene eletto direttamente dai cittadini.
La nostra Carta costituzionale metteva al centro della rappresentatività parlamentare quella fondata sulla rappresentanza delle anime del paese. Il ragionamento di fondo era più o meno questo. I partiti rappresentano le classi sociali, gli orientamenti del paese, i quali si presentano alle elezioni, vanno in Parlamento e qui discutono dialetticamente degli interessi dei propri rappresentati. Da questa discussione ne nascono leggi equilibrate, che tengono conto di ogni interesse.
Questo finché, qualche decennio dopo, non è avvenuto un fatto epocale, che ha squilibrato quest’assetto: il crollo delle ideologie. Anzi, di una sola, quella comunista e, di conseguenza, socialista, a tutto vantaggio dell’ideologia liberista. La quale, da allora, ha assorbito – anzi, direi sussunto – ogni ideale partitico a sé.
Da allora, sul piano nazionale ed internazionale c’è stato un tentativo di rimettere in piedi un’ideologia contrapposta a quella liberista, divenuta nel frattempo globale, con alterni risultati, finché le violenze del G8 di Genova, nel 2001, non hanno dato la mazzata finale ai movimenti no-global, generando un trauma collettivo che riecheggia ancora oggi, a più di 20 anni di distanza.
Il sistema delle fonti
Il Parlamento, composto sulla base di partiti, confluiti in gruppi parlamentari, emana le leggi, mentre il Governo le applica e amministra il Paese (dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, accanto a Regioni ed enti locali).
L’altro pilastro del principio di legalità è il sistema delle fonti, che funziona in maniera gerarchica. C’è prima la Costituzione, che garantisce i principi fondamentali, declara i diritti e doveri dei cittadini (parte I) e definisce l’assetto dell’ordinamento (parte II).
Poi, nel rispetto della Costituzione, vengono emanate le leggi ordinarie. Discusse e votate dal Parlamento e promulgate dal Presidente della Repubblica. Oggi anche dalle regioni, secondo un sistema di elencazione fatto dall’art. 117 Cost.
In maniera residuale, abbiamo poi gli atti aventi forza di legge, tra cui i decreti legge e i decreti legislativi.
Infine abbiamo una lunga serie di atti amministrativi che si basano esclusivamente sulla legge (tra cui regolamenti, decreti, ecc.).
Da quando l’Italia ha aderito alla Comunità Economica Europea (CEE) e poi all’Unione Europea (UE), nel sistema delle fonti sono entrate anche quelle derivanti dall’appartenenza all’UE, quindi i vari trattati fondamentali (tipo la Carta di Nizza, il trattato di Maastricht, ecc.) assurgono al rango di carte costituzionali, mentre gli atti giuridici dell’UE (direttive, decisioni, ecc.) hanno valore di legge o di atto amministrativo.
Quindi cos’è il principio di legalità?
Tutto sto popò di pappone serve a farci capire che il principio di legalità si basa, appunto, sulla legge.
La legge è fatta dal Parlamento, sulla base della rappresentatività. Serve a orientare i comportamenti dei consociati e garantire che non ci siano abusi da parte del potere.
Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, ogni limitazione dei diritti fondamentali deve avere una base legale. Cioè un fondamento normativo certo e conoscibile nel diritto dello Stato parte alla cui giurisdizione è sottoposto l’individuo titolare del diritto.
Dunque il principio di legalità afferma che ogni attività dei pubblici poteri deve trovare legittimazione in una legge, quale atto degli organi rappresentativi, unici organi di diretta espressione della sovranità popolare.
Ma che succede se la legalità…
Per ricapitolare, il principio di legalità si basa sulla legge e sulla rappresentatività del Parlamento. Questi due sono i pilastri del concetto di legalità.
Ma che succede se uno dei due pilastri – o meglio, entrambi – cadono? Che il principio di legalità resta in piedi, nella forma, ma nella sostanza coincide con il concetto di ingiustizia. E’ da questa trasformazione che si generano le contraddizioni che tra poco vedremo e che distinguono la legalità in senso formale da quella in senso sostanziale.
Sono caduti entrambi i pilastri? Di fatto sì, ma il sistema politico-economico-costituzionale li mantiene in piedi solo in apparenza, perché ad oggi non esiste un soggetto politico che metta in luce questa enorme contraddizione, in quanto tutte le soggettività politiche in campo sono accomunate dall’aderenza al neo-liberismo, cui non pongono alcuna critica, anzi, ci sguazzano dentro.
