Ode al piccione

piccione

Uno dei volatili più fastidiosi, sporchi e antipatici che popolano le nostre città, da Nord a Sud, non può non meritarsi un’ode acclamata al suo tirannico fastidio.

Ode al piccione

Da Pisa a Riccione
da Venezia a Milazzo
mio caro piccione
m’hai rotto il cazzo.
Tra la gente voli basso
da chiunque ti fai odiare
per te sembra uno spasso
quando stai per cacare.
E mi becchi il parabrezza
o la maglia o la giacca
io lo so con certezza
è mirata la tua cacca.
Non sei buono da mangiare
come il pollo o la quaglia
non sei in grado di volare
tra gli uccelli sei canaglia.
E persino un usignolo
ti scippa il pane dal becco
te lo frega e prende il volo
e di cibo resti a secco.
Come i volatili normali
cerca almeno di migrare
Apri quelle minchia di ali
e lasciaci un poco stare.

Le rapine e…la bella vita!

rapine bella vita

Proprio oggi ho letto sul quotidiano locale di una delle tante rapine al supermercato dove ogni tanto vado a fare la spesa. A memoria, in 10 anni da quando è stato aperto, è stato rapinato circa 15-20 volte.

E’ sempre lo stesso scenario: arrivano di sera, poco prima della chiusura, e razziano l’incasso. A volte è magro, come l’ultima volta (quando sono stati “prelevati” 900,00 €), a volte è più corposo (un’altra rapina, di circa 1 anno fa, ha fruttato ai malviventi circa 2000,00 €). Spesso i rapinatori sono stati individuati e sempre si trattava di giovani italiani, incensurati (o con precedenti di spaccio) e di “buona famiglia”.

Questo fatto mi ha fatto riflettere su un aspetto tipico del momento storico in cui viviamo, cioè che non si ruba più per fame, ma per lusso.

Dai, pensiamoci un attimo. Andiamo a spulciare la cronaca locale oppure i dati snocciolati ogni anno dal Viminale e scopriamo che il “grosso” delle rapine (o delle attività di spaccio) è svolto da giovani ragazzi, perlopiù incensurati e provenienti da ambienti “bene” o quantomeno dal “ceto medio”. Non sto parlando di criminalità balorda, tipica delle “periferie” e degli ambienti degradati, ma di micro-criminalità borghese.

Ora mi viene da pensare che a questi ragazzi, in fondo, non manca niente. Probabilmente sono studenti oppure giovani disoccupati che cercano di sbarcare il lunario come meglio possono. E non è un caso che sempre oggi è uscita un’indagine della Commissione Europea che indica l’Italia come il primo paese europeo per presenza di “neet”, cioè di giovani (15-24 anni) che non fanno niente: non studiano, non lavorano né cercano un lavoro. Sono il 19,9% (rispetto alla media europea del 11,5%).

Come campano questi ragazzi?

Ogni giorno, percorrendo le strade del mio paesello, vedo tanti ragazzi (giovanissimi!) che circolano con macchinoni tipo SUV o grosse berline, che passano le serate nei locali a bere o che si sfondano di aperitivi al mare, negli stabilimenti, dove solo per prendere un caffè paghi l’ira di dio.

Io, da piccolo imprenditore quale sono, provo ogni volta un senso di vergogna e di disgusto a cacciare tre euro e cinquanta per una Tennent’s, mentre guardo il tavolo di un gruppo di adolescenti pieni di acne che ne ha consumate almeno una trentina. E mi faccio i conti.

Quindi è detto fatto? Ci sta una “generazione” di ragazzi che non vogliono studiare, di lavorare manco l’ombra, però devono comunque “apparire in società” e, di conseguenza, spendere. Allora è forse spiegato perché c’è una così ampia recrudescenza di rapine, furti e spaccio? Forse, probabile. Non è così difficile fare due+due.

Del resto la vita oggi è cara e la bella vita costa anche di più. Poi se ci metti la precarietà del lavoro, gli alti costi e le innumerevoli incertezze del lavoro in proprio, nonché il fatto che “il lavoro stanca e non rende” unito al ripudio della fatica come antidoto ai mali del passato in cui i nostri nonni si sono “fatti il culo” e per cui i giovani provano una profonda antipatia, capisci che la via più semplice è quella di far soldi con facilità e oggi i modi sono pochi: o sfondi su internet (cosa che riescono a fare agevolmente solo i veri idioti) o vivi di rendita (cosa che fanno in pochi, cioè i sopravvissuti della crisi economica), oppure commetti reati (tipo: spaccio, rapine, furti…).

Lo stress dell’edonismo

Cioè pensa allo stress a cui è sottoposto un giovane d’oggi. Un pacchetto di sigarette costa 5 euro, un cocktail costa dalle 5 alle 15 euro (a seconda di dove vai…), un ingresso in discoteca (di quelle che contano) costa almeno 10 euro e a volte la consumazione non è inclusa. E che fai? Non ti prendi almeno 2-3 consumazioni? Poi metti il pre e il post serata: tra birre, panini, cocktail e sigarette, almeno almeno ti spari quelle 50-60 euro. Se poi “rimorchi” allora la spesa raddoppia, e lì so’ cazzi. Perché non puoi sfigurare davanti all’imposizione implicita di una consumazione offerta. Calcola che una volta si usciva il sabato e basta (se ti andava bene), mentre oggi si fa il pre-finesettimana il giovedì e poi il finesettimana il venerdì e il sabato. E ogni giorno so’ spese, e grosse pure.

E poi…un tatuaggio stupido, piccolo piccolo, costa 30 euro, e c’è chi se ne fa minimo 2-3, perché con uno non conti. E poi il macchinone, i vestiti griffati (cosa vuoi? Che indossi i vestiti del mercato?), l’orologio buono e gli occhiali da sole ray-ban. Ohi, che pensi? A occhio ci vogliono almeno 1000 euro di imprinting, oltre alle basilari 50 euro a sera, giusto per “apparire” e non sfigurare.

Paga papà? Paga il nonno? Sì, a volte. Ma a volte no. E quindi i soldi da dove vengono?

Il lusso costa

Tutto sommato, sti ragazzi che non lavorano, non studiano né hanno ben chiaro il proprio futuro, ma vivono nel confine tra la rendita e l’illegalità, supportati dalle paghette dei nonni e dai sotterfugi per “campare”, hanno ben impresso nella mente il principio del vivere moderno: non è la fame ciò che ci comanda, ma il lusso, o almeno la sua apparenza. L’apparenza è sostanza e la sostanza ha un costo. Non sono ladri di polli, che rubano per fame, sono ladri di supermarket o spacciatori di erba e cocaina e rubano e spacciano per un cocktail e per un tatuaggio o un aperitivo al mare. Del resto come dargli torto? Sono il frutto di ciò che abbiamo costruito finora, dei modelli a cui ci siamo ispirati, senza troppo pensarci, mentre abbiamo abiurato il passato, come un cattivo male da dimenticare. Sono loro, i nostri figli, i ragazzi che abbiamo educato davanti alla tv mentre noi distrattamente sceglievamo il modello di macchina più tecnologico e, per non sentire i loro pianti, li abbiamo viziati e gli abbiamo insegnato che chi lavora è un fesso, mentre chi fa il furbo è un dritto.

Solo una cosa mi fa sghignazzare: il momento, e sarà a momenti, in cui scenderanno con il culo per terra e vi ripudieranno, voi, genitori del cazzo che non siete stati in grado di insegnarli a riconoscere un albero ma siete stati bravissimi a fargli capire la differenza tra un cambio manuale e un sequenziale. Tempo qualche anno e i vostri figli tireranno i conti. Giusto il tempo di far morire i vostri genitori e le loro pensioni. Poi, giuro, mi gongolerò nel vedervi annaspare nel nulla, mentre troverete giustificazioni al vostro nulla educativo.

Da Occhetto a Pisapia: la Cosa ritorna.

occhetto dalema pisapia la Cosa

I più “vecchi” di voi si ricorderanno di un certo Achille Occhetto, ultimo segretario del Partito Comunista, che ha “guidato” la caduta del partito a seguito della caduta del muro di Berlino e del definitivo disfacimento del totalitarismo comunista nei Paesi dell’Est Europa. Ricorderete anche la svolta verso un “comunismo moderno” che Occhetto volle dare, sin dalla caduta del PC, parlando di una cosa.

