Università, tagli e scioperi. Tutti hanno torto e ragione.

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Le università rappresentano il primo volano di crescita di un Paese, perché trasmettono cultura e, grazie alla ricerca, permettono ad un Paese di progredire. Attenzione, quando si parla di ricerca non s’intende solo la ricerca scientifico-tecnologica, quella è utile, sì, ma non è sufficiente. Il tecnismo, da solo, non basta a rendere un Paese culturalmente e socialmente maturo, anzi, se lasciato da solo rappresenta un pericolo. La ricerca è essenziale in tutti i campi, da quello giuridico-economico a quello filosofico e letterario, a quello politico, sociologico e antropologico. Insomma, tutti i campi del sapere hanno bisogno di ricerca.

Peccato che negli ultimi decenni, a partire dalla riforma Berlinguer, voluta dal centro-sinistra (Ministro Luigi Berlinguer, sotto i governi Prodi e D’Alema, da non confondere con il cugino Enrico, come spesso – oddio – mi è capitato di sentire…) e poi con la riforma Moratti (governo Berlusconi) e i successivi correttivi, le Università siano state considerate come meri istituti professionalizzanti, però dotati di autonomia. Ciò ha comportato l’abbassamento generale della qualità della didattica (pensiamo, per esempio, al sistema dei crediti formativi legato al numero di ore di lezione e al numero di pagine dei manuali) e ad una corsa sfrenata all’acchiappamatricole, con offerte formative spesso discutibili (corsi di laurea triennali inutili, corsi interfacoltà superflui) e slegati dal mondo del lavoro (molti corsi triennali non formavano figure appetibili alle Aziende). Se l’intento delle riforme era quello di legare Università e Lavoro, hanno fallito miseramente (come fallirà – e ciò merita un articolo a parte – l’alternanza scuola-lavoro voluta dal governo Renzi).

I fondi sempre più esigui alle Università

Il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), che è quel fondo destinato a finanziare le Università da parte dello Stato, è in rotta di collisione ormai da quasi 20 anni. Con le varie riforme e soprattutto a partire dagli anni della crisi economica il fondo è drasticamente calato, il ché ha comportato un notevole abbassamento della qualità formativa universitaria e il fuggi fuggi generale dalle Università del Sud (maggiormente colpite dai tagli) a favore di quelle del Centro-Nord. Basti pensare che l’art. 64 comma 13 della legge n. 133/2008 riduceva il FFO “di 63,5 milioni di euro per l’anno 2009, di 190 milioni di euro per l’anno 2010, di 316 milioni di euro per l’anno 2011, di 417 milioni di euro per l’anno 2012 e di 455 milioni di euro a decorrere dall’anno 2013”. Le manovre correttive successive hanno ridotto i tagli al FFO, però non hanno concesso fondi “a pioggia”, bensì sulla base di criteri premiali stabiliti dall’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR). E’ qui che casca l’asino. Vi chiedo giusto 20 secondi per leggere il paragrafo successivo e per capire come funziona l’attuale sistema di finanziamento alle Università.

l’ANVUR

Venne istituito nel 2006, con legge 286/2006, sotto il Governo Prodi, con Ministro dell’Istruzione Fabio Mussi (DS). L’Agenzia ha il compito di valutare le Università e la Ricerca con criteri piuttosto discutibili sul piano democratico, ossia i criteri non vengono elaborati da una discussione democratica (da un Parlamento o da un organo di raccordo tra Ministero e Università), ma da un’Agenzia che risulta formalmente autonoma, ma vigilata dal Ministero dell’Istruzione, tant’è che ultimamente le attività dell’ANVUR sono state oggetto di contenzioso giudiziale e la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha bacchettato l’ANVUR in merito ai criteri sulla valutazione delle riviste.

Già, è qui il punto focale della questione. L’ANVUR valuta le Università e l’operato del corpo docente soprattutto in base al numero di pubblicazioni fatte in certe riviste, da essi stessi indicate, e su cui il docente deve pubblicare, pena la decurtazione del finanziamento all’Università in cui opera. Quindi, per fare un esempio, se la rivista “il commento giuridico” (nome di fantasia) è accreditata dall’ANVUR e il docente pubblica tre articoli, di cui due con un semplice “errata corrige” (cioè una correzione formale, che nulla aggiunge al contenuto dello scritto), riceverà una buona valutazione (e quindi maggiori finanziamenti) rispetto ad un collega che pubblicherà 20 ottimi articoli su una rivista autorevole, internazionale e riconosciuta dalla comunità scientifica, ma non accreditata dall’ANVUR. Ciò comporta come corollario che il docente dovrà “farsi amico” l’editore e, molto probabilmente, seguire la sua linea editoriale, con buona pace della libertà della ricerca.

Dunque è facile immaginare che, nell’opacità dei criteri di valutazione e nelle scelte dell’ANVUR di finanziare in modo pressoché discrezionale le Università, si annidano le scelte politiche del Ministero che – controllando l’ANVUR – controlla di fatto il sistema universitario e ne lede l’autonomia, scegliendo chi finanziare e chi no, in un quadro in cui il FFO è misero e la vita dell’Università si gioca sul solo fondo premiale. Quindi, in buona sostanza, i docenti non sono più liberi di pubblicare sulle riviste universalmente riconosciute dalla comunità accademica internazionale, ma su quelle volute – in ultima analisi – dal Ministro e non sono nemmeno più propensi a fare ricerca, bensì a pubblicare anche roba trita e ritrita, l’importante è farlo dove vuole l’ANVUR!

