A 49 anni di distanza dalla sua morte, Pier Paolo Pasolini rappresenta una pietra miliare della cultura italiana, non solo e non tanto per le sue produzioni intellettuali quali poesie, articoli, saggi, interviste, documentari, quanto per il suo pensiero che, oggi, a distanza di mezzo secolo, è più attuale che mai.
Mi piace ricordarlo oggi, nel giorno dell’anniversario della sua scomparsa, citando interamente un articolo tratto da un suo intervento alla festa dell’Unità di Milano nel 1974, ossia un anno prima della sua morte, avvenuta per mano violenta e molto probabilmente inserita nell’ambito della c.d. strategia della tensione, anziché della verità processuale che lo ha disegnato come un pervertito avvezzo a giochi sessuali pericolosi, con ciò sopprimendo – dall’analisi dei fatti – tutti quegli aspetti essenziali relativi alla criticità del suo pensiero nei confronti dei detentori del potere, anche nel suo partito (Pasolini fu militante del PC, poi espulso).
L’articolo cui faccio riferimento s’intitola Genocidio e se lo leggiamo interamente, tenendo ben presente la realtà d’oggi, capiremo senza grandi sforzi quanto Pasolini abbia visto lungo, quanto abbia – dunque – previsto le contraddizioni della società in cui viviamo e i pericoli dell’esserci abbandonati totalmente alla logica del consumo.
Nota: ho ricopiato l’articolo omettendo solo alcune parti non ritenute essenziali per la comprensione del testo, in modo da snellire la lettura. Di tanto in tanto, tra parentesi, ho inserito il mio pensiero, per facilitare i collegamenti con la realtà d’oggi.
Genocidio
Vorrete scusare qualche mia imprecisione o incertezza terminologica. La materia – si è premesso – non è letteraria, e disgrazia o fortuna vuole che io sia un letterato, e che perciò non possegga soprattutto linguisticamente i termini per trattarla. E ancora una premessa: ciò che dirò non è frutto di un’esperienza politica nel senso specifico, e per così dire professionale della parola, ma di un’esperienza che direi quasi esistenziale.
Dirò subito, e l’avrete già intuito, che la mia tesi è molto più pessimistica, più acremente e dolorosamente critica di quella di Napolitano (si riferisce proprio a Napolitano, ex presidente della Repubblica, all’epoca esponente di spicco della corrente migliorista, quella che riteneva si potesse migliorare il capitalismo). Essa ha come tema conduttore il genocidio: ritengo cioè che la distruzione e sostituzione di valori nella società italiana di oggi porti, anche senza carneficine e fucilazioni di massa, alla soppressione di larghe zone della società stessa. Non è del resto un’affermazione totalmente eretica o eterodossa. C’è già nel Manifesto di Marx un passo che descrive con chiarezza e precisione estreme il genocidio ad opera della borghesia nei riguardi di determinati strati delle classi dominate, soprattutto non operai, ma sottoproletari o certe popolazioni coloniali. Oggi l’Italia sta vivendo in maniera drammatica per la prima volta questo fenomeno: larghi strati, che erano rimasti per così dire fuori della storia – la storia del dominio borghese e della rivoluzione borghese – hanno subito questo genocidio, ossia questa assimilazione al modo e alla qualità di vita della borghesia.
Come avviene questa sostituzione di valori? Io sostengo che oggi essa avviene clandestinamente, attraverso una sorta di persuasione occulta (questo concetto è stato ampiamente ripreso dalla sociologia contemporanea). Mentre ai tempi di Marx era ancora la violenza esplicita, aperta, la conquista coloniale, l’imposizione violenta, oggi i modi sono molto più sottili, abili e complessi, il processo è molto più tecnicamente maturo e profondo (Bauman parlerebbe di differenza tra società rigida e società flessibile). I nuovi valori vengono sostituiti a quelli antichi di soppiatto, forse non occorre nemmeno dichiararlo dato che i grandi discorsi ideologici sono pressoché sconosciuti alle masse (anche su questo punto l’antropologia contemporanea riprende lo stesso concetto, parlando di crollo delle grandi narrazioni).