Ma che cosa? Probabilmente nemmeno lui lo sapeva, ma sta di fatto che presto sarebbe diventata tanto brutta quanto la vespa che la Piaggio realizzò proprio in quegli anni e che chiamò, appunto, “cosa”.

1988_COSA
Vespa Cosa (museopiaggio.it)

La “cosa” è stata l’oggetto di una lunga discussione politica in seno al partito che avrebbe portato, di lì a poco, alla fondazione di un nuovo soggetto politico: Il PDS (Partito Democratico della Sinistra), un partito chiaramente confuso, senza più appigli ideologici e senza un chiaro linguaggio politico, tanto che di lì a poco, nel giro di 10 anni, si passò dal PDS ai DS (Democratici di sinistra), anche grazie all’intervento di un rampante Massimo D’Alema e poi, pochi anni dopo, nel 2006, dai DS all’attuale Partito Democratico.

Inutile dire che la frammentazione del PC comportò la nascita di tanti soggetti politici di sinistra (come Rifondazione o Comunisti italiani) che, negli anni, a volte appoggeranno i vari governi di centro-sinistra, a volte contribuiranno a farli cadere, a volte, pur essendo al governo, manifesteranno in piazza…contro loro stessi!

Insomma, è chiaro che in 30 anni la sinistra ha cambiato varie forme ma la sostanza è rimasta pressoché la stessa, ossia grande confusione e incapacità di riflettere sui cambiamenti sociali, politici, economici e geo-politici internazionali e incapacità di elaborare un nuovo linguaggio di sinistra, basato su nuove esigenze, nuove problematiche da affrontare, però, con i solidi princìpi della sinistra: tutela delle fasce deboli della popolazione, anti-capitalismo e superamento della concezione privatistica dei beni comuni, socialismo applicato, uguaglianza sostanziale, potenziamento e crescita dell’istruzione e del sapere collettivo, in modo da creare una società coesa, consapevole e “libera”, oltre al superamento dei privilegi di classe (di casta o di lobby).

Diciamo la verità, i dirigenti del PC dei primi anni Novanta hanno voluto chiaramente aderire al sistema capitalista, rinnegando completamente il passato e spingendo l’Italia verso un modello liberale, cioè quel modello che oggi ha rappresentato la prima grande causa dell’attuale crisi economica, che ci porteremo dietro per numerosi decenni.

E’ vero che la storia ci ha traghettati verso il rinnegamento dei regimi totalitaristici, ed è stato giusto e storicamente coerente chiudere con l’esperienza del PC, ma da allora ad oggi mai nessuno ha voluto interrogarsi sull’applicazione dei valori della sinistra nelle esigenze moderne e sull’uso di metodologie e linguaggi moderni.

E’ stato più facile, da parte dei dirigenti del PC, abiurare il passato e abbracciare il modello capitalista, come ha subito fatto Achille Occhetto, quando è andato negli USA a dichiarare di essere contrario al regime comunista cinese o quando ha incontrato Lech Walesa, allora leader dell’opposizione polacca al regime comunista, dicendosi vicino alle sue posizioni.

Negli anni, poi, la dicotomia sinistra/liberismo ha prodotto frutti nocivi, se pensiamo alle privatizzazioni approntate dal duo Prodi/D’Alema, alla destrutturazione dello Stato sociale e alle sempre più pressanti spinte alla precarizzazione nel mondo del lavoro, tutto nel nome di un liberismo spinto, peggiore di quello inglese, che ha portato la gente a non avere più tutele quando è scoppiata la crisi economica e ad estremizzare il disagio sociale verso l’odio razziale, l’antipolitica e l’appoggio a ideologie estremiste e populiste.

Si ripete lo stesso errore: La cosa del 2017, ossia Art. 1 MDP

Ed eccoci ai giorni nostri. E’ ormai evidente che il PD, con Prodi, D’Alema, Rutelli, Veltroni, le anime “bianche” del centro e del centro (centro) sinistra, i liberali, gli ex comunisti pentiti, i cattolici e i catto-centro-comunisti, le lobby, gli affaristi, i banchieri, Confindustria e persino con amministratori locali in odor di mafia, è un partito talmente eterogeneo, frammentato, affaricentrico e incapace di discutere che, giocoforza, viene governato in modo centralizzato e con un occhio di riguardo verso le lobby.

Bastano poche prezzolate persone per imporre una linea di pensiero e di intervento, alla faccia della discussione, della base e della sintesi politica. E oggi quelle poche persone (Renzi e il suo entourage) stanno traghettando il PD verso un liberismo malato, un populismo spiccio (con contorni di putrido nazionalismo) e un notevole servilismo europeista. In questo quadro appare ovvio che molte anime “di sinistra”, incapaci di cambiare il partito dall’interno, vogliano fuoriuscirne e formare un nuovo soggetto politico. Bene.

Peccato che però, come al solito, non si impara mai dagli errori. Il buon Pisapia, che ritengo una persona valida, sta però percorrendo gli stessi passi dei suoi predecessori di quasi 30 anni fa: creare un soggetto politico con dirigenti liberisti e che si sono dimostrati incapaci di disegnare un modello nuovo di sinistra (Prodi, D’Alema, persino Bersani, che si stupisce che non avvenga un nuovo ’68. Quasi mi fa tenerezza la sua incapacità di analizzare la realtà…) e tentare di costituire un soggetto ampio, capace di “dialogare con il PD”, in cui tutti sono benvenuti, persino Renzi.

Dunque torniamo alla cosa, un elemento ibrido, informe, privo di valori fondanti in cui riconoscersi, privo di capacità di analisi politica, privo persino di contenuti, ma “aperto” a tutti. Da questo modello politico cosa può nascere? Un nuovo fallimento, chiaro.

Sembra quasi che a questa gente importi più riempire le piazze, darsi un colore nuovo (questa volta è l’arancione…anzi, un rosso sbiadito…) ma evitare qualsiasi forma di analisi, di discussione, di un seppur minimo sforzo teso a riscrivere il linguaggio della sinistra e il suo relativo vocabolario, un vocabolario che la “base” possa comprendere, assimilare e in cui possa riconoscersi e che possa rappresentare il primo – minimo – passo verso il riavvicinamento della gente alla politica, ormai priva di punti di riferimento.

E’ ovvio che senza queste operazioni (complesse, sì, ma necessarie) avremo una maggior recrudescenza degli estremismi e, a livello elettorale, il M5S rappresenterà per la gente l’unica valida alternativa alla sinistra, che di “sinistra” non ha più nemmeno il colore. E allora che si faccia questo gesto di coraggio: si crei un nuovo soggetto politico, con facce nuove e competenze valide, e si prenda anche qualche anno per discutere e analizzare la realtà, non si faccia il solito errore di correre subito alle elezioni, perché sennò torneremo di nuovo all’orrida cosa.

L’Italia dei Patrimoni e il turismo Low cost

turismo

L’Italia, si sa, è il Paese dei mille Patrimoni: arte e artigianato, Natura, paesaggi incontaminati, luoghi storici, tradizioni musicali ed enogastronomiche, borghi medievali, chiese, cripte, palazzi e tanto altro sono l’architrave del Patrimonio storico-culturale di tutta Italia. Come si dice spesso, l’Italia potrebbe vivere esclusivamente di turismo, di arte e di produzione e commercio di prodotti enogastronomici, ma questi comparti stentano a decollare, per tanti (e ovvi) motivi.

Il Patrimonio culturale trascurato

Perché nella classifica del turismo internazionale troviamo al primo posto la Spagna, seguita da Francia, Germania, USA, Regno Unito, Svizzera (persino!), Australia e poi, al decimo posto, l’Italia? (fonte: World Economic Forum (2015), The Travel & Tourism Competitiveness. Report 2015. Growth through Shocks, Geneva). Perché la Francia o la Spagna, che hanno 1/10 del nostro Patrimonio Culturale, sono le prime mete turistiche mondiali? La risposta è semplice, perché questi Paesi investono in media il 2,2% del PIL in cultura, beni e attività culturali, mentre l’Italia, con il suo 1,1% di investimenti, è all’ultimo posto tra i 27 Paesi europei. Ci supera pure la Slovenia con il suo 2,5%.