Il baronato nell’università

Certo la colpa dello stato in cui versa l’Università non è solo della politica, anche i docenti hanno le loro colpe. Il sistema universitario italiano – nessuno escluso – è colpito dalle logiche baronali, per cui l’accesso alla carriera universitaria (dottorati, assegnisti, ricercatori) è appannaggio del docente politicamente più forte e autorevole nelle mura dell’Ateneo.

Non è certo un mistero che i concorsi per accedere al dottorato (a maggior ragione con borsa) siano truccati e cuciti su misura del candidato prescelto e che la logica di accesso allo status di assegnista o ricercatore è basata sull’obbedienza al docente e non sul merito. Ovviamente per mantenere quel misero assegno di ricerca, bisogna non infastidire né il docente né i suoi amici, anzi, a volte occorre sacrificare la propria dignità per rispettare le regole imposte dal docente o dal dipartimento da lui (o loro) controllato.

La denuncia della ricercatrice dell’Università di Pisa, salita recentemente alla ribalta nazionale, non stupisce nessuno di quelli che nelle università ci hanno studiato o combattono ogni giorno con il precariato e il nepotismo, fenomeni che colpiscono spesso, rispettivamente, chi vale e chi invece ha rapporti di parentela o amicizia con il docente, a discapito del merito. A Bari, per esempio, un intero corridoio di un dipartimento era l’estensione del nucleo familiare del docente. Ciò non giustifica le scelte ministeriali, ma è un chiaro indicatore che l’Università non brilla in meritocrazia e quindi eticamente non potrebbe fare la voce grossa con la politica, che non incentiva la meritocrazia. Tutto ciò è l’emblema dell’evangelico “Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio di tuo fratello”.

Lo sciopero dei docenti dell’università

In questo desolante quadro i docenti, ormai stanchi di subire i tagli ai finanziamenti e i blocchi agli stipendi, hanno deciso di farsi sentire indicendo uno sciopero proclamato dal Movimento per la dignità della docenza universitaria. Lo sciopero nasce dopo anni di vertenze e numerosi – infruttuosi – incontri con il Ministero per lo sblocco degli scatti stipendiali, fermi al 2011. I tagli al FFO, massicci al Sud, gli stipendi bloccati e il carico di lavoro dei docenti, che si pagano l’acquisto di libri e materiale didattico con i propri soldi, insieme al progressivo depauperamento del sistema universitario, hanno portato i docenti a scioperare, per far conoscere alla popolazione lo stato in cui versa l’Università. Se da un lato mi sento di dargli ragione, dall’altro, però, penso che questa situazione sia stata anche voluta da loro. Non da tutti, è chiaro. Ma conosco (anche personalmente) numerosi docenti che, negli anni, hanno militato nei partiti, hanno ricoperto posizioni apicali (penso a Luciano Modica, ex rettore dell’Università di Pisa, che ha contribuito all’istituzione dell’ANVUR) e – come detto in precedenza – hanno approfittato dell’autonomia per fare i propri comodi e regalare posti di lavoro o di ricerca a parenti e pupilli.

Lo sciopero però, in fondo, è giusto e la speranza resta. La speranza di mettere al centro del dibattito politico un tema vitale per la cultura, l’economia e il progresso (materiale e spirituale) di questo Paese, in modo da correggere gradualmente le storture prodotte da ambo le parti, dalla politica nel ridurre alla fame l’unico vero strumento di determinazione culturale del popolo italiano e dal baronato nell’aver ridotto le Università a parentopoli e amicopoli. Mi auguro che ognuno tolga la trave dall’occhio dell’altro.

Il concetto di Cultura

Cultura

Cos’è la cultura? Quante definizioni ha? A cosa ci serve? Perché è importante riprendere la discussione sul tema? Con questo articolo cerco di dare tutte le definizioni possibili del concetto di “cultura” e di focalizzare l’attenzione su un tema di fondamentale importanza nei decenni a venire.

Il termine cultura ha trovato, nel corso della storia, una sovrabbondanza di significati tanto da risultare quasi impossibile una classificazione. Abraham Moles, nel 1967, faceva riferimento all’esistenza di più di 250 definizioni di cultura. Gli antropologi Kroeber e Kluckhohn tentarono di impostare una definizione di cultura di validità universale, ma registrarono circa 150 concezioni differenti.
Solo per fare qualche esempio, al giorno d’oggi si può utilizzare il termine in questione per una svariata cerchia di contesti:

”Ci sono enormi differenze culturali tra Oriente e Occidente”
”Umberto Eco è una persona di grande cultura”
”La musica pop è usata dai gruppi giovanili per affermare la loro identità culturale”
”La cultura di massa ha un effetto di omologazione”
”Le telenovela sono espressione della cultura sudamericana”
”La cucina italiana è parte della tradizione culturale del nostro Paese”
”Il dialogo tra le culture è necessario, ma difficile”

Ecco che possiamo trovare, in questi esempi, diverse concezioni di cultura. A grandi linee si può affermare che esiste un significato quantitativo (ossia il complesso di nozioni e conoscenze che un individuo possiede) o un significato sociologico, per cui in un gruppo sociale assumono una notevole importanza le rappresentazioni collettive, cioè gli insiemi di norme e credenze che il gruppo possiede. Esiste una concezione antropologica (che, del resto, ha fortemente influenzato quella sociologica), per cui la cultura rappresenta un insieme di norme, di credenze, di abitudini quotidiane più o meno accettati da tutti in una determinata comunità.
Ma procediamo con ordine. Per chiarire la portata di tali significati occorre soffermarsi sulle concezioni di cultura che, dalla civiltà Greca e Latina ad oggi, hanno caratterizzato tale termine, rendendolo un concetto diversamente interpretabile e altamente indeterminato, considerando lo sviluppo che tale termine ha avuto nelle diverse epoche storiche.

