L’anno scorso, verso novembre, avevo concordato con una ditta di imbianchini di effettuare dei lavori di risanamento e pitturazione di alcune pareti, sia in casa che in giardino. Si era concordato di farli verso marzo-aprile, quando le giornate sarebbero state buone. Qualche settimana fa il tipo della ditta mi chiama e mi dice: “senti barbù, qua per adesso non è cosa. Co’ ‘sto virus gli operai stanno a casa e dobbiamo rimandare i lavori, chissà quando”.

Insomma, mi ha dato buca. Una buca giustificabile, certo, ma sempre di buca si tratta.

E mo’ che faccio? Ho pensato mentre mi stuzzicavo la barba.

Oddio, i lavori di pitturazione non sono poi così complessi, ci vuole solo un po’ di pazienza, di pianificazione e di manualità. Però ci stava un muro, particolarmente umido e gonfio e di certo lì sarebbe servita la mano di uno specialista.

Ma siccome ‘sto virus, come l’ha chiamato l’imbianchino, mi ha reso disoccupato, mi son detto: ma sì, dai. Lo faccio da solo. O almeno ci provo. E così, in queste ultime settimane, munito di intonaco, stucco, spatola, carta vetro, pennello, rullo, secchio e idropittura, mi sono improvvisato edile e mi son messo a scrostare, intonacare, stuccare e dipingere le pareti di casa e del giardino. Il risultato non è stato malaccio. Certo, ci sta qualche sgommatura, ma per essere un neofita può andare. E ho pure risparmiato tanti soldi.

Preso dall’entusiasmo e con in mente qualche cambiamento nella disposizione dei mobili, ho recuperato delle vecchie tavole di legno per farci delle mensole. E così oggi ho finito di montare pure le mensole.

Ho fatto tutto da solo, certo, ma non ce l’avrei mai fatta senza il supporto della rete sociale. Un amico, per esempio, mi ha spiegato come usare spatola e frattone, per far sì che il muro venga liscio. E il frattone me l’ha pure regalato. Proprio stamattina sono andato da un anziano falegname, per far tagliare le tavole di legno a misura. Un conoscente, che lavora a giornata nel settore edile, mi ha spiegato la tecnica per riempire tutti gli interstizi nelle pareti e far legare l’intonaco con il tufo, ossia con la pietra che comunemente qui da me si usava per costruire le case, prima dell’avvento del cemento.

Ognuno di questi regali, servizi e consigli non mi è costato niente, se non un grazie. E un caffè, sospeso però.

Mentre facevo i lavori mi sono tornati alla mente, come tanti flashback, i momenti di condivisione. Il vicino che ci portava la verdura fresca, perché ne aveva raccolta di più di quanto ne avesse bisogno. Mia mamma che regalava i vestiti buoni, ma che non ci entravano più, ad una famiglia povera, in cui c’erano ragazzi della mia età. Il fabbro che realizzava una paletta per il fuoco e, al momento di pagare, ti diceva “lascia stare”. Il carrozziere che ti faceva una piccola riparazione all’auto e non ti chiedeva nulla. Oppure il pescivendolo che, a fine giornata, ti regalava il pesce, perché “sennò domani lo devo buttare, è meglio se te lo mangi”.

Mi ha ricordato anche uno dei motivi per cui, dalle mie parti, si sono sviluppate, nel tempo, le case a corte, le quali erano una soluzione architettonica difensiva, ma allo stesso tempo sociale, includente.

casa a corte reti sociali
le case a corte salentine

Rete sociale e civiltà dell’essere

Erich Fromm
Erich Fromm

Tutte queste cose sono figlie di una civiltà contadina, subalterna, che ha saputo resistere agli attacchi delle classi dominanti, nel corso dei secoli, anche di quella borghesia ultra organizzata e ricca di risorse e mezzi di produzione che ha dominato l’età moderna. Salvo poi essere annientata dalla società dei consumi, così accuratamente analizzata da Pier Paolo Pasolini, già dal momento del suo primo sviluppo.

Come acutamente ha osservato Erich Fromm, in Avere o Essere?, il mutualismo, la condivisione, la vitalità della rete sociale, appartengono alla dimensione dell’essere. L’individualismo, l’egoismo, l’isolamento, il possesso, la difesa della proprietà contro gli attacchi esterni (reali o immaginari), appartengono alla dimensione dell’avere. Ed è facile distinguerli come tratti caratteristici dell’attuale società dei consumi.

https://www.youtube.com/watch?v=HLrcvZpytcs

Non potevo non inserire una scena di Il mistero di Bellavista, dove si parla di Fromm, di avere e di essere.

Anche Bauman, in molti suoi scritti (Consumo dunque sono; Modernità liquida, ecc.) ha lucidamente descritto la proprietà privata e la conseguente ossessione della sicurezza come tratti caratteristici della società dei consumi e come moderne forme di nevrosi collettiva.

Ovviamente tutti questi pensatori si rifanno a Marx, il quale è stato il primo a parlare di feticismo delle merci, ossia che, ad una certa fase dello sviluppo capitalistico, gli oggetti possiedono le persone (e non viceversa). E così ha profetizzato, già nell’Ottocento, quello che sarebbe successo all’Occidente, ossia essere dominato dall’avere.