Ma non è solo un problema di investimenti in cultura. Il problema è che l’Italia non investe nemmeno in infrastrutture, servizi e tutela dell’Ambiente che favoriscono la presenza turistica nel Paese. Difatti secondo le stime del Country Brand Index 2014-2015 (FutureBrand) l’Italia, in termini di global reputation, si colloca al 18° posto in riferimento alla percezione internazionale di viaggio in termini di accoglienza, ospitalità, mobilità, ecc.

Dunque il Paese con il maggior numero di Beni Culturali al Mondo (ne abbiamo l’85%) viene superato in termini di presenze turistiche e di appeal internazionale da Paesi con Patrimoni Culturali minori in termini numerici e qualitativi.

Del resto, se leggiamo la storia politica d’Italia, l’unico momento in cui il nostro Patrimonio Culturale è stato preso in considerazione e sottoposto a tutela risale al 1974, grazie a Giovanni Spadolini, che ha voluto fortemente l’istituzione del Ministero dei Beni Culturali. All’epoca il Ministero era competente anche in materia di Ambiente, poi nel 1984 divenne Ministero per i Beni e le attività culturali per poi divenire, nel 2013, Ministero dei Beni, delle attività culturali e del turismo. Da allora ad oggi solo Spadolini e pochi altri Ministri (durati, purtroppo, pochi anni) hanno preso sul serio il compito del Ministero. Se pensiamo che dal 1998 ad oggi i Ministri sono stati Veltroni, Melandri, Urbani, Buttiglione, Rutelli, Bondi (!), Galan (!) e oggi Franceschini, non ci possiamo stupire del fatto che i Beni culturali crollano, vengono venduti e non ci sono investimenti seri in materia di cultura, tutela e valorizzazione dei Beni culturali.

I più attenti tra voi avranno notato che ho omesso di citare due nomi di Ministri: Lorenzo Ornaghi (ministro solo nel 2013 col Governo Monti) e Massimo Bray (ministro dal 2013 al 2015 col Governo Letta). Negli ultimi anni sono stati gli unici Ministri che, seppur in un lasso di tempo limitatissimo, hanno approntato piani e risorse per la tutela e la valorizzazione dei Beni Culturali e per il potenziamento del sistema turismo in Italia. A Ornaghi si deve un piano strategico di sviluppo del turismo (gennaio 2013) ben congegnato e ben strutturato, poi soppresso e sostituito dal Piano strategico di sviluppo del turismo 2017-2022 elaborato dal Dicastero di Franceschini, che sembra più un libro dei sogni scritto da ragazzini trendy che un piano vero e proprio, elaborato con un linguaggio più che discutibile e metodologie che sembrano uscire da un social network, incapace, dunque, di rappresentare un piano di sviluppo credibile, partendo da dati certi, criticità, analisi e soluzioni. Potete leggere il piano qui.

Il Piano strategico di sviluppo del turismo e le forme di turismo che l’Italia può attrarre

piano strategico turismo

Un piano di sviluppo del turismo non può solo incentrarsi sul marketing territoriale e su fumose forme di partecipazione aperta tra soggetti pubblici e privati (che spesso nascono e muoiono nel giro di pochi mesi), ma deve passare necessariamente attraverso la salvaguardia dei Beni Culturali (necessariamente gestiti in forma pubblica e non privata) e dell’Ambiente. Un Ministro che nel piano strategico parla di generica “tutela dell’Ambiente” ma poi acconsente alla realizzazione di opere, in tutta Italia, che impattano negativamente con l’Ambiente, non può essere credibile, e quindi i suoi piani fatti di belle parole e dichiarazioni d’intenti, si sciolgono come neve al sole. Ancora, un Ministro che apre alla privatizzazione e alla sponsorizzazione per i Beni Culturali è una persona che non ha capito che la Cultura non può essere mercificata, ma deve essere a tutti gli effetti pubblica. Inoltre, un piano che mette al centro la partecipazione, ma pone come obiettivo quello di riportare la materia “turismo” nella competenza statale, modificando il Titolo V della Costituzione, dimostra ancora una volta l’incapacità di dialogo tra Enti centrali e periferici e, se avviene ciò, figuarsi come si può improntare la collaborazione tra lo Stato e le piccole attività produttive, tanto decantate all’interno del Piano.

Ora, se manca una seria analisi e un piano strategico credibile, volto a salvaguardare il Patrimonio Culturale, l’Ambiente e il Paesaggio nonché volto a incentivare e mettere in rete gli operatori del settore turistico, nonché gli altri attori che ruotano intorno (aziende dell’agroalimentare, artigianato, associazionismo, ecc.) è chiaro che non ci sarà mai alcuno sviluppo. Inoltre un Ministero che è incapace di leggere la realtà e di approntare misure adeguate volte a tutelare l’Ambiente dall’invasione del turismo di massa (che porta pochi soldi e tanti danni), allora è evidente che non è ancora chiaro, ai vertici, quale forma di turismo l’Italia è chiamata ad attrarre.

Insomma, detta in altre parole, se non ci sono direttive chiare e univoche, imposte dall’alto e si lascia fare agli operatori del settore, il cui scopo è ovviamente quello di attuare profitti, è ovvio che in questo quadro “liberal” le uniche forme di turismo che gli operatori attraggono sono il turismo di massa e il turismo balneare, ovviamente nazionale o, al più, proveniente dai paesi europei più vicini (Francia e Germania in primis). E’ tutta una questione di “forza attrattiva”. Gli operatori del settore balneare e dell’industria del divertimento hanno più mezzi e più risorse per attrarre la massa, per lo più giovanile, alla ricerca di momenti di divertimento e di sballo. Il settore museale o gli operatori dei Beni culturali, siano essi pubblici o privati, di converso, non avendo risorse, non saranno in grado di approntare misure atte ad attrarre il turismo culturale, l’unica forma di turismo capace di spendere e di rispettare il genius loci.

Tra le funzioni del Ministero dei Beni Culturali e del Turismo c’è anche quella di ridurre le disparità economiche e di mezzi tra gli operatori turistici e garantire lo sviluppo di forme turistiche adeguate al delicato eco-sistema ambientale e culturale italiano, cioè forme di turismo capaci di apprezzare e scoprire il ricco Patrimonio Culturale e, ovviamente, capaci di generare ricchezza diffusa. Ma è proprio questa la funzione che fino ad oggi non ha avuto, lasciando gli operatori in balia delle acque.

Ma ci sono molte altre forme di turismo che generano ricchezza nel rispetto dei territori: il turismo etnico, il turismo enogastronomico, il turismo religioso, il turismo termale, il turismo sportivo, ecc. Ora, se non ci sono politiche univoche capaci di strutturare queste forme di turismo, permettendo offerte turistiche integrate, sistemi di mobilità pubblica e infrastrutture capaci di accogliere il turismo (parchi pubblici, porticcioli, aeroporti, stazioni termali, o, più semplicemente, mezzi di trasporto regionali e interregionali), ogni azione promessa resterà solo un bel sogno su carta.

Il turismo low cost danneggia l’immagine dell’Italia nel Mondo

turismo trash gallipoli
Il Samsara beach a Gallipoli. Forse tra quello con la maglia bianca e la tizia con gli occhiali c’è un centimetro quadrato per ballare.

Ogni estate è la stessa storia. Orde di turisti low cost invadono le coste di tutta Italia, generando confusione, degrado e spesso problemi di ordine pubblico. Accade ogni anno a Gallipoli, per esempio. I tour operator, i gestori dei lidi, di bar, ristoranti e persino di B&B sono contenti e si sfregano le mani. Tutti gli altri no, incluso il Sindaco di Alassio, che pochi giorni fa ha rilanciato il problema davanti all’opinione pubblica, chiedendo persino l’accesso alle spiagge libere a numero chiuso. Davanti a un quadro così desolante, con orde di turisti che non portano ricchezza, ma degrado, che immagine riesce a trasmettere l’Italia nel Mondo?