Cultura come processo di coltivazione

Il termine, di origine latina, deriva dal verbo colere, che significa “coltivare” e veniva dunque impiegato per indicare qualsiasi manipolazione della natura ad opera dell’uomo. Ma anche oggi si intende come l’insieme dei sensi operativi, legati al lavoro agricolo ed ai suoi risultati o all’allevamento di microrganismi (la cultura o coltura dei virus, della vite, dell’olivo, etc.).

I latini utilizzavano questo termine, però, non solo per indicare tale rapporto tra la natura e l’uomo, ma anche, insieme al termine anima, per indicare il processo di coltivazione, ossia di educazione, della propria anima, così come si coltiva la terra, quindi la cultura indica un processo di coltivazione dell’uomo attraverso tutta una serie di procedimenti e di processi di apprendimento (cultura animi). Inoltre l’aggettivo cultus (l’etimologia è analoga) stava a designare tutto ciò che si rivela curato, lavorato, coltivato e s’oppone quindi agli aggettivi silvester o neglectus. Da qui il termine culto, che viene utilizzato per tutte quelle situazioni che richiedono una cura assidua, una cura verso gli dei o una cura verso l’essere umano.

In tale prospettiva, il concetto di cultura è apparentato a quello di coltivazione, ossia ad un intervento mirante a sviluppare qualcosa che se non fosse curato, perirebbe o non nascerebbe affatto. Cultura, insomma, come agri-coltura o, anche, come cultura fisica o culturismo, che denota una pratica ginnica tendente a rafforzare il volume e la potenza della muscolatura.

Il termine cultura, nel significato appena illustrato, nonostante sia stato, in un certo senso, superato dalle interpretazioni successive, possiede una intrinseca caratteristica che lo rende attuale e rappresenta comunque il punto di partenza per una comprensione complessiva del termine. Sia perché, ad ogni modo, indica sempre un processo di crescita, sia perché dalla concezione di cultura come cultus (ossia “coltivazione degli esseri umani” o meglio, la loro educazione) deriva il valore di cultura nel suo senso moderno: il complesso di conoscenze (tradizioni e saperi) che ogni popolo considera fondamentali e degni di essere trasmessi alle generazioni successive.

E’ interessante notare che Jesús Prieto de Pedro, nella ricostruzione definitoria del termine cultura, segnala come il significato moderno del lemma sia acquisizione linguistica relativamente recente, infatti nel Dictionnaire Universel di Antoine Futière del 1690, il termine viene usato nel suo senso originario.

Cultura come attività intellettuale superiore

Cultura può essere interpretata in una diversa accezione: “complesso delle conoscenze intellettuali e delle nozioni che contribuisce alla formazione della personalità”. In altre parole indica l’insieme dei sensi intellettualistici, valutativi, per cui cultura connota attività per così dire superiori, intellettualmente qualificate, non esecutive, ed i prodotti di esse. Ma occorre ancora distinguere, all’interno di questa definizione, tra cultura come giudizio di valore e cultura come concetto descrittivo. Nella prima definizione cultura si contrappone ad ignoranza; in un altro senso essa indica “l’insieme delle cognizioni, e delle disposizioni così mentali come sociali, al cui acquisto è necessaria, quantunque non sufficiente, una vasta e varia lettura”.

La seconda definizione apre, per così dire, la strada verso la nozione antropologica del termine. Ossia la cultura identifica un ordine di fenomeni esclusivamente umani (gli animali non hanno in senso proprio una cultura, ma semmai un modo di vita) a carattere sociale.

Il termine cultura come giudizio di valore indica lo specifico patrimonio di conoscenze di cui una persona si è impadronita (è uno dei significati correnti del termine cultura) e può essere accostato al termine greco paidéia e al latino humanitas: il primo indicava il modello educativo in vigore nell’Atene classica e prevedeva che l’istruzione dei giovani si articolasse secondo due rami paralleli: la paideia fisica, comprendente la cura del corpo e il suo rafforzamento, e la paideia psichica, volta a garantire una socializzazione armonica dell’individuo nella polis, ossia all’interiorizzazione di quei valori universali che costituivano l’ethos del popolo. Mentre con il secondo si intende una concezione etica basata sull’ideale di un’umanità positiva, fiduciosa nelle proprie capacità, sensibile e attenta ai valori interpersonali e ai sentimenti. Ciò che conta è che questo ideale è valido per tutti gli uomini, senza distinzioni etniche, sessuali o sociali. Terenzio scriveva appunto: “homo sum: humani nihil a me alienum puto”, ovvero: “sono un uomo, e perciò nulla di ciò che è umano mi è estraneo”.

