E’ di oggi la notizia dell’arresto di un imprenditore di Melito di Napoli, accusato di sfruttamento del lavoro, anche minorile, oltre che di sequestro di persona e intermediazione illecita.

L’imprenditore aveva astutamente allestito un locale di lavoro protetto da una porta blindata e privo di finestre e servizi igienici, in cui lavoravano 43 operai, tutti italiani, tra cui anche due minorenni e una donna incinta. Queste povere persone lavoravano per 6 ore di fila pellami per noti marchi di moda, tra i macchinari (il cui valore stimato è di circa 2,5 milioni di euro) e sicuramente tra i fumi della conciatura, delle colle e il calore degli stessi macchinari. Vi lascio immaginare quanto sia irrespirabile l’aria in un ambiente del genere e inumano lavorare in queste condizioni.

Fa rabbrividire la notizia per cui le persone, subito dopo essere state liberate dai carabinieri, hanno chiesto ai carabinieri di andare in bagno prima dell’identificazione, dato che ogni giorno, a quanto pare, erano costretti a lavorare per 6 ore filate senza nemmeno la possibilità di espletare i propri bisogni.

Notizie di questo genere, anche se fanno rabbrividire, non stupiscono, perché nel mondo rappresentano la normalità. In Cina, come in India, come in quasi tutti i paesi dell’Africa, senza contare le realtà di nicchia dei paesi europei, principalmente del Sud Europa, lo sfruttamento del lavoro, anche (e in molti paesi soprattutto) minorile, è la condizione necessaria affinché le aziende che operano in regime capitalistico – o aspiranti tale – possano prosperare o quantomeno sopravvivere nel mercato globale.

Gli attuali detentori del potere economico, attraverso i media e, per quanto di loro competenza, la classe politica occidentale, si sforzano continuamente di illudere le masse che l’attuale rivoluzione industriale, la nuova economia basata sui servizi, sull’automazione, sulla tecnologia e sull’ingegnerizzazione dei processi produttivi, porta benefici alla classe operaia, la quale è sempre più specializzata e sempre meno affaticata fisicamente, grazie all’ausilio delle macchine e della tecnologia avanzata. Mai niente fu più falso.

La realtà è che Marx, ormai quasi 180 anni fa, aveva lucidamente descritto il modo di produzione capitalistico che, ancora oggi, sopravvive e si riproduce, pur avendo solo cambiato forma.

Tornando al caso di Melito, possiamo ritrovarci in questa descrizione fatta da Marx nel Capitale (libro III, sez. I, cap. 5):

Poichè l’operaio dedica la maggior parte della sua vita al processo di produzione, le condizioni di questo processo costituiscono in gran parte le condizioni del processo attivo della sua esistenza, le sue condizioni di vitae il far economia nel campo di queste condizioni di vita è un metodo per rialzare il saggio del profitto, proprio come, e l’abbiamo già precedentemente messo in rilievo, l’eccesso di lavoro, la trasformazione dell’operaio in bestia da lavoro è un metodo per accelerare l’autovalorizzazione del capitale, la produzione del plusvalore. Siffatta economia giunge fino al sovraffollamento di operai in locali ristretti, malsani, ciò che si chiama in termini capitalistici risparmio di costruzioni; all’ammassamento di macchine pericolose negli stessi ambienti, senza adeguati mezzi di protezione contro questo pericolo; all’assenza di misure di precauzione nei processi produttivi che per il loro carattere siano dannosi alla salute o importino rischi (come nelle miniere) ecc. Per non dire della mancanza di ogni provvidenza volta ad umanizzare il processo produttivo, a renderlo gradevole o quanto meno sopportabile. Ciò sarebbe, dal punto di vista capitalistico, uno spreco senza scopo e insensato. Con tutto il suo lesinare, la produzione capitalistica è in genere molto prodiga di materiale umano, proprio come, grazie al metodo della distribuzione dei suoi prodotti per mezzo del commercio e al suo sistema di concorrenza, essa è molto prodiga di mezzi materiali e da una parte fa perdere alla società ciò che dall’altra fa guadagnare ai singoli capitalisti.

In buona sostanza, i macchinari, la tecnologia, il web, il 5G e tutti gli aspetti più avanzati dell’ausilio della tecnologia nei processi produttivi rappresentano quello che Marx definiva “capitale costante”, il quale, nel tempo, non apporta alcun profitto alle aziende che se ne servono. Ciò che invece apporta valore (ossia il plus-valore, o meglio il reale profitto del capitalista) è il lavoro umano, che può essere sfruttato in lungo o in largo. Lo sfruttamento in lungo equivale allo sfruttamento di quanto più tempo possibile della giornata lavorativa dell’operaio. In Cina, in India o in Africa, per esempio, funziona così: si sfrutta il lavoratore per quante più ore possibile, anche grazie alle Istituzioni locali che in larga parte lo consentono. In Italia esiste una normativa sull’orario di lavoro oltre alla contrattazione collettiva, che fissa l’orario di lavoro normale a 40 ore settimanali.

Ora qualcuno si chiederà: ma il nostro imprenditore campano se ne sbatte della normativa e perché fa lavorare queste persone solo per 6 ore al giorno? Perché molto probabilmente li ha assunti con tutte le regole formali e aderendo diligentemente alla contrattazione collettiva, per cui formalmente è in regola con la normativa vigente. Ma qui scatta l’altro lato dello sfruttamento, sempre descritto con lucidità da Marx: se non posso sfruttare l’operaio in lungo (ossia allungando l’orario di lavoro) allora lo sfrutto in largo, ossia costringendolo a produrre quanti più pezzi nell’orario stabilito.