Lasciar fare al mercato (cosa che finora ha fatto il Ministero) significa incentivare il turismo di massa, l’unica forma di turismo che interessa agli imprenditori del settore balneare e del divertimento, perché ciò che conta nel mercato sono i numeri e non la tutela e la valorizzazione del delicato Patrimonio Culturale materiale e immateriale. Per fare un esempio, la Notte della Taranta, che si svolge ogni anno nel Salento, non ha come primario obiettivo quello di salvaguardare la memoria storico-coreutico-musicale del Patrimonio culturale locale, ma quello di fare numeri e di portare quanta più gente possibile. Non importa che poi si perda la memoria, importa sfruttare un elemento di moda (la musica popolare salentina) per portare gente. Ciò avviene un po’ dappertutto e il fatto che il turismo di massa crea disagi e non genera ricchezza (anzi, contribuisce al consumo delle risorse pubbliche e all’eccessiva produzione di immondizia, onere che ricade sulle comunità locali) non sembra rappresentare un problema, visto che nel Piano di sviluppo del turismo non c’è traccia di questa tematica.

I trasporti, il vero problema

treno

Poniamo che sono un turista americano e che ho una settimana di vacanze che voglio trascorrere in Italia. In una settimana voglio vedere le cinque città principali (Roma, Firenze, Venezia, Milano, Napoli, Palermo). Arrivo a Milano, poi prendo un treno per Venezia, da lì mi sposto verso Roma e poi a Napoli. A parte il fatto che in ogni città avrò pagato diverse tasse di soggiorno (chiaro segnale che su questa tematica non c’è una linea guida centrale) e spesso nemmeno riesco a saperlo in tempo (giusto per farmi un’idea di quanto spenderò), il problema principale sarà quando scoprirò che per arrivare a Palermo col treno metterò più tempo che per arrivare a Madrid. Quindi desisterò dal visitare la città. Se poi ho la malsana idea di voler visitare le cittadine vicine, scoprirò che non ci sono treni, forse qualche autobus, ma d’estate non si sa che orari facciano. E quindi, per esempio, avrò perso l’occasione di vedere la Ciociaria oppure Salerno o Benevento o la costiera amalfitana.

Lo stesso problema avviene per spostarsi dalle città del Centro-Nord verso il resto del Sud Italia. Il drastico taglio delle tratte ferroviarie a discapito delle città del Sud ha ostacolato lo sviluppo turistico in queste zone, per non parlare dell’emblematico caso di Matera, che – nonostante la sua nomina a Capitale Europea della Cultura 2019 – soffre ancora un isolamento geografico senza paragoni. E, stando all’attuale programmazione regionale e comunale, non sembra che ci siano risorse adeguate per risolvere il problema dei trasporti pubblici verso una meta internazionale così importante. Il Ministero dei Beni Culturali e del Turismo non potrebbe approntare misure adeguate unitamente al Ministero dei Trasporti? E’ così difficile? Oppure è più facile stendere un Piano strategico che non verrà mai attuato e che resterà solo su carta? Questo ci dimostra quanto gli attuali governi siano più propensi a gettare fumo negli occhi che a risolvere fattivamente i problemi.

Dunque, stando così le cose, credo che per molti anni vivremo il dramma del turismo low cost e che il turismo internazionale tenderà maggiormente a scegliere altre mete più “facili” in termini di servizi e di accoglienza, con buona pace degli operatori balneari e delle discoteche, gli unici che si sfregano le mani nel sentire le dichiarazioni d’intenti del Ministro Franceschini e, forse, dei suoi successori (se continua così, il prossimo Ministro sarà Rovazzi…).

Punta canna, l’ultimo discorso del Duce

lido Punta canna

Sensazionale discorso fatto dal gestore…ops! Dal Duce del lido di Punta Canna, Gianni Scarpa, poco prima del blitz della Digos. Qui in anteprima per voi, miei cari 3 lettori.
Bagnanti di terra, di mare, dell’aria.
Slippini neri della rivoluzione e delle legioni.
Uomini, donne e pure gay d’Italia, dell’Impero e del Regno d’Albania.
Ascoltate!
Un’ora, segnata dal destino, batte nel mare della nostra patria.
L’ora delle decisioni irrevocabili.
La dichiarazione di guerra è già stata consegnata ai vicini di stabilimento di lido Punta della Maiala (di tu mà).
Scendiamo in campo contro i bocciatori reazionari dell’Occidente, che, l’anno scorso, hanno ostacolato la vittoria a bocce dei nostri valorosi anziani e spesso insidiato l’esistenza medesima dei nostrani giocatori di racchettoni prestanti e di fascio vigore!
Questo è l’anno della vittoria a bocce sotto al sole cocente di Chioggia e il vile boccino sarà sbocciato dalle virili bocce di italica stirpe romana!
Questo lido, proletario e fascista, è per la terza volta in piedi, forte, fiero e compatto come non mai contro i bolscevichi dello stabilimento qua accanto.
La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti.
Essa già trasvola ed accende i cuori da Jesolo all’italica Fiume: vincere!
E vinceremo, per avere finalmente la rivincita e gongolarci con le loro sovietiche donne perizomate e scostumate, attratte dai nostri falli cotonati e dai muscoli flosci e tatuati.
Terry Manfrin!
Corri ai fornelli, e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore, mio prode piddino e fedele cuoco!


P.S. il discorso di punta canna è vero, ho solo cambiato due-tre parole (giuro).
P.P.S. oggi volevo scrivere qualcosa, una cazzata, giusto per passare il tempo. Niente di serio, dunque.
P.P.P.S. L’aspetto più divertente della storia del “lido nostalgico” è che nelle cucine, secondo il Gazzettino di Venezia, ci lavorava il segretario PD di Chioggia, tale Terry Manfrin. Ora, a parte che – come dicevano i romani – omen nomen, ogni nome ha il suo destino, e questo se si chiama “Manfrin” è sicuramente un malandrino, ma poi devo essere io a dirvi che nel PD la gente ci entra solo per trovare un lavoro, pure sottopagato, pure umiliante, basta che sia un lavoro? E quello del segretario locale del PD è un lavoro, tipico dei lacchè di quart’ordine. Quindi nulla di cui stupirsi.
Ah, se non si fosse capito, il discorso originale è quello fatto da Mussolini il 10 giugno 1940 in cui dichiarava guerra a Gran Bretagna e Francia. Ma sono sicuro che se li avesse davvero sfidati a bocce, avremmo vinto la guerra. Eja eja jamme jà!

https://www.youtube.com/watch?v=Zd2hyly9Skw

Una civiltà che brucia

civiltà che brucia

Ogni giorno, quando apro un giornale o accedo a internet o accendo la TV, leggo sempre le stesse storie: la disoccupazione in aumento (o in leggerissimo calo, salvo smentite del mese dopo), gente che si ammazza a vicenda spesso per motivi futili, liti familiari sfociate nel sangue, masse di gente disperata che migra (forzosamente) verso il nostro martoriato Paese accanto a masse di giovani (e persino pensionati) che invece emigrano dall’Italia verso Paesi più ricchi, ospitali ed economicamente più accessibili oltre che – ogni estate – roghi e incendi che divampano in tutta Italia, particolarmente al Sud.

I roghi dolosi

In queste ore, per esempio, stiamo assistendo alla distruzione programmata del Vesuvio e si dice che siano stati usati anche dei gatti bruciati vivi per estendere il fuoco. Il tutto, chiaramente, per motivi economici. Smettiamola di pensare che la gran parte degli incendi sia dovuta al fantomatico mozzicone di sigaretta. No, la maggior parte degli incendi è di origine dolosa. Perché? Perché molte zone sono inedificabili, a vincolo paesaggistico o idrogeologico o semplicemente fondi a destinazione agricola. E allora, anziché attendere una lottizzazione (che probabilmente non avverrà mai) è più facile appicciare un fuoco e distruggere la vegetazione. C’è il vincolo di inedificabilità? Chi se ne frega, tanto in Italia nessuno controlla e un amico al Comune o in Regione si trova sempre.

Già, perché la legge 353/2000 non consente destinazioni d’uso diverse da quelle precedenti l’incendio per almeno 15 anni dal rogo e nel 10 anni successivi sono vietate, nelle zone incendiate, costruzioni di qualsiasi tipo. La legge è stata fatta per evitare abusi edilizi. Sì, ma chi controlla? Il Corpo Forestale dello Stato, che ormai è stato smantellato e inglobato nell’Arma dei Carabinieri. Quindi basta aspettare che si calmino le acque e presentare il progetto in Comune. Tanto, male che vada, ci sono sempre le deroghe, le sanatorie e i condoni, per cui tanto si incendia, si attende qualche anno e – puff! – compaiono le prime palazzine o i centri commerciali nei terreni incendiati qualche anno prima.