Queste nozioni arrivarono sino al medioevo dove, seppur mutate le condizioni a causa dell’affermarsi del modello cristiano, resistettero le concezioni di cultura come realizzazione dell’umanità degli uomini liberi. Un passo di un’opera di dante può rappresentare la concezione della cultura in quel tempo:

“(…) l’operazione specifica del genere umano preso nella sua totalità è quella di attuare sempre tutta la potenza dell’intelletto possibile, prima mediante l’attività speculativa e poi, in forza e per estensione di questa, mediante l’attività pratica. Siccome nell’uomo singolo avviene che, vivendo in condizioni di calma e di tranquillità, si perfezioni in saggezza e in sapienza, è chiaro che — secondo il detto che ciò che vale per la parte vale per il tutto — anche il genere umano, vivendo nella quiete, cioè nella tranquillità della pace, può compiere, nel modo più libero e facile, la sua attività specifica che è quasi divina, secondo il detto: “Lo facesti di poco inferiore agli angeli”.

Nonostante il Poeta auspicasse una pace universale, dalle parole si può dedurre che “quiete e tranquillità della pace” sono caratteristiche che solo gli uomini liberi potevano possedere e che cultura indica sempre uno sviluppo delle qualità interiori umane.
Nel ‘400 cultura si identifica ancora con il termine humanitas, mentre nel sei-settecento il termine viene ripreso da filosofi come Bacone, Pufendorf e poi Leibniz e Kant allo scopo di designare il processo di formazione della personalità umana e la sua capacità di progredire.

Gli sviluppi successivi

L’affermarsi dell’Illuminismo ha portato – com’è noto – ad una rottura politico-sociale con il passato, esaltando le idee laiche e principi razionali e scientifici e coinvolgendo, nel profondo mutamento ideologico del tempo, anche il concetto di cultura: la ragione è lo strumento dell’educazione, e poiché ogni uomo è dotato di ragione la cultura può divenire patrimonio universale anziché riservato ai dotti.

Ma fu in questo momento storico (a cavallo tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento) che la concezione francese di cultura trovò un destino diverso da quella tedesca. La Germania stava attraversando un forte mutamento culturale che l’avrebbe portata, successivamente, dall’illuminismo al clima intellettuale romantico. Fu in questo momento che avvenne il trapasso dal significato “soggettivo” al significato “oggettivo” del termine cultura, ossia al passaggio da una determinazione in termini individuali a una determinazione in termini storico-sociali della cultura. Il primo esempio di impiego su larga scala del concetto di cultura in questa nuova accezione si ritrova nelle opere di J.G. Herder, in cui pone una forte contrapposizione tra cultura e civiltà.

Cultura e Civiltà

Fino all’illuminismo la cultura è legata alle facoltà superiori dell’uomo, alla sua natura razionale e morale, e quindi alla cultura può accedere in fondo soltanto una élite, una élite sociale o meglio una élite di tipo intellettuale.

Mentre Civiltà (dal latino civilitas, termine che si introduce nel latino abbastanza tardi, nel I secolo d.C., come traduzione del greco πολιτεία [politéia]) indica l’appartenenza alla civitas, ossia alla struttura politica della città, come anche ai modi di vita che sono propri della città, ai modi di vita urbani in contrapposizione ai modi di vita della popolazione rurale. Il termine è stato utilizzato spesso dall’illuminismo francese, infatti il concetto di civilisation era servito soprattutto a designare un livello di vita associata che si colloca al di là dell’esistenza asociale dei popoli selvaggi e dell’esistenza sociale, ma ancor priva di un’organizzazione razionale, dei popoli barbari. In questo modo la tripartizione tra stato selvaggio, barbarie e civiltà veniva ad indicare le grandi fasi successive dello sviluppo dell’umanità nel suo avanzamento verso uno stato finale caratterizzato dall’acquisizione dell’autonomia razionale da parte dell’uomo e dalla diffusione crescente dei “lumi”. Infatti l’illuminismo critica aspramente l’ideale aristocratico di cultura. Nel francese del sec. XVIII, però, il termine civilisation, che indicava nel secolo precedente il “buon gusto” e le “buone maniere”, acquistò il significato illuministico di cultura come potenziale patrimonio di tutta l’umanità, e quindi in lingua francese l’opposizione ideologica tra cultura illuministica e cultura aristocratico–formale non si tradusse nella contrapposizione di due parole.

Inoltre Cultura e civiltà hanno avuto, nel panorama intellettuale del Novecento, un destino assai diseguale. Il concetto di civiltà si è dimostrato più tenacemente refrattario a una definizione scientifica. Più che un concetto suscettibile di essere formulato in regole precise, la civiltà si è rivelata un’idea, talvolta addirittura un modello ideale. Anche lasciando da parte troppo scoperte esaltazioni di stampo etnocentrico della civiltà contro la barbarie, o della civiltà occidentale nei confronti di altre civiltà, le varie teorie storico-filosofiche della civiltà son servite, di solito, a discriminare in termini di valore le diverse forme di organizzazione sociale, cioè ad individuare nello sviluppo dell’umanità un livello di vita considerato “superiore”.

Il concetto di cultura è stato invece oggetto di una lunga elaborazione che ha fatto di esso un concetto-chiave delle scienze sociali. Il romanticismo tedesco ha dato il via, in un certo senso, allo studio antropologico del termine cultura. Gustav Friedrich Klemm, con le sue opere inserite nel filone che risale a Herder e in un clima in cui il Volksgeist, ossia la volontà di una nazione che rappresentava la legge fondamentale del suo sviluppo sociale, aveva alimentato una simile concezione della cultura, riconosceva l’importanza del patrimonio culturale di ogni popolo.
Anche se l’uso del termine cultura come attività intellettuale superiore è tuttora largamente diffuso, il concetto di cultura ha assunto per altro verso una veste scientifica, conquistando un posto di rilievo non solo nella storiografia o nella discussione filosofica, ma anche in discipline come l’antropologia, la sociologia, la psicanalisi e l’etologia.