Mi spiegherò meglio tornando al mio solito modo di parlare, cioè quello del letterato. In questi giorni sto scrivendo il passo di una mia opera in cui affronto questo tema in modo appunto immaginoso, metaforico: immagino una specie di discesa agli inferi, dove il protagonista, per fare esperienza del genocidio di cui parlavo, percorre la strada principale di una borgata di una grande città meridionale, probabilmente Roma, e gli appare una serie di visioni ciascuna delle quali corrisponde a una delle strade trasversali che sboccano su quella centrale. Ognuna di esse è una specie di bolgia, di girone infernale della Divina Commedia: all’imbocco c’è un determinato modello di vita messo lì di soppiatto dal potere, al quale soprattutto i giovani, e più ancora i ragazzi, che vivono nella strada, si adeguano rapidamente. Essi hanno perduto il loro antico modello di vita, quello che realizzavano vivendo e di cui in qualche modo erano contenti e persino fieri anche se implicava tutte le miserie e i lati negativi che c’erano ed erano – sono d’accordo – quelli qui elencati da Napolitano: e adesso cercano di imitare il modello nuovo messo lì dalla classe dominante di nascosto. Naturalmente, io elenco tutta una serie di modelli di comportamento, una quindicina, corrispondenti a dieci gironi e cinque bolgie. Accennerò, per brevità, solo a tre; ma premetto ancora che la mia è una città del centro-sud, e il discorso vale solo relativamente per la gente che vive a Milano, a Torino, a Bologna ecc.
Per esempio, c’è il modello che presiede a un certo edonismo interclassista (molti anni dopo Colin Campbell riprenderà lo stesso concetto in chiave di analisi del marketing), il quale impone ai giovani che incoscientemente lo imitano, di adeguarsi nel comportamento, nel vestire, nelle scarpe, nel modo di pettinarsi o di sorridere, nell’agire o nel gestire a ciò che vedono nella pubblicità dei grandi prodotti industriali: pubblicità che si riferisce, quasi razzisticamente, al modo di vita piccolo-borghese. I risultati sono evidentemente penosi, perché un giovane povero di Roma non è ancora in grado di realizzare questi modelli, e ciò crea in lui ansie e frustrazioni che lo portano alle soglie della nevrosi (su questo aspetto occorre soffermarsi parecchio e intendo farlo a breve, perché se da un lato la scienza sociologica ha ben recepito la relazione tra stati psicologici negativi, edonismo e consumo, dall’altro la scienza psicologica sembra trascurare cause ed effetti, da qui la mia critica alla psicologia attuale). Oppure, c’è il modello della falsa tolleranza, della permissività. Nelle grandi città e nelle campagne del centro-sud vigeva ancora un certo tipo di morale popolare, piuttosto libero, certo, ma con tabù che erano suoi e non della borghesia, non l’ipocrisia, ad esempio, ma semplicemente una sorta di codice a cui tutto il popolo si atteneva. A un certo punto il potere ha avuto bisogno di un tipo diverso di suddito, che fosse prima di tutto un consumatore, e non era un consumatore perfetto se non gli si concedeva una certa permissività in campo sessuale. Ma anche a questo modello il giovane dell’Italia arretrata cerca di adeguarsi in modo goffo, disperato e sempre nevrotizzante. O infine un terzo modello, quello che io chiamo dell’afasia, della perdita della capacità linguistica. Tutta l’Italia centro-meridionale aveva proprie tradizioni regionali, o cittadine, di una lingua viva, di un dialetto che era rigenerato da continue invenzioni, e all’interno di questo dialetto, di gerghi ricchi di invenzioni quasi poetiche: a cui contribuivano tutti, giorno per giorno, ogni serata nasceva una battuta nuova, una spiritosaggine, una parola imprevista; c’era una meravigliosa vitalità linguistica. Il modello messo ora lì dalla classe dominante li ha bloccati linguisticamente: a Roma, per esempio, non si è più capaci di inventare, si è caduti in una specie di nevrosi afasica; o si parla una lingua finta, che non conosce difficoltà e resistenze, come se tutto fosse facilmente parlabile – ci si esprime come nei libri stampati – oppure si arriva addirittura alla vera e propria afasia nel senso clinico della parola, si è incapaci di inventare metafore e movimenti linguistici reali, quasi si mugola, o ci si danno spintoni, o si sghignazza senza saper dire altro (l’analisi dell’afasia linguistica trova oggi riscontro nell’effetto dell’analfabetismo funzionale o, ancora, dell’impoverimento lessicale che è dovuto solo in parte alle carenze del sistema scolastico).