La crisi morale, demografica ed economica

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La storia ce lo insegna, basta saperla leggere. Ogni civiltà ha un suo epilogo più o meno lungo. Noi siamo arrivati alla fine della nostra civiltà (oddio, rabbrividisco nel chiamarla così). I fatti di sangue cruenti e inspiegabili, i genitori ammazzati dai figli per motivi futili, il tizio che insegue e investe due motociclisti, ammazzandone uno, la ragazzina che accoltella la madre perché scoperta a fumare una canna o i tizi che ammazzano l’amico così per scherzo durante un festino a base di coca e alcool, casi del genere sono inspiegabili se presi così, singolarmente, ma hanno una spiegazione storica.

Sì, lo sappiamo tutti, abbiamo perso i valori, la società è diventata liquida (usando le parole del compianto Bauman) e l’etica capitalistica ha sconfitto l’umanesimo, l’illuminismo, il razionalismo e persino l’idea di Dio sostituendoli con il padre denaro e i figli status simbol, nonché con il nichilismo morale ed etico. Dio è morto, ma è morta anche la ragione, la conoscenza, persino la filosofia morale di Kantiana memoria. L’ideale romantico e il concetto di identità di ottocentesca memoria hanno soppiantato l’uso della ragione. I romantici, che in un certo modo hanno dato via al nazionalismo e al successivo totalitarismo del Novecento, hanno introdotto il concetto di “intuizione”, di “spirito” e persino di “genio”, concetto oggi abusato in ogni contesto, persino quando un idiota fa una cazzata e la posta sui social. Sì, il genio, così come lo intendiamo oggi, non è il “genio” rinascimentale come Leonardo o il “genio” concepito dagli illuministi, ossia quell’individuo che usa la ragione e le conoscenze più alte per creare, ma è chi intuisce usando il senso e il sentimento, ossia una sfera interiore che non può essere misurata in termini oggettivi. E a proposito di individuo, è proprio qui che si sviluppa in modo deforme e difforme rispetto all’Umanesimo il concetto dell’individualismo: nel rapporto tra uomo e Natura, tra uomo e Storia, tra uomo e Società, ogni individuo è diverso perché ogni sentimento, ogni istinto, ogni stato d’animo sono diversi. Ciò che accomuna gli individui non è più la ragione e la conoscenza (che si possono misurare), ma è il sentimento, che però è diverso da persona a persona. Ecco che nasce l’esaltazione della personalità, la rivalutazione dell’Eroe (secondo una distorta rilettura dei miti) e quindi, di conseguenza, lo sviluppo degli istinti più bassi guidati e gestiti dall’Eroe di turno (guardacaso un leader carismatico).

Oggi il sistema capitalistico sfrutta la concezione romantica dell’individualismo per vendere e il sistema politico è imperniato sulla stimolazione degli istinti e la creazione costante di leader in cui riconoscersi e in cui credere ciecamente. Chiunque di noi ha avuto piena fiducia in un personaggio carismatico (che prontamente ha poi deluso le nostre aspettative): un sindaco, un presidente di Regione o anche semplicemente un personaggio noto. E’ l’individuo che ricerca costantemente una figura in cui riconoscersi e sperare, una società coesa e istruita non lo farebbe mai.

Ecco perché la destrutturazione del sistema scolastico, la nascita della conoscenza in pillole ormai strutturata su internet e la diffusione di contenuti tesi a rimbambire le masse sono un’arma contro lo sviluppo della ragione.

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Una scena del film The Island

Un po’ come nel film “The Island”, dove gli individui creati in provetta e pezzi di ricambio di gente ricca e famosa, sono appositamente tenuti nell’ignoranza, con il livello di istruzione di un bambino di terza elementare, proprio perché non devono conoscere, quindi ribellarsi contro il sistema che li sfrutta e li usa come pezzi di ricambio e quindi essere liberi. Il film è a lieto fine: la gente scopre la verità e diventa consapevole del proprio ruolo. Nella realtà, invece, siamo lontani da questa consapevolezza e ci stupiamo di ogni fatto di cronaca inspiegabile, ma che invece rappresenta il campanello d’allarme di una società in declino. Le migrazioni forzose e di massa, le guerre, l’economia stagnante, i fatti di sangue, persino la bassa natalità sono gli elementi che ci segnalano la morte della nostra società.

Noi siamo la curva calante di un percorso storico ormai alla fine. Proprio come l’Impero Romano d’Occidente.

La caduta dell’Impero Romano e gli elementi in comune con la nostra civiltà

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Già, l’Impero Romano cadde perché era giunto all’apice della sua grandezza e le spinte indipendentiste da parte della Periferia dell’Impero erano molte. Secondo molti storiografi l’Impero cadde soprattutto per questi motivi:

  • enorme calo demografico (dovuto a guerre, carestie e alle malattie);
  • crisi economico-produttiva che aveva provocato un’alta inflazione e il crollo dei commerci;
  • enorme migrazione dei romani di città (cioè dei cittadini dell’Impero) sia a causa delle guerre, ma soprattutto della povertà;
  • ingiustizia sociale, che vedeva i poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, contribuendo alla perdita di coesione sociale;
  • corruzione politica, eccessivo peso fiscale e mancanza di fiducia nel potere centrale di Roma.

Non so voi, ma a me sembra che ci siano gli stessi identici elementi che caratterizzano la nostra società: calo demografico e calo delle nascite, crisi economica e produttiva, con aziende che chiudono o delocalizzano gli stabilimenti all’Estero e piccole attività commerciali che falliscono; “fuga dei cervelli” e dei pensionati all’Estero, i primi per cercare opportunità lavorative e i secondi per cercare di campare con la misera pensione italiana; ingiustizia sociale netta ed evidente, con la scomparsa della classe media e l’acuirsi della forbice sociale tra ricchi e poveri; corruzione politica sia centrale che periferica (ogni giorno sentiamo di politici, amministratori o imprenditori arrestati per corruzione), eccessiva pressione fiscale e scarsa fiducia nella politica da parte degli italiani, tanto che oggi si parla spesso di “antipolitica”.

Le migrazioni incontrollate

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So che apparirò antipatico e impopolare nel parlare di questo argomento, ma le migrazioni di massa che si stanno verificando negli ultimi anni non sono certo paragonabili alle invasioni barbariche della caduta dell’Impero Romano, ma hanno elementi in comune. Anzitutto i numeri eccessivi, che non permettono il lento e graduale processo di integrazione, poi la gestione incontrollata e spesso approssimativa, che li costringe a vivere per lungo tempo in centri di accoglienza simili a carceri, in cui si acuisce lo scontro sociale e si formano i primi germogli di intolleranza, poi le città, che spesso vengono “suddivise” di fatto in quartieri auto-ghettizzati in cui i processi d’integrazione sono difficili se non addirittura osteggiati. Per non parlare poi dello sfruttamento del lavoro nero e schiavizzato, oltre a quello della prostituzione, che non rendono facile il processo d’integrazione, anzi, contribuiscono allo scollamento e all’odio sociale. Dati i numeri elevati, le crisi che attanagliano l’Occidente e l’incapacità effettiva di creare una società multietnica e pacifista, arrivo a pensare che si tratti di invasione. E attenzione, non di invasione volontaria da parte dei migranti. Non andiamo a guardare le singole storie, altrimenti perdiamo di vista il macro-processo. No, parlo di invasione di fatto, a tratti spontanea e a tratti forzata, che porterà presto alla disgregazione sociale e all’acuirsi dell’odio razziale, un odio che ci portiamo dietro dal romanticismo e dal nazionalismo e che è figlio della cultura individualista di stampo ottocentesco.

Dalla storia, come sappiamo, non abbiamo imparato niente. Né dal crollo dell’Impero romano né dalla formazione dei totalitarismi. Niente.