Il contributo di Sigmund Freud ed altri illustri autori sia di formazione psicologica che sociologica, lo svilupparsi della riflessione filosofica tedesca, l’ascesa della scienza antropologica e l’avanzare di altre scienze vicine ad essa, come l’etnologia e la demologia, lo studio sul campo, come pratica “applicata” della scienza antropologica, il diverso destino che hanno avuto i termini cultura e civiltà, hanno contribuito al superamento (seppur non totale) del termine cultura come attività intellettuale superiore e all’introduzione di un nuovo e diverso concetto: la cultura è l’insieme delle conoscenze di un soggetto in quanto membro di una società.

La nozione antropologica di Cultura

In realtà non esiste una nozione antropologica di cultura. Ne esistono molteplici.

Nell’ultimo periodo dell’Ottocento si assiste a due fenomeni: l’antropologia si costituisce come scienza autonoma e inizia gli studi sull’origine e l’evoluzione della cultura.

Secondo la primissima teoria c.d. evoluzionistica, tutti i popoli hanno percorso, e sono destinati a percorrere, le medesime tappe: ciò che li differenzia è la durata della permanenza in ognuna di esse, la quale fornisce la chiave per comprendere il motivo del loro diverso grado di sviluppo culturale. Questa impostazione ha consentito, tra l’altro, di istituire uno stretto parallelismo tra la società antica e la struttura sociale dei popoli ancora allo stato primitivo, ritrovando in questi ultimi l’equivalente del passato preistorico del mondo europeo. Tutto ciò adottando il metodo comparativo come strumento di ricostruzione delle varie fasi del processo evolutivo della cultura.

Questa impostazione è stata oggetto di critica da parte della scienza antropologica successiva, che intende dimostrare l’infondatezza del presupposto di una evoluzione unilaterale.

Boas, nella sua opera The mind of primitive man (1911), sostiene che la cultura è oggetto d’apprendimento.

“La cultura – a parere dell’Autore – non è determinata dall’ambiente geografico, tant’è vero che forme di cultura differenti possono sorgere in ambienti simili e forme di cultura analoghe si presentano in ambienti quanto mai diversi”.

Da una diversa prospettiva parte, invece, Freud per delineare i tratti caratteristici della cultura. A parere dell’autore la cultura ha basi psichiche, per cui all’origine della cultura si trova una situazione traumatica corrispondente a quella che genera la nevrosi.

Ma le teorie antropologiche sulla cultura che più hanno avuto credito nel corso della storia contemporanea sono quelle che vedono la cultura non come un fenomeno evolutivo (o di origine psichica), bensì come fenomeni culturali individuali, ognuno dei quali nasce autonomamente e ha tratti di differenza o di analogia con le altre culture.

All’affermazione dell’autonomia della cultura si accompagna, in The mind of primitive man di Boas la considerazione delle varie culture come strutture sorte storicamente e comprensibili soltanto in base al loro particolare processo storico. Di conseguenza, l’antropologia assume a proprio oggetto non già la cultura, bensì le singole culture e i loro rapporti, lo sviluppo di ogni singola cultura e il complesso di relazioni che la lega con un determinato ambiente e con altre culture.

Il riconoscimento della pluralità delle culture rivela anche implicazioni importanti di ordine filosofico: il rifiuto della pretesa di ricondurre le diversità culturali a una matrice unitaria, la negazione dell’esistenza di valori assoluti comuni a tutte le culture, il rifiuto dell’etnocentrismo in quanto attribuzione illegittima di un valore privilegiato a una cultura particolare.

Tutto ciò ha rappresentato la base del relativismo culturale, inteso come affermazione dell’eguaglianza assiologica della varie culture e, al limite, della loro incomparabilità. W.G. Summer e A. Keller considerano lo sviluppo culturale come un processo di adattamento dei diversi gruppi sociali al loro ambiente specifico, che conduce ad adottare certe forme di comportamento e a escluderne altre, dando così luogo a una varietà di costumi tra loro irriducibili e parimenti legittimi. M.J. Herskovits, in chiave polemica afferma che tra le diverse culture non si possono stabilire giudizi di superiorità o di inferiorità tra le loro manifestazioni.

Questi ultimi autori appartengono ad un orientamento che possiede una nozione diversa e più complessa di antropologia culturale; il distacco dall’antropologia evoluzionistica e le diverse teorie che si sono succedute nel tempo hanno contribuito ad una nuova interpretazione di cultura. Si pensi all’importante contributo di Claude Lévi-Strauss, il quale ha applicato le teorie strutturalistiche alla scienza antropologica. Nella pratica dello strutturalismo, così come l’intende Lévi-Strauss, possono essere isolati due principi fondamentali:

  1. Una struttura che fa parte del reale, ma non delle relazioni visibili. Ogni realtà etnica è quindi formata da strutture che bisogna ben distinguere dalle singole relazioni sociali osservabili empiricamente; tali strutture elementari costituiscono un livello reale ma non percepibile direttamente.
  2. Lo studio scientifico delle realtà etniche deve essere diretto alla determinazione di queste strutture e al loro funzionamento: è lo studio sincronico di esse che rende conto dello sviluppo storico della società e non l’esame diacronico del loro sviluppo a offrire una spiegazione delle strutture presenti nelle realtà etniche. In poche parole Strauss adotta un sistema schematico per studiare le varie culture, dividendo in un asse immaginario le popolazioni secondo certe caratteristiche (uomini/donne; giovani/anziani; etc.) e, sulla base di queste “strutture”, analizza lo sviluppo della cultura.