Dice ancora Marx (ivi):

La necessità di accrescere il capitale fisso è la molla che spinge il capitalista a prolungare la giornata lavorativa. La medesima situazione non si verifica in caso di giornata lavorativa costante.

In tale ipotesi o è necessario aumentare il numero degli operai e con questi a una certa proporzione anche la massa del capitale fisso — edifici, macchinario, ecc. — al fine di sfruttare una massa più vasta di lavoro (giacché qui si prescinde da riduzioni o ribassi del salario al disotto del livello normale). Oppure, qualora si abbia ad aumentare l’intensità o rispettivamente la produttività del lavoro e in genere a produrre una maggior quantità di plusvalore relativo, cresce, nei rami industriali che impiegano materia prima, la massa della parte circolante del capitale costante (ccic), in quanto in quel dato intervallo di tempo viene elaborata una maggior quantità di materia prima ecc.; e in secondo luogo cresce il macchinario, cioè anche questa parte del capitale costante, messo in opera dallo stesso numero di operai. L’incremento del plusvalore è pertanto accompagnato da un incremento del capitale costante, l’intensificazione dello sfruttamento del lavoro da un rincaro delle condizioni di produzione, per mezzo dei quali il lavoro viene sfruttato, vale a dire da un aumento nelle anticipazioni di capitale.

In altre parole, per far rientrare in quelle 6 ore di lavoro il costo stesso del lavoro (ossia lo stipendio che l’imprenditore darà agli operai), tasse e imposte, ammortamento delle macchine, costo delle materie prime e, infine, il suo profitto, l’imprenditore dovrà aumentare l’intensità del lavoro e conseguentemente i macchinari utilizzati (ecco perché non stupisce l’alto valore dei macchinari sequestrati all’imprenditore di Melito). Dunque aumenta il capitale costante (i macchinari) e aumenta il numero di pezzi prodotti in quelle 6 ore.

Molto probabilmente il sistema di lavoro imposto dall’imprenditore campano è quello misto del tempo/cottimo. In altre parole pagherà lo stipendio agli operai non solo sulla base del tempo, ma anche sulla base di un numero minimo di pezzi prodotti ogni ora da un operaio di elevate capacità e di alta velocità. Dunque dirà qualcosa del genere: “Se Ciro produce 10 borse in un’ora, voi dovete fare lo stesso”. Ecco che nasce la competizione tra operai, si allarga l’orario di lavoro e, di conseguenza, nessuno lascerà il proprio posto anche solo per andare in bagno, pur di mantenere il ritmo produttivo. Da qui si potrebbe persino dedurre l’inutilità – in un quadro del genere – di installare servizi igienici, per succhiare quanto più possibile i secondi di vita di un operaio, costretto così a lavorare a pieno ritmo per 6 ore.

E’ inutile ribadire che realtà del genere sono la normalità in territori ad alta disoccupazione ma al contempo ad alta e qualificata manodopera. Non è un caso – ed è già stato documentato ampiamente – che molte griffe dell’alta moda scelgano piccole aziende del Sud Italia per eseguire parte della lavorazione di un prodotto, specialmente l’assemblaggio e le rifiniture. Accade che poi queste piccole aziende utilizzino i propri operai e, se il lavoro eccede le proprie capacità produttive, si servano di un esercito di lavoratori a domicilio pagati esclusivamente a cottimo. Parliamo di qualche centesimo, al più un euro, a pezzo prodotto. Pezzo che poi finirà per essere venduto a centinaia di euro sugli scaffali delle boutique d’alta moda nelle metropoli occidentali.

Oggi è capitato a Melito, domani ci sarà un controllo a Bari e dopodomani si scoprirà una situazione analoga di sfruttamento a Catanzaro o a Palermo. Il sistema è diffuso, capillare e prolifera nelle zone ad alta disoccupazione. Ma questi controlli, seppur necessari, non saranno mai sufficienti a demolire un sistema di sfruttamento ai limiti dello schiavismo, perché chi mai potrà controllare l’esercito dei lavoratori a domicilio? Quante possibilità ci sono di scoprire tutti i laboratori nascosti in cui gente disperata è disposta a farsi sfruttare pur di mantenere la propria famiglia?

Non possiamo nemmeno basarci sulle ipocrisie dei committenti. I grandi marchi sono perfettamente a conoscenza di come vengono prodotti i beni delle proprie collezioni e anche se pubblicamente dichiarano di prendere provvedimenti, nella realtà ciò si traduce in un semplice cambio di fornitore, dato che gli intermediari di cui si servono hanno l’agenda piena di contatti che bramano di acquisire l’appalto.

Del resto a queste griffe come alle aziende che producono per loro non interessa minimamente elargire i diritti di cui sono titolari i propri operai. Tutt’altro. Ne va della loro sopravvivenza sul mercato e del loro profitto. Ecco perché le leggi o le contrattazioni collettive spesso vengono applicate solo su carta, mentre nella realtà si perpetra lo sfruttamento. Con ciò non voglio dire che contratti collettivi o normazione in materia di lavoro siano inutili, bensì che sono solo astrattamente suscettibili di essere applicati. Per farlo occorre, come sempre del resto, il rapporto di forza. Se la classe operaia è forte e pretende l’applicazione dei diritti, può ambire a farseli riconoscere, ma se è debole e frammentata, prevale la forza del padrone, che dirà: o così o a casa. E’ sempre una questione di forza.

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