Tutto sommato, però, va bene così. Ogni civiltà nasce, cresce e muore, a volte nel peggiore dei modi. L’unico mio cruccio è che né io né i miei figli e forse nemmeno i figli dei miei figli vedranno il sorgere della nuova civiltà. Peccato. Spero solo nella prossima vita di rinascere gatto. Quello sì che è il vero eroe e simbolo dei nostri tempi.

Renzi Avanti. Il nuovo libro del segretario PD

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renzi

Nel suo nuovo libro, in uscita domani, 12 luglio, il fantasioso e fantasista segretario del PD, Matteo Renzi, (sci)orina le sue fantastiche teorie su come risollevare l’economia in Italia. Ecco come lo presenta Matteo:

“Questo libro non è solo un diario personale, una riflessione sulla sinistra o il programma del governo che verrà. Più di tutto, è la condivisione di idee, emozioni e speranze che spesso si sono perse nel racconto della comunicazione quotidiana. I risultati ottenuti e gli errori commessi. Il viaggio tra passato e futuro di un’Italia che non si ferma. Che vuole andare avanti.”

Il punto principale pare essere il “ritorno al trattato di Maastricht”, cioè con un rapporto deficit-PIL più alto rispetto a quello imposto oggi dal fiscal compact da parte dell’UE.

Insomma, l’economista de noartri si diverte a lanciarsi in complessi ragionamenti volti a ridurre la pressione fiscale e stimolare l’economia grazie a una maggiore flessibilità d’indebitamento.

Non voglio rovinare la lettura a chi deciderà di investire (ergo: buttare) quella decina di euri per comprarsi sto popò di opera di economy fantasy , ma una cosa lasciatemela dire: il “grosso” della sua operazione (che mi auguro non veda mai la luce) è di rafforzare le competenze della Cassa depositi e Prestiti affinché gestisca anche il Patrimonio dello Stato, per massimizzare il profitto e ottenere maggiore liquidità.

Tradotto: vendere altri beni dello Stato.

E torniamo alla politica di Prodi-D’Alema. Insomma, niente di nuovo sotto al sole del Renzi Avanti, tranne un po’ di fumo (negli occhi).

 

Lo Stato privato

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La crisi economica scoppiata nel biennio 2006-2008 ha messo in luce le debolezze del Sistema-Italia e la capacità delle Istituzioni di far fronte all’indebolimento economico della classe media, ormai pressoché scomparsa. La crisi ha rappresentato la batosta finale, ma i presupposti c’erano ed erano sotto gli occhi di tutti: le privatizzazioni.

Quando uno Stato detiene il controllo dei servizi fondamentali e attua politiche tese a calmierare i prezzi dei servizi offerti, anche le peggiori crisi economiche possono essere superate, perché i cittadini possono comunque sempre contare su uno Stato Sociale che li tutela nei bisogni primari e nei servizi essenziali quali acqua, sanità, trasporti, energia, gas, ecc.

L’Italia, invece, ha scelto la strada dello smantellamento dello Stato Sociale e della privatizzazione di tutto, anche di ciò che compete ad uno Stato, come la Sanità e la Giustizia. Ma perché oggi ci troviamo a pagare (salato) qualsiasi servizio pubblico e a vederci negato persino l’accesso alla Giustizia e ai servizi minimi essenziali?

Facciamo un salto indietro.

La Storia delle privatizzazioni

Siamo agli inizi degli anni Novanta. Uno spudorato Romano Prodi, presidente dell’IRI, inizia lo smantellamento di un Ente che contava 500.000 dipendenti. Dovete sapere che l’IRI gestiva Alitalia, Autostrade, Finmeccanica, Fincantieri e Aeroporti di Roma, i quali saranno poi immessi sul mercato ad uno ad uno. L’IRI, ormai svuotato di ogni suo ramo, verrà messo in liquidazione il 28 giugno 2000.

Ora sapete perché Alitalia è in crisi (ma viene comunque “salvata” da contributi pubblici) o perché il pedaggio costa così tanto (ma le strade sono cantieri eterni): vengono gestiti in modo privato, ma – dato che le gestioni sono fallimentari – le SpA vengono poi aiutate dallo Stato.

Dopo è la volta del Credit (Credito Italiano), che godeva di ottima salute, dell’IMI e della Banca Commerciale Italiana (Comit), tutto tra il 1993 e il 1994. L’idea di Prodi era quella di “smantellare il Paese pezzo per pezzo” (così disse il 17 gennaio 1998 in un celebre discorso in provincia di Lecce). E infatti ci è riuscito. Nel luglio 1996 iniziano le prime privatizzazione dei servizi pubblici locali grazie alla costituzione di società per azioni in cui i Comuni possono partecipare solo con quote minoritarie.

Il 16 aprile 1997 viene privatizzato l’Istituto San Paolo di Torino.

Nel 1999 Massimo D’Alema prosegue il disegno staticida di Prodi approvando un disegno di legge che privatizza definitivamente i servizi pubblici locali. Tutte le aziende municipalizzate che erogano in regime di monopolio acqua, gas, elettricità, trasporti urbani, rifiuti urbani vengono trasformate in imprese private.

Nel gennaio 1998 il Parlamento liberalizza il commercio abolendo licenze e regole sugli orari. Poi è la volta della liberalizzazione della telefonia fissa (febbraio 1998) e dell’energia elettrica, fino alla privatizzazione dell’ENEL (1999).

A maggio del 2000 si provvede a liberalizzare il commercio del gas.

Poi è la volta delle TV. La legge Maccanico apre alla privatizzazione della RAI e di fatto salva le reti televisive di Berlusconi.

Infine, sempre nel 1998 le Ferrovie dello Stato vengono smembrate per poi costituire RFI (Rete ferroviaria italiana, pubblica) e Trenitalia (privata). Stessa sorte toccherà alle Poste, che diventeranno SpA.
D’Alema, non contento, si sbarazza anche di molti beni pubblici, tra cui il Foro italico e lo Stadio olimpico, passati nelle mani dei privati.

Le privatizzazioni così realizzate non si avvicinano nemmeno minimamente a quelle poste in essere dal governo Thatcher e dal governo Blair in Inghilterra (criticati per le politiche eccessivamente liberal). Tutto è in nome di un alleggerimento dello Stato che – invece – a distanza di 20 anni non è avvenuto e che, anzi, è sempre più indebitato ma privo degli Enti che, invece, avrebbero garantito ai cittadini molteplici oneri economici in meno. Insomma, se avessimo avuto ancora le Poste, i trasporti, l’energia, il gas e i servizi comunali ancora pubblici, non pagheremmo le tariffe esose che paghiamo oggi.

La Sanità privata e gli Ospedali chiusi

Il sistema sanitario nazionale, così com’è impostato oggi, non può essere soggetto a privatizzazioni, ma dato che il disegno di alleggerimento dello Stato è ancora in corso (prova ne è il fatto che Prodi, D’Alema e Bersani non sono ancora stati cacciati a calci nel sedere dalla politica), si deve comunque ridurre la spesa. E come? Semplice, costringendo le Regioni (oppure favorendo le Regioni) a chiudere gli Ospedali, nel nome dell’ottimizzazione delle risorse. Ecco che numerosi centri ospedalieri, anche di recente costruzione, vengono o chiusi o trasformati in centri di lungo degenza oppure in laboratori di analisi gestiti privatamente.

Se poi ci metti le liste d’attesa lunghissime, che arrivano anche a un anno, e i medici che ti “suggeriscono” la visita privata o l’analisi di laboratorio con pochi giorni d’attesa, allora la privatizzazione della sanità è un dato di fatto.

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Gli ospedali chiusi dal 2013. Articolo de La Stampa

La giustizia privata. Tribunali periferici chiusi. Mediazione

Nemmeno la Giustizia è esente da questo percorso di alleggerimento e privatizzazioni. La riforma della geografia giudiziaria, iniziata nel 2011, ha portato alla soppressione di 30 tribunali, alla chiusura dei tribunali periferici e a un drastico taglio degli Uffici del Giudice di Pace. Oggi è in discussione anche la chiusura dei Tribunali per i minorenni e del taglio di competenze per i Giudici di Pace. A questo disegno giustizicida va aggiunto un altro tassello: la creazione e l’incentivazione della mediazione, addirittura obbligatoria per legge per molte materie (persino per materia di risarcimento danni da circolazione stradale, cioè il 50% del carico giudiziario), ossia una branca delle privatizzazioni.