Oggi la scienza antropologica è pressoché concorde nel considerare la cultura come un concetto relativo, come un complesso di conoscenze e di valori che ogni gruppo sociale, grande o piccolo, possiede e trasmette alle generazioni future. La nozione di cultura è legata infatti alla memoria: la cultura non è innata, ma continua a riprodursi attraverso la trasmissione dei c.d. folkways, che ne assicurano la sopravvivenza nonostante la transitorietà degli individui. Questo processo viene definito inculturazione (tipica prassi della Chiesa cattolica nei luoghi in cui esprime la propria evangelizzazione), e presenta spiccate analogie con quello di coltivazione il quale copre, come già abbiamo visto, uno dei livelli semantici della nozione di cultura.

A tal proposito occorre soffermarsi un attimo sul concetto di memoria. Il sociologo Franco Cassano, riprendendo alcuni concetti espressi da Agnes Heller, sostiene, all’interno di un’ampia riflessione sull’assolutizzazione della velocità nella società contemporanea, che l’accelerazione

“crea una perdita di sapere intergenerazionale e di apertura alla complessità del mondo che da questa menomazione deriva. La centralità dell’utile erode la memoria, perché l’interesse ha bisogno solo di una memoria a breve termine, non di una a lungo termine, e tanto meno di una memoria culturale; esso non crede nella ripetizione, è anticerimoniale. Laddove tutto può essere continuamente rinegoziato non c’è più spazio per la memoria, che diventa un impedimento, un ingombro, un limite alla libertà di movimento, che ha bisogno, se vuole essere assoluta, di dissolvere come un vincolo arcaico tutti i “cum”, sia nel tempo che nello spazio”.

La memoria, dunque, come sguardo critico verso il presente, mediante le esperienze del passato, ma non solo.

Memoria anche come un processo “metabolico” di trasformazione, in continuo divenire, attraverso il quale creare una identità collettiva in grado di rinnovarsi, senza perdere il contatto con la propria storia. l’identità può essere pensata come una “costruzione simbolica che per sussistere deve fondarsi principalmente sulla memoria” (U. Fabietti e V. Matera), perché identità e memoria sono intrinsecamente legate e si nutrono vicendevolmente in una catena infinita.

In conclusione

Quello di cultura è un concetto poliforme, racchiude numerosi significati e coinvolge diverse discipline. Dopo decenni di cultura di Stato, che ha imposto il concetto di cultura quale nozionismo stantio e volto a costituire nuove e inconsapevoli leve lavorative, e dopo la continua e costante disgregazione delle espressioni culturali individuali e collettive, soprattutto ad opera della cultura capitalistica, che ha fatto regredire le espressioni del folklore, ampiamente studiate da Gramsci, nei decenni a venire la discussione intorno alle espressioni culturali rappresenterà il primo e fondamentale tema volto al ripristino della coesione sociale e del rifondamento nazionale ed europeo.

E’ giocoforza prevedere che la tenuta socio-economica attuale non è più sostenibile e che presto occorrerà riprendere la discussione sulla Cultura come volano di ripristino e sviluppo di una società ormai allo sbando. Mi auguro che questo contributo possa in qualche modo servire a porre in essere una riflessione sul concetto di cultura e, soprattutto, sulla distinzione tra “cultura di Stato” e “Stato culturale”, una distinzione macroscopica, che rappresenta la differenza tra regime e autodeterminazione, soprattutto in una Nazione come l’Italia, in cui la Cultura – in passato – ha rappresentato un faro per la civilizzazione dei popoli europei e che oggi rappresenta una colonia di popoli che, fino a pochi secoli fa, erano considerati barbari e incolti.

Macron, Merkel e Tsipras: il buono, il brutto e il cattivo

macron merkel e tsipras

Se vogliamo focalizzare le questioni europee degli ultimi anni, le prime parole che vengono in mente sono: migranti e debito pubblico. E sono temi intimamente connessi, su cui l’Europa si gioca il proprio futuro e che i leader dei Paesi membri potrebbero usare come grimaldello per raddrizzare o distruggere un’Europa allo sbando, sempre più serva di Francia e Germania, che – grazie alle proprie politiche imperialistiche e liberali – usano paesi come Grecia, Italia, Spagna e Portogallo come colonie in cui insediare le proprie Aziende e Multinazionali e in cui far confluire le politiche di austerità in modo da godere, invece, delle politiche di sviluppo. Detto in altri termini, il nostro Paese, insieme ai Paesi del Sud dell’Europa, è nient’altro che una colonia basata sul logiche capitalistiche: è solo grazie agli sfruttati che gli sfruttatori possono ottenere benessere economico.

Ma cosa c’entrano Macron, Tsipras e la Merkel?