Questo solo per dare un breve riassunto della mia visione infernale, che purtroppo io vivo esistenzialmente. Perché questa tragedia in almeno due terzi d’Italia? Perché questo genocidio dovuto all’acculturazione imposta subdolamente dalle classi dominanti? Ma perché la classe dominante ha scisso nettamente «progresso» e «sviluppo». Ad essa interessa solo lo sviluppo, perché solo da lì trae i suoi profitti. Bisogna farla una buona volta una distinzione drastica tra i due termini: «progresso» e «sviluppo». Si può concepire uno sviluppo senza progresso, cosa mostruosa che è quella che viviamo in circa due terzi d’Italia; ma in fondo si può concepire anche un progresso senza sviluppo, come accadrebbe se in certe zone contadine si applicassero nuovi modi di vita culturale e civile anche senza, o con un minimo di sviluppo materiale. Quello che occorre – ed è qui a mio parere il ruolo del partito comunista e degli intellettuali progressisti – è prendere coscienza di questa dissociazione atroce e renderne coscienti le masse popolari perché appunto essa scompaia, e sviluppo e progresso coincidano.
Qual è invece lo sviluppo che questo potere vuole? Se volete capirlo meglio, leggete quel discorso di Cefis agli allievi di Modena che citavo prima, e vi troverete una nozione di sviluppo come potere multinazionale – o transnazionale come dicono i sociologhi – fondato fra l’altro su un esercito non più nazionale, tecnologicamente avanzatissimo, ma estraneo alla realtà del proprio paese. Tutto questo dà un colpo di spugna al fascismo tradizionale, che si fondava sul nazionalismo o sul clericalismo, vecchi ideali, naturalmente falsi; ma in realtà si sta assestando una forma di fascismo completamente nuova e ancora più pericolosa. Mi spiego meglio. È in corso nel nostro paese, come ho detto, una sostituzione di valori e di modelli, sulla quale hanno avuto grande peso i mezzi di comunicazione di massa e in primo luogo la televisione. Con questo non sostengo affatto che tali mezzi siano in sé negativi: sono anzi d’accordo che potrebbero costituire un grande strumento di progresso culturale; ma finora sono stati, così come li hanno usati, un mezzo di spaventoso regresso, di sviluppo appunto senza progresso, di genocidio culturale per due terzi almeno degli italiani (qui Pasolini riconosce i germi della tv spazzatura, che si paleserà in tutta la sua forza dagli anni Ottanta). La televisione, ad esempio, in questi vent’anni ha nettamente svalutato ogni contenuto religioso: oh sì, abbiamo visto spesso il Papa benedire, i cardinali inaugurare, abbiamo visto processioni e funerali, ma erano fatti controproducenti ai fini della coscienza religiosa. Di fatto, avveniva invece, almeno a livello inconscio, un profondo processo di laicizzazione, che consegnava le masse del centro-sud al potere dei massmedia e attraverso questi all’ideologia reale del potere: all’edonismo del potere consumistico.