Ecco perché, in quest’articolo, dicevo che, in Italia, non c’è alcuna differenza tra destra e sinistra, quantomeno nell’arco parlamentare. Perché entrambe si trovano impacchettate nella stessa scatola liberista. Dunque le uniche differenze sono a livello di sovrastruttura, ossia tematiche, ma i veri problemi del Paese non verranno mai risolti da questa classe politica, perché il vero problema, il sistema economico, non viene mai messo in discussione.
Per capirci, analizziamo entrambi i pilastri.
La legge
La legge, come sappiamo, è lo strumento fondamentale per disciplinare in modo chiaro, organico e coerente una data materia.
Ciò serve per orientare il comportamento dei consociati e tutelare tutti gli interessi protetti dall’Ordinamento. Ma, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, sono iniziati due processi paralleli.
Il primo di lenta erosione dello strumento legislativo a tutto vantaggio della decretazione d’urgenza e, poi, dell’abuso degli strumenti amministrativi.
Il secondo di graduale devoluzione della sovranità legislativa a vantaggio del sistema Europa, oggi giunto a maturazione, in cui la legge (o gli atti aventi forza di legge) viene emanata non solo da un organo rappresentativo (mettiamo: il Parlamento europeo), ma da organi non proprio rappresentativi degli strati sociali, bensì di un complesso assetto economico, finanziario e industriale (la Commissione europea, il Consiglio europeo, persino la BCE).
E’ partito tutto, più o meno, dalla prevalenza del tatcherismo in Europa e dal processo di unificazione economica del vecchio Continente, dapprima con la CEE e poi, come sappiamo, con Maastricht, che ha sancito l’unione monetaria e ha imposto agli Stati membri determinati limiti economici, fiscali e monetari, incompatibili con il processo democratico e la tutela dello Stato sociale.
Da quel momento, complice anche un processo interno ed internazionale di disgregazione del blocco comunista (che garantiva, come dicevo, una dialettica tendente all’equilibrio tra due opposte forze, quella liberista e quella socialista), iniziava un lento processo di rafforzamento dell’esecutivo a svantaggio del Parlamento e, quindi, un abuso della decretazione d’urgenza.
Iniziava, di conseguenza, un processo di adeguamento delle strutture amministrative di Stato, Regioni ed enti locali alla snellezza richiesta dal sistema capitalistico, in modo da ridurre la spesa sociale, a tutto vantaggio degli assetti privati. Effetto che, per esempio, vediamo oggi nella sanità o nella scuola pubblica.
La decretazione d’urgenza
Sin dagli anni Ottanta è iniziato un lento processo di svuotamento delle funzioni parlamentari a tutto vantaggio dell’esecutivo che ha preso in mano la funzione legislativa. E’ chiaro che, così facendo, si velocizzava l’iter di approvazione delle leggi, ma non si consentiva la necessaria discussione parlamentare, utile per valutare tutti gli interessi in gioco nella disciplina di una certa materia.
Ne ho parlato più diffusamente in quest’articolo. Per chi volesse approfondire il tema dell’abuso della decretazione d’urgenza da un punto di vista più giuridico, linko un contributo molto interessante di Giovanna Pistorio, Associata di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università Roma Tre.
Qui ci basti pensare che i presidenti Cossiga, Scalfaro e Ciampi furono costretti, più volte, a rimandare indietro le leggi di conversione dei decreti legge per abuso dello strumento.
L’abuso della decretazione d’urgenza fu costante durante il periodo berlusconista, in particolare nel decennio dal 2001 al 2011, per poi divenire strutturato con i governi successivi.
Da questa infografica di openpolis si vede benissimo come il Parlamento sia divenuto un mero ratificatore di trattati, un burocrate, insomma. Vediamo pure quanto poche siano le leggi ordinarie e quanto invece incida l’attività di ratifica dei decreti, che varia in base alla forza del governo in carica.
Scrive Openpolis, dove analizza l’abuso della decretazione d’urgenza nel governo Conte I,
solo il governo Letta infatti aveva un dato superiore, con il 73,81% delle leggi approvate che erano o decreti o ratifiche di trattati. Più distanti, da questo punto di vista, gli altri esecutivi: Gentiloni (44,79%), Monti (57,02%), Renzi (64,75%) e Berlusconi (64,86%).
Infatti è con il governo Conte II e la gestione pandemica che si verifica un passaggio decisivo e che tenderà a restare, superata la questione Covid: il passaggio dalla (seppur residuale) funzione del Parlamento come ratificatore di Decreti Legge, alla piena funzione legislativa dell’esecutivo.