Sono i nomi simbolo di queste due tematiche: migranti e debito pubblico. L’aspetto curioso è che nell’immaginario collettivo (e nei salotti della sinistra radical-chic) Macron è il buono, Tsipras è il cattivo e traditore, mentre la Merkel, burattinaia, resta oggettivamente il brutto. Ma andiamo con ordine e iniziamo dal tema migranti.

Berlusconi e Gheddafi, un accordo di partenariato utile all’Italia

Nel 2008 Berlusconi siglò un accordo con Gheddafi per ridurre il numero dei migranti che giungono sulle coste italiane e per ottenere maggiori quantità di gas e petrolio libico, in cambio della concessione di 5 miliardi di dollari da corrispondere in 20 anni, per risarcire il paese libico dall’occupazione coloniale dal 1911 al 1930.  L’accordo fu subito criticato dalla sinistra, che mal tollerava accordi di amicizia con un dittatore.

Già, un dittatore, che però seppe gestire per 40 anni le tensioni etniche e tenne la Libia fuori dalle logiche terroristiche. Nel 2011, però, la Primavera Araba, un movimento di insurrezione popolare contro le dittature mediorientali, foreggiata e alimentata dalla NATO (guarda un po’…), si estese anche in Libia e gli accordi tra Francia, Germania e USA (ma guarda un po’…) permisero la cattura di Gheddafi il quale fu brutalmente e sommariamente ucciso, probabilmente da soldati francesi o americani.

Poco dopo, com’è ovvio immaginare, la Libia sprofondò in una terribile guerra civile, che vide coinvolte 150 tribù, molte di queste in lotta tra loro, fino ad allora rimaste in pace. Da allora s’insinuarono nel territorio gruppi terroristici, i quali hanno contribuito all’acuirsi del conflitto etnico e oggi il Paese ha due governi, in lotta tra loro, uno legittimo (cioè riconosciuto dalla comunità internazionale), presieduto da Fayez Serraj e uno formato dal generale Khalifa Belqasim Haftar, che ha ottenuto la cittadinanza statunitense ed è tornato in patria per contribuire alla caduta del governo di Gheddafi e che, nel 2011, con un colpo di stato, ha preso il controllo di Tripoli. Oggi controlla la Cirenaica ed è in lotta con Serraj.

Per capire meglio la situazione, va detto che la Libia ha i più grandi giacimenti di petrolio e gas naturale dell’Africa (tra i 10 più grandi del mondo) e che è facile immaginare quanto USA, Francia e Inghilterra siano attratti da queste fonti di ricchezza. Probabilmente, però, né Obama né Sarkozy avrebbero immaginato le infauste conseguenze della loro guerra in Libia, cioè la gran confusione, le innumerevoli guerre etniche e l’impossibilità di controllare i giacimenti, tanto che Obama disse candidamente che quello della guerra in Libia fu il suo più grande errore da presidente.

Macron e gli accordi con Serraj e Haftar

Oggi arriva Macron, l’uomo nuovo, l’ex banchiere d’affari di Rothschild (banchieri e finanzieri che controllano il debito pubblico di numerosi Paesi, tra cui USA, Germania e molti Paesi europei), che proprio ieri, a Parigi, ha aperto un vertice con i due nemici: Serraj e Haftar, facendosi interlocutore per trovare un accordo tra i due. Ovviamente l’interesse di Macron è quello di mettere pace tra i due per ottenere, subito dopo, il controllo dei giacimenti di petrolio (un po’ come fece Berlusconi con Gheddafi) e per gestire i flussi migratori come meglio crede. Infatti sappiamo qual è la sua politica, lo disse pochi giorni fa al vertice di Trieste: accoglieremo solo richiedenti asilo e non “migranti economici”. Ma a decidere chi è richiedente asilo e chi migrante economico è l’Italia (e non è detto che la Francia sarà d’accordo), che dovrà continuare ad accogliere tutti i migranti e che si vede sbattere le porte in faccia dall’Austria, dalla Germania, da tutto l’Est Europa e dalla Francia, che ci nega continuamente l’accoglienza delle navi di migranti e le dirotta verso l’Italia. Macron, a dispetto delle scelte della Commissione Europea e della comunità internazionale, ma soprattutto alla faccia dell’Italia (primo e unico interlocutore con la Libia, finora), ha intrapreso rapporti privilegiati con Haftar, perché sa che è l’unico che può garantirgli sicurezza negli affari libici grazie al controllo dell’esercito, a differenza di Serraj, che gestisce solo un governo fantoccio. Ma pubblicamente Macron ha bisogno di porsi in veste diplomatica, fosse per lui farebbe accordi solo con Haftar per il controllo dei giacimenti.