Cos’è la mediazione? è l’attività professionale svolta da un privato, in veste di arbitro terzo e imparziale, che cerca di far trovare un accordo tra le parti in lite. Insomma, il mediatore è un privato e la mediazione è una forma (oggi obbligatoria per molte materie) di risoluzione delle controversie alternativa a quella giudiziaria. Inutile dire che in questi anni le Agenzie di mediazione si sono moltiplicate a dismisura e che spesso il costo dell’accesso alla giustizia è più elevato rispetto alla mediazione. Questa, dunque, è una forma sottile di smantellamento del sistema giudiziario in Italia che, unita alla chiusura dei tribunali e allo svuotamento di funzioni del Giudice di Pace, mostra apertamente quale strada sta percorrendo lo Stato italiano in materia di giustizia.

I Trasporti privati

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Se prima, per andare da Torino a Taranto, pagavi 40.000 lire oppure 25,00 € nei primi anni Duemila, oggi con quella cifra non esci fuori regione. E’ colpa dell’euro? No, è merito delle privatizzazioni. Trenitalia è il soggetto privato (ma aiutato dallo Stato quando i bilanci sono in passivo) che gestisce i trasporti su rotaia. Le rotaie sono ancora di proprietà degli Enti Pubblici, ma i treni non più. Le liberalizzazioni servivano a creare concorrenza, ma a distanza di 20 anni quanti imprenditori hanno investito nei trasporti su rotaia in Italia? Escludendo Italo (che fa poche tratte e i cui costi sono pressoché simili a quelli di Trenitalia), nessuno. Ecco servita la liberalizzazione: aumento spropositato delle tariffe e tagli indiscriminati delle tratte economicamente meno vantaggiose. Infatti prima i treni arrivavano ovunque, perché l’obiettivo non era la massimizzazione del profitto, ma l’offerta di servizi necessari, mentre oggi il Sud soffre i tagli delle tratte dovuti alle privatizzazioni, perché l’obiettivo di Trenitalia non è offrire un servizio, ma massimizzare il profitto. Quindi chi vive al Sud o in zone disagiate avrà sicuramente apprezzato la privatizzazione di un servizio così necessario.

Le Poste privatizzate

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Poste Italiane SpA non ha grande interesse a continuare il servizio di consegna della posta, anzi, si sta concentrando soprattutto sui servizi finanziari, insomma, vuole diventare una banca, perché così i profitti sono più alti e i costi minori. Tra l’altro quello della corrispondenza è l’unico settore dove si è sviluppata una minima forma di concorrenza, con le poste private che svolgono gli stessi servizi a costi inferiori. Però, sapete, le pensioni le pagano ancora in posta, ma oggi i pensionati sono costretti a ricevere la misera pensione su un conto corrente e i bollettini, nonostante l’apertura degli sportelli Lottomatica di molti tabacchi convenzionati, continuano ad essere pagati in posta da molti utenti, sì, ma con commissioni che arrivano a 1,50 €.

Dunque mettiamo una famiglia che deve pagare il bollettino di: luce, acqua, gas e telefono. Solo di commissioni pagherà 6,00 €. E non parliamo del costo delle bollette. Anzi, ne parliamo ora ora.

Le privatizzazioni di energia, telefonia e il mercato libero

Con lo smantellamento dell’ENEL e di SIP sono nati, come ben sappiamo tutti, ENEL distribuzione (maggior tutela), ENEL Energia (mercato libero) e Telecom Italia (oggi venduta agli spagnoli), con l’intenzione di creare un mercato concorrenziale, ma nei sistemi capitalistici nostrani “concorrenza” è sinonimo di “fregatura”.

Oggi, rispetto ai primi anni 2000, paghiamo il 20% in più sia di corrente elettrica che di telefonia. Vero è che oggi si è aggiunta la voce “internet” alle spese telefoniche, ma è anche vero che in molti Paesi europei il costo dell’ADSL (o della fibra) è nettamente inferiore.

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Confronto prezzi ADSL in Europa. Fonte: SOS tariffe

Le compagnie telefoniche in regime di concorrenza in Italia sono diverse, ma se spulciamo le offerte, al netto del fumo negli occhi, sono pressoché uguali in termini di costi e si differenziano minimamente in termini di servizi offerti e di qualità del servizio. Per non parlare poi delle numerose fregature che si annidano nei caratteri minuscoli dei contratti, spesso sottoscritti senza essere letti e che riaffiorano solo all’arrivo delle prime fatture.

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Contratto telefonico e ADSL. Tra spese e spesucce, le iniziali 40,00 € a bimestre promesse dall’operatore telefonico diventano 61,80 €.

In materia energetica, poi, abbiamo raggiunto l’apice della fregatura con un regime di concorrenza basato su una componente minima e insignificante in fattura: la materia energia. Tutte le compagnie energetiche ci martellano la testa con sconti e offerte sulla materia energia, senza ovviamente specificare che il grosso da pagare in bolletta non è la materia energia, ma: trasporto, gestione contatore, oneri di sistema. Voci che in fattura risultano incomprensibili ma che rappresentano la maggior somma da pagare. Hai voglia a cambiare fornitore, i costi resteranno sempre altissimi!

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Notare il costo della materia energia e il costo delle “altre spese”. Lo sconto promesso dall’operatore è solo sulla materia energia, quindi un nonnulla.

Le privatizzazioni dell’acqua

Se l’acqua è un bene primario e comune, la sua gestione è privata. E se è vero che le Regioni possono controllarne la gestione, è anche vero che non possono legiferare sulla sua forma giuridica (quindi non possono rendere gli acquedotti Enti pubblici). La competenza spetta allo Stato. Lo stesso Stato che in questi anni ha privatizzato ogni cosa, ha privatizzato anche il bene più prezioso che abbiamo, con conseguenti aumenti di tariffe, tanto che in alcuni casi gli aumenti sono arrivati anche oltre il 200%.

Acqua bene comune. In Italia non più.

Lo Stato risparmia e ci guadagna (come fosse un privato)

Lo smantellamento dello Stato Sociale voluto da Prodi, D’Alema, Bersani e compagnia bella ha una duplice funzione: da un lato ha permesso di risparmiare sui costi degli Enti controllati dallo Stato, dall’altro ha favorito introiti maggiori sotto forma di IVA, contribuzione, imposte di bollo e altri emolumenti che ora queste aziende private versano allo Stato. Quindi oggi lo Stato da un lato ci risparmia e dall’altro ci guadagna. A rimetterci, chiaramente, sono i cittadini e gli utenti che hanno visto lievitare le tariffe, chiudere i servizi necessari e peggiorare, talvolta, gli stessi servizi a fronte di oneri maggiori.

Addio allo Stato Sociale

E’ ovvio che, con le privatizzazioni selvagge e rinunciando ad erogare tali servizi, lo Stato italiano ha smantellato lo Stato Sociale in favore di uno Stato liberista di stampo capitalista. Ma si tratta di una forma di capitalismo truccato, perché se è vero che nel capitalismo l’unico vantaggio che hanno i consumatori è rappresentato dalla concorrenza, è anche vero che in Italia la concorrenza è truccata, perché le aziende che si sono accaparrate i servizi pubblici fanno cartello (cioè si mettono d’accordo) oppure sono controllate dalle stesse persone, seppur con nomi diversi. Quindi si tratta di monopoli di fatto mascherati da regimi di concorrenza.

In questo quadro, l’unico “rimedio” predisposto dallo Stato è stato quello dell’istituzione del Garante della Concorrenza, un Ente che in Italia non ha alcun potere se non quello di comminare multe di lievissima entità a grandi aziende che non rispettano la concorrenza, che pagano volentieri le multe, tanto rappresentano una misera percentuale rispetto al fatturato.

Questa è stata l’unica concessione fatta dallo Stato a noi cittadini che, oggi, siamo costretti a pagare tanto per servizi pessimi in una realtà che andrà sempre peggio, visto che l’opera di smantellamento dello Stato Sociale sta continuando e presto ci vedremo negato persino il diritto a farci una passeggiata al mare o in campagna o in montagna senza pagare il pedaggio a Paesaggi per l’Italia SpA. Ma tranquilli, c’è pur sempre l’abbonamento annuale e se ti iscrivi alla newsletter avrai diritto a uno sconto del 5% sull’eccedenza dei passi consentiti.