I DPCM
Come ricordiamo bene, durante il periodo pandemico il governo Conte ha usato in prevalenza degli strumenti amministrativi per gestire l’emergenza: i DPCM, che stanno per Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Quindi un atto amministrativo (e non legislativo) monocratico, cioè adottato da una sola persona.
Qualcuno, tra cui la Corte Costituzionale con Sentenza n. 198 del 2021, ha dato ragione a Conte da un punto di vista giuridico, perché l’uso e abuso dei DPCM era, tutto sommato, coperto dalla legge. Da un Decreto Legge, però.
Del resto – è proprio il topic di quest’articolo – sappiamo che il principio di legalità è ben differente da quello di giustizia.
Ciò perché, se il processo emergenziale fosse stato affrontato dal Parlamento, in sinergia con le Regioni – con leggi chiare, coerenti e condivise – le norme sarebbero state più eque e giuste e non avrebbero provocato, tra la popolazione, quell’evidente sentore di ingiustizia che aleggiava profondamente in quel periodo.
Infatti…
Come dimenticare, infatti, i runners o le persone che prendevano il sole, al mare, da sole, inseguite dalle forze dell’ordine come se fossero criminali?
Questo mentre centinaia di migliaia di operai continuavano a stare nelle fabbriche a stretto contatto e senza DPI.
Come non pensare al rimpallo tra governo e Confindustria, nel definire i codici Ateco che potevano restare aperti? Ossia quali aziende dovevano continuare a produrre perché “necessarie” per i beni di prima necessità e alla fine restavano aperte pure le fabbriche di armi o di produzione dei profumi?

Come dimenticare le norme che stabilivano che nei treni a lunga percorrenza occorresse il green pass, mentre nel trasporto pubblico urbano no?
Oppure ricordiamo quando, durante la piena emergenza, una mascherina costava anche 50 euro e l’Autority Mister prezzi (Garante per la sorveglianza dei prezzi, MISE) latitava?
Una cosa non sfugge in queste due ultime considerazioni. Ho scritto “se il processo emergenziale fosse stato affrontato dal Parlamento… le norme sarebbero state più giuste”.
E’ davvero così? Teoricamente sì, proprio perché il Parlamento è deputato a rappresentare gli interessi delle classi di riferimento. Ma, abbiamo detto, non rappresenta più le classi, perché è venuta meno la dialettica politica che ne è alla base. E pure per un’altra ragione.
Il Parlamento
Lo svuotamento del ruolo legislativo del Parlamento, dunque, è storia vecchia. Se, nel corso della storia, il potere ha più volte tentato di esautorare la funzione rappresentativa del Parlamento a tutto vantaggio dell’esecutivo, questo abuso è stato contemperato, appunto, dal conflitto politico, dalla lotta di classe, arrivando, negli anni Sessanta e Settanta, a far fare – pur nelle contraddizioni e violenze di quel periodo – grossi passi in avanti al Paese, dal punto di vista del progresso sociale.
Con il prevalere dell’ideologia della Fine della Storia, teorizzato da Fukuyama e con i fenomeni di spostamento del potere di legiferare di cui abbiamo già parlato, i Parlamenti occidentali hanno avuto più o meno tutti la stessa sorte. Quantomeno, come abbiamo visto, in Europa, dove prevalgono la tecnocrazia e l’ordoliberismo.
Una delle leve che ha esautorato il Parlamento e che in passato era diventato un cavallo di battaglia contro lo sperpero di denaro pubblico, è stata la cancellazione del finanziamento pubblico ai partiti. Ciò ha avuto l’effetto di generare forme di finanziamento privato che venivano proprio dai sostenitori del liberismo, ossia società, lobby, produttori petroliferi, multinazionali, banche, che, ovviamente, hanno avuto vita facile nel finanziare i partiti che sostengono l’attuale modello economico e far scomparire i partiti critici al sistema.
Idem hanno fatto con i mezzi d’informazione, ormai nelle mani di pochi, grandi, proprietari.
Ma c’è un altro fatto che rappresenta un’evoluzione di questo fenomeno di riduzione della rappresentanza parlamentare e che, in Italia, è stato fatto proprio da un movimento dichiaratamente antisistema, ma in realtà funzionale al sistema liberista: il Movimento 5 stelle.