La disobbligazione, oppure obbligazione naturale

In seno alla civiltà contadina si è sedimentata, nel tempo, una consuetudine, che si chiamava disobbligazione. Ossia il sentirsi in obbligo verso quella persona che ti aveva fatto un favore e il doverlo ricambiare, in qualsiasi modo. Portavi un regalo, gli offrivi un servizio, lo invitavi a pranzo, e via dicendo.

Tale consuetudine era talmente rilevante da essere stata consacrata in norma nel codice civile. Il legislatore l’ha ribattezzata obbligazione naturale e l’ha definita un’obbligazione eseguita spontaneamente in esecuzione di doveri morali o sociali. Dentro a questa definizione ci sta di tutto, dal favore ricambiato all’usanza di regalare la busta in occasione di nozze, funerali o ricorrenze speciali. E difatti la norma dice che non c’è obbligo ad effettuare una prestazione naturale, ma se si effettua poi non è ammessa la ripetizione, ossia la restituzione di quanto dato.

Oggi quest’usanza è quasi del tutto scomparsa o meglio, ha mutato l’animus. Si ritiene, infatti, che disobbligarsi equivalga ad una costrizione e quindi non c’è mutualismo se vige un obbligo. Parafrasando di nuovo Fromm, non si può comprendere l’animus donandi della modalità dell’essere se si è totalmente immersi nella modalità dell’avere. Ecco che oggi appare molto difficile capire che disobbligarsi era, tra gli strati popolari di una civiltà ormai scomparsa, un piacere e non un dovere. Anche quest’usanza serviva a cementare i rapporti sociali.

Il caffè sospeso

A Napoli, quella che Luciano De Crescenzo chiamava la città dell’amore (e che Fromm avrebbe chiamato la città dell’essere), questa consuetudine si è talmente generalizzata da creare l’abitudine del caffè sospeso. Un gesto di gentilezza, d’amore, una disobbligazione verso gli amici, che si dipanava anche nei confronti di una persona ignota, magari bisognosa.

Si dice che il caffè sospeso sia nato nelle dispute tra amici, per chi dovesse pagare il caffè per tutti. Cosa ancora in voga tra i ceti popolari, in tutta Italia (e non solo al Sud). E così si finiva per pagare più caffè di quanti ne venissero consumati. Siccome nessuno osava chiedere al barista i soldi indietro, si finiva per lasciare un credito, a beneficio di quelli che avrebbero consumato il caffè dopo.

E così chi veniva dopo faceva lo stesso, fino a far diventare quest’abitudine una consuetudine radicata.

L’origine del caffè sospeso, dunque, affonda le sue radici nel tessuto vivo della rete sociale ed è solo una delle forme di mutualismo, magari la più famosa, ma è una delle tante.

Nei decenni appena trascorsi quest’usanza è andata perdendosi. Oggi, però, in tutta Italia, sta rinascendo, segno che si sente sempre più il bisogno di mutualismo, di piccoli gesti di essere.

La rete sociale come ritorno all’essere

E’ grazie alla rete sociale che i ceti subalterni hanno potuto tirare a campare nonostante l’impoverimento collettivo dovuto al modo di produzione capitalistico ed elaborare l’arte dell’arrangiarsi. Ma da soli non ce l’avrebbero mai fatta, senza il mutuo soccorso di altri che – nella stessa condizione – condividono il poco che hanno. Può essere un bene materiale, come una conoscenza, un know how, un’arte. Non importa la natura del bene offerto, non importa il valore di scambio, importa il suo valore d’uso.

Oggi, nonostante i tentativi, da parte del potere egemone, di rendere gli individui delle monadi isolate, per poter al meglio plasmarne le coscienze ed evitare la formazione di gruppi di potere antagonisti a quello dominante, sopravvive un germe di speranza. L’ho riscontrato in piccoli gesti di mutualismo che ancora resistono.

Ripristinare la rete sociale è una vera rivoluzione. Sarà questa l’antidoto ai mali dell’individualismo. Non la rete sociale calata dall’alto, come i social network (da cui sarebbe meglio uscire). No. Mi riferisco alla rete sociale reale, storicizzata, basata sulla consapevolezza di essere classe subalterna, che deve rivendicare la propria visione autonoma del mondo e i propri bisogni, quelli reali, non quelli indotti.

Solo abbandonando la visione dell’avere, ossia l’ossessiva rincorsa al possesso, alla proprietà, si può ripristinare una rete sociale e garantire un futuro di equità e di razionalità per tutti. Questo compito, però, spetta a noi, ai ceti subalterni, alle classi popolari. Non di certo alla borghesia, piccola o grande che sia. Perché i borghesi sanno solo essere mercanti e trasformare in merce qualsiasi cosa. Sono talmente immersi nella modalità dell’avere da non rendersi conto che nell’impoverire le masse popolari, ci sono andati di mezzo pure loro. Hanno depauperato il loro spirito e nessuna proprietà al mondo potrà valere quanto la condivisione del poco. E la ricchezza dell’essere.

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