 

Il G20 spiegato semplice

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Oggi si conclude il vertice dei G20, cioè dei leader di 20 Paesi del Mondo, con a tema “Dare forma a un mondo interconnesso”. Gli argomenti trattati sono molti: finanza, economia e commercio internazionale, ambiente e clima, lotta al terrorismo, guerre, migrazioni, ecc.

Ora, al di là dei discorsi lunghi e a tratti complessi fatti dai vari leader, del politichese, degli argomenti ostici e spesso poco comprensibili dal grande pubblico, ciò che ci fa capire come funziona il G20, il G7 o comunque i rapporti internazionali è qualcosa di facile e ora ve lo spiego.

Gli accordi del G20

In questi vertici, di solito, i grandi della Terra fanno degli accordi su diverse tematiche, le più importanti sono: finanza, commercio, ambiente e lotta al terrorismo.

Di solito i vertici si concludono sempre con un accordo.

Ad esempio: dobbiamo ridurre le emissioni di C02 del 25% entro il 2030. Ok, semplice no? L’accordo è stato trovato, però bisogna metterlo in pratica. Poniamo, per esempio, che l’Italia, che ha firmato l’accordo, si è dunque impegnata a ridurre le emissioni di C02. Quindi si dà il caso che sin dal giorno dopo, per esempio, imponga all’ILVA di Taranto o alla centrale ENEL a carbone di Brindisi di ridurre le emissioni in atmosfera. E’ la mossa più logica, no? Invece non fa niente.

Allora, per esempio, immaginiamo che voglia incentivare gli automobilisti a cambiare le vecchie auto e introduca degli incentivi per acquistare, poniamo, auto ibride o a GPL o a metano. E invece no. Semplicemente non fa nulla.

E l’accordo? Vabbè, al prossimo vertice l’Italia dirà che “l’impegno del nostro Paese è massimo nel ridurre le emissioni” e con questa frasetta si beccherà l’applauso della platea.

Invece, poniamo che si giunga ad un accordo di libero scambio con gli USA e l’accordo prevede che siano ridotti i dazi doganali e favoriti i commerci tra Italia e USA, garantendo, per esempio, 1000 tonnellate di merci esportate al mese. Il leader statunitense tornerà a casa e dirà alle grandi aziende: “ok, ora potete esportare tutto quello che volete, senza controlli di qualità sulle vostre merci”.

Le aziende statunitensi festeggiano l’accordo raggiunto e già immaginano di aumentare il fatturato.

Il leader italiano, dal canto suo, tornerà in Italia e dirà a Coldiretti o a Confindustria: “ci sarebbe la possibilità di esportare negli USA, però l’accordo prevede che dobbiamo garantire almeno 1000 tonnellate di merci al mese”. “Ehm – dirà Coldiretti – noi non ce la facciamo”. “Cacchio! – dirà Confindustria – noi già stiamo in crisi e non possiamo garantire un quantitativo simile!”. Quindi, di fatto, l’accordo è unilaterale e premia il più forte e il più furbo.

Qui lo dico e qui lo nego

Un’altra sfaccettatura degli accordi internazionali sta nel fatto che tanto quelle sono solo parole, scritte sì, ma pur sempre parole.

Gli accordi non sono legge né sono vincolanti per i Paesi firmatari.

Oddio, alcuni lo sarebbero, ma tanto al prossimo vertice una scusa si trova sempre e comunque gli accordi più delicati (tipo quelli sul clima) hanno scadenze lunghe e spesso, nel frattempo, il leader è cambiato.

La metafora del bullismo nel G20

E veniamo all’ultimo aspetto per comprendere meglio come funzionano i rapporti internazionali.

L’aspetto più importante sono i toni cordiali e amichevoli tra leader di Paesi avversari, tipo USA e Russia o Germania e USA. Lì, sul momento, so tutti baci e abbracci, poi, tornati nei rispettivi paesi, si torna ad essere avversari.

E’ chiaro, inoltre, che il leader del Paese più forte economicamente e più cazzuto militarmente è quello che fa la voce grossa e cerca di intimorire e addomesticare i leader di paesi più deboli.

Lo fa spesso Trump, quando dà la mano ai suoi colleghi (oppure la nega) oppure Putin, quando lancia sguardi e battutine per far capire che lui sembra fesso, ma non lo è.

Certo, questi atteggiamenti possono scatenare o far terminare guerre che portano morte e distruzione in tanti paesi, e infatti oggi Putin e Trump hanno trovato un accordo per il cessate il fuoco in Siria.

Vedremo quanto dura.

Fatto sta che la politica internazionale si può simbolicamente ricondurre al quanto piscio più lontano di fanciullesca memoria.

Tutto il resto è contorno, anche le proteste.

Anche quelle fanno parte del folklore, perché chi protesta e distrugge, nell’ambito degli svariati G7 o G20, dopo aver sfogato la propria frustrazione, tornerà sulla sua Mercedes, pronto a ingozzarsi al Mc Donald e a tornare il lunedì mattina alla scrivania di una multinazionale che gli dà il pane (del Mc, chiaro).

Fedeli e Donnarumma, due facce della stessa medaglia

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Ho scoperto l’esistenza di Donnarumma, uno che c’ha un cognome che sembra la marca di un pastificio campano, quando sui social hanno iniziato a parlare del suo rifiuto di rinnovare il contratto con il Milan. Prima di allora, non seguendo il calcio, non ero al corrente della sua esistenza.

Oggi il portierino continua a far parlare di sé, dato che ha rinunciato a svolgere l’esame di maturità per volare a Ibiza e svolgere – invece – le meritate vacanze.
La sua scelta ha creato, come accade di solito, spaccature tra i pro e i contro e molti hanno scritto di lui in questi giorni, chi difendendolo (tanto a che serve un pezzo di carta in Italia oggigiorno?) e chi dandogli dell’irresponsabile (che esempio dà ai suoi coetanei?).

Ogni posizione è giusta e corretta, sì, tranne quella del Ministro Fedeli che ha voluto scrivergli una lettera aperta dalle pagine della Gazzetta dello Sport.

La Ministra ha scritto parole tipo: “Lo studio è una straordinaria occasione di crescita. È lo strumento che più di ogni altro può darci autonomia, indipendenza, pensiero critico, che può renderci cittadine e cittadini consapevoli, attivi. Solo la conoscenza genera vera libertà, consente a ciascuna e a ciascuno di trovare “la propria voce”, la propria strada”.

Ma che faccia tosta! Da quale pulpito viene la predica! No, cara Ministra Fedeli, lei dovrebbe solo tacere. Donnarumma, come tanti altri giovani, non ascolterà le sue parole così vuote e retoriche e prive di significato, perché il significato è parte del significante e il significante sono i gesti e la realtà fattuale che danno significato alle parole.

Lei che esempio ha dato mentendo sul proprio titolo di studi? Ha spacciato un diploma per un diploma di laurea e, solo dopo essere stata sgamata, ha corretto il suo curriculum vitae. Questo è ciò che i giovani vedono, non le sue parole inutili.

L’esempio che dà è proprio questo: non serve un titolo di studi per arrivare a ricoprire alte cariche, basta mentire, entrare nel gioco della politica, essere furbi, perché il merito in Italia conta meno delle conoscenze, dei favori, persino della militanza stantia in un sindacato stantio e rappresentativo solo di sé stesso.

E poi, onestamente, in questa realtà storica in cui davvero il titolo di studi non ha più alcuna importanza e la scuola ha fallito ogni suo compito, svuotata di potere educativo e di significato sociale anche grazie alle riforme degli ultimi 20 anni, come fa un ragazzo ad avere fiducia nel percorso di studi e sognare un futuro all’altezza della propria intelligenza e dei propri sacrifici?

Questo lo penserà soprattutto uno che in un solo anno guadagnerà quanto tutta la sua classe in una intera esistenza. Donnarumma sì che è l’emblema dell’Italia che ha capito davvero tutto: ha capito che è inutile farsi il culo, ma soprattutto che siete dei falliti e avete fatto fallire intere generazioni che non credono più in voi, figurarsi nelle vostre inutili parole.