La riduzione del numero dei parlamentari
Uno dei cavalli di battaglia del Movimento 5 Stelle era quello della riduzione del numero dei parlamentari, per ridurre la spesa pubblica.
E’ esattamente la stessa dinamica dell’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti. Anzi, ne rappresenta la prosecuzione, insieme alle leggi elettorali maggioritarie, con soglie di sbarramento alte, che non consentono ai piccoli partiti, privi di finanziamento, di entrare in Parlamento e far sentire la voce dei propri rappresentati.
Con questa mossa il Parlamento è divenuto molto più controllabile, più malleabile e soggiogato da due poteri: i propri finanziatori e il Governo, che acquisisce, così, più forza.
E in tutto ciò la spesa pubblica è rimasta invariata.
Ecco perché, ad ogni tornata elettorale, storco il naso quando sento parlare di voto utile, perché è come se fosse un loop da cui non si esce mai. Voto utile significa, in poche parole, replicare l’attuale assetto di sfruttamento delle classi deboli da parte… proprio delle stesse classi. Perché costrette (in quanto non c’è alternativa) e perché indotte (“come? Sprechi il tuo voto votando un partito che non raggiungerà la soglia?“).
Legalità formale e legalità sostanziale
In questo quadro così delineato, anche se in estrema sintesi (perché non ho considerato tanti altri fenomeni, come l’americanizzazione, i rapporti internazionali, la P2, le strategie della tensione, che hanno accentuato la scomparsa dei partiti antisistema, ecc.), è evidente che il concetto di legalità non è idoneo a sconfiggere il sistema mafioso. Non perché, banalmente, la politica è collusa con la mafia (ma molti esponenti, sì), ma perché il sistema che alimenta entrambi (quello economico, capitalistico) è al di sopra di loro e quindi usa leggi e violenza mafiosa a seconda del periodo storico e delle esigenze di tutela del capitale.
Dunque se la legalità formale è uno strumento, non corrisponde nemmeno al concetto di giustizia.
Altrimenti dovremmo chiederci perché, nel periodo berlusconiano e anche in quello successivo, governato dal centrosinistra, siano state emanate quasi trenta leggi ad personam.
Dovremmo pure chiederci perché la Magistratura applica una norma astratta favorevole a mafiosi e terroristi neri, che hanno commesso stragi politiche, uccidendo centinaia di persone, mentre applica una fattispecie mai usata in passato per un anarchico che non ha ucciso (né voleva uccidere) nessuno. Mi riferisco al caso Cospito.
Parliamo di cose concrete
Senza andare troppo lontani e parlare dei numerosissimi provvedimenti legali ma ingiusti che non incidono direttamente sulle nostre vite, chiediamoci allora perché, in materia fiscale, dovremmo pagare il bollo auto per quello che, per molti, specie chi vive nelle aree remote, è un bene di prima necessità.
In questo caso la legge vale per tutti e stabilisce che il bollo auto vada pagato dai proprietari di mezzi iscritti nei pubblici registri e ciò che rileva ai fini dell’ammontare è la potenza effettiva del mezzo. I casi di esenzione riguardano solo poche fattispecie. In particolare oggi è prevista l’esenzione del pagamento del bollo auto, in alcune regioni, per chi possiede auto ibride o elettriche. Altra forma di ingiustizia, perché è evidente che chi si può permettere un’auto elettrica, può pure permettersi di pagarne il bollo.
Nessuna esenzione è prevista per chi, invece, è costretto ad usare l’auto, in quanto nel proprio territorio non esistono forme di trasporto collettivo.
Oppure chiediamoci perché la RCA è obbligatoria per legge, ma dobbiamo contrattarla (ergo: subirla) con una compagnia assicurativa privata, giungendo a pagare anche grosse somme per un calcolo del premio sulla base di criteri che non ci riguardano da vicino e non tengono conto della capacità contributiva del cliente.
Mi chiedo, poi, perché dovrei continuare a pagare il canone RAI. Una volta aveva senso, perché la RAI era un’emittente pubblica e pluralista. Oggi non più. Infatti la legge, per mantenere quest’orpello, l’ha trasformato da canone per il servizio pubblico a canone per il possesso di apparecchi radio-televisivi. Giusto, no?
Dunque la legge vale per tutti, ma non tutti siamo uguali. Quindi, mi chiedo, è davvero quello di legalità il principio cui appellarsi per invocare la giustizia ed affrontare il malaffare? O non è forse il malaffare, rivestito di legalità, che la sorregge?