La distruzione di valori in corso non implica una immediata sostituzione di altri valori, col loro bene e il loro male, col necessario miglioramento del tenore di vita e insieme con un reale progresso culturale. C’è, nel mezzo, un momento di imponderabilità, ed è appunto quello che stiamo vivendo; e qui sta il grande, tragico pericolo (qui fa riferimento a Gramsci e alla sua celebre espressione “la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”). Pensate a cosa può significare in queste condizioni una recessione e non potete certo non rabbrividire se vi si affaccia anche per un istante il parallelo – forse arbitrario, forse romanzesco – con la Germania degli anni trenta. Qualche analogia il nostro processo di industrializzazione degli ultimi dieci anni con quello tedesco di allora ce l’ha: fu in tali condizioni che il consumismo aprì la strada, con la recessione del ’20, al nazismo (anche questa riflessione è molto attuale, dato che sia le crisi economiche sia quelle sociali hanno aperto la strada ai sovranismi, che sono l’altro lato della medaglia dei fascismi).
Ecco l’angoscia di un uomo della mia generazione, che ha visto la guerra, i nazisti, le SS, che ne ha subito un trauma mai totalmente vinto. Quando vedo intorno a me i giovani che stanno perdendo gli antichi valori popolari e assorbono i nuovi modelli imposti dal capitalismo, rischiando così una forma di disumanità (non si può non riconoscere un parallelismo con l’antiumanismo attuale), una forma di atroce afasia, una brutale assenza di capacità critiche (leggasi analfabetismo funzionale), una faziosa passività, ricordo che queste erano appunto le forme tipiche delle SS: e vedo così stendersi sulle nostre città l’ombra orrenda della croce uncinata. Una visione apocalittica, certamente, la mia. Ma se accanto ad essa e all’angoscia che la produce, non vi fosse in me anche un elemento di ottimismo, il pensiero cioè che esiste la possibilità di lottare contro tutto questo, semplicemente non sarei qui, tra voi, a parlare.
Per concludere
Se siete giunti fin qua vuol dire che in qualche modo avete o apprezzato l’articolo di Pasolini oppure riconosciuto in esso molte analogie con la realtà attuale. La sua conclusione, però, differisce con oggi in quanto adesso manca la forza che può contrastare quella antagonista, rispetto ad allora in cui il PC – nel bene e nel male – segnava comunque un equilibrio tra due forze contrastanti e, in quest’equilibrio, qualche piccolo progresso s’è ottenuto (penso alle varie leggi sulle libertà individuali, allo Statuto dei lavoratori, alle riduzioni dell’orario di lavoro, ecc.). Mancando una forza è chiaro che l’altra prevale ed egemonizza tutto ciò con cui entra in contatto. E noi, oggi, siamo in queste condizioni. Dunque quasi tutti i fenomeni sociali regressivi che riscontriamo oggi (gli haters in rete, i populismi, la violenza insensata, persino gli aumenti di stati d’ansia, le nevrosi, ecc.ecc.) sono solo l’effetto di modelli culturali antiumani imposti in assenza di una forza che difenda gli strati più vulnerabili della popolazione. Dunque, oggi, l’unica via per poter invertire la tendenza è la ricostruzione di forze sociali coscienti della realtà in cui vivono e capaci di decodificarla e agire di conseguenza. Come direbbe Gramsci, non basta farlo a livello di sovrastruttura (ossia non è sufficiente, per esempio, creare un nuovo partito o un nuovo movimento), ma a livello di struttura. E non ha tutti i torti Marc Augè quando dice che solo un’educazione generalizzata (che comprende ma non si esaurisce nell’istruzione) può rimediare alle troppe storture della globalizzazione che oggi riguarda solo la globalizzazione dei capitali, ma non quella dei diritti e del riconoscimento tra individui e gruppi sociali. In fondo si sa, la cultura terrorizza i padroni e Pasolini l’ha sperimentato sulla sua pelle.