La crisi greca

Nel frattempo Tsipras, che sta subendo un calo elettorale in Grecia, ha mostrato all’Europa che occorre battere i pugni sul tavolo per ottenere un minimo di considerazione. A distanza di 2 anni dal suo insediamento e nonostante le critiche ricevute dal popolo greco e da buona parte della sinistra europea per il famoso accordo del 12 luglio 2015, con il quale trovò un’intesa con i creditori europei (andando contro al referendum con il quale il 62% dei greci aveva detto NO alla ristrutturazione del debito), Tsipras ha evitato, di fatto, che la Grecia cadesse totalmente nelle mani dei tecnocrati europei e ha più volte minacciato l’Europa che la Grecia non avrebbe pagato i debiti con i creditori (i primi dei quali sono, guardacaso, i Rothschild, padri di Macron) se fossero state inasprite le regole di austerità. Tale atteggiamento non è mai sceso alla Merkel, la quale, già nel 2012, aveva provato a far trasferire completamente la sovranità monetaria dalla Grecia a Bruxelles. Le innumerevoli minacce di far entrare in default la Grecia, sempre quasi concretizzate e successivamente smentite, non hanno mai spaventato il povero e impopolare Tsipras che, anzi, l’8 aprile 2015 volò a Mosca per incontrarsi con Putin e definire un piano di partenariato. E’ interessante riportare le parole del Ministro Panagiotis Lafazanis dopo l’incontro di Tsipras con Putin “potrà segnare una nuova epoca nei rapporti energetici, economici e politici di entrambe le nazioni. Un accordo greco – russo potrebbe anche aiutare la Grecia nei suoi negoziati con l’UE, in un momento in cui l’UE si rapporta con il nuovo governo greco con incredibile pregiudizio, come se la Grecia fosse una semi-colonia. Le istituzioni europee, continuano a incarnare la linea dura della CDU tedesca nei confronti della Grecia, esigendo “riforme” di piena austerità, mentre la stampa anglo-tedesca conduce una campagna affinché Tsipras liberi il Parlamento greco dell’ala sinistra di Syriza e la sostituisca con rappresentanti dell’opposizione!”.

Ora, tale prospettiva fece rizzare i capelli a Merkel, Hollande e Obama, tanto che ripresero gli accordi tra Grecia ed Europa, formalmente per rivedere le politiche greche volte a ripagare il debito pubblico, ma di fatto volte a capire se Tsipras avrebbe rotto gli equilibri europei alleandosi con Putin. Tant’è che il furbo leader greco si presenta oggi, a distanza di soli due anni, in posizione di relativa parità con Francia e Germania (e non, come il suo collega italiano Gentiloni, in posizione di minorità nei confronti di Francia, in tema di migranti, e Germania in tema di debito pubblico). Tsipras, in una recente intervista al Guardian, ha dichiarato che il peggio è alle spalle e che la crescita in Grecia si attesta, nel 2017, intorno al 2%. La stima è prudenziale, visto che la Commissione europea è ancora incerta circa l’esecuzione dell’accordo di salvataggio internazionale, che prevede, in caso di successo, un piano di salvataggio di 86 miliardi di euro. Ma la verità di quest’incertezza è che la Merkel non vuole essere disturbata fino alle prossime elezioni di settembre. Dopo settembre si tornerà a parlare di crisi greca. Tsipras è riuscito comunque ad ottenere credibilità internazionale per aver ottenuto un avanzo primario del 3% (l’avanzo primario è la differenza tra entrate e uscite dello Stato al netto degli interessi), nonostante le politiche interne di austerity siano state nettamente inferiori a quelle imposte dall’UE e dal Fondo internazionale. Probabilmente Tsipras pagherà lo scotto degli accordi con l’UE perdendo le prossime elezioni, ma lui rappresenta la differenza con Macron, cioè la differenza tra forma e sostanza. In altre parole la differenza tra chi lavora per il proprio popolo, nella consapevolezza dell’impossibilità di uscire dall’Europa (almeno per ora), ma risulta inviso alla popolazione e chi invece lavora per la finanza europea, ma gode di prestigio e credibilità.

Francia e Germania colonizzano tutto

La Germania della Merkel è la principale esportatrice di…debito pubblico! Ebbene sì, la Germania ha circa 1300 miliardi di debito acquistato da stranieri, mentre il debito interno è del 15%, quindi ben contenuto nei limiti europei. E come ha fatto? Guarda caso approfittando della crisi greca e grazie alla partecipazione dei grandi gruppi industriali e finanziari tedeschi in molti paesi extra-UE. Con questi soldi e approfittando della crisi greca, la Germania ha praticamente acquistato tutta la Grecia (la compagnia telefonica Ote, i principali scali aeroportuali, diversi porti turistici, aziende farmaceutiche, chimiche, meccaniche ed elettroniche) al pari della Francia, che non solo controlla numerose attività nel mondo, ma ha anche approfittato della crisi italiana per acquistare banche (CariParma e Bnl), assicurazioni (Nuova Tirrenia), ma non solo: Galbani, la grande distribuzione (Carrefour, Castorama, Auchan e Leroy-Merlin sono francesi), la moda, con Lvmh che detiene Bulgari, Fendi e Loro Piana, mentre Kering ha acquistato Bottega Veneta, Pomellato, Sergio Rossi, Brioni e Gucci. Ma l’elenco è lungo e comprende anche aziende di bici da corsa (Pinarello) e altre piccole e medie aziende del manifatturiero.

In tutto questo desolante quadro i premier che hanno attraversato la crisi economica, Monti, Letta, Renzi e Gentiloni si sono dimostrati incapaci di fare la voce grossa, anzi, servi della svendita dell’Italia in Europa, hanno messo Tsipras all’angolo e oggi inneggiano a Macron, come il grande leader che valorizzerà l’Europa. E questo servilismo ci ha portati non solo a svendere tutto, anche le imprese fiore all’occhiello d’Italia, ma ad essere trattati come riserva di migranti, senza speranza di poterli ripartire in Europa e senza ricevere in cambio nemmeno un soldo. Quindi a noi i problemi, a loro i soldi. Se questa non è colonizzazione…

L’Itala gente de le molte razze

poesia razza

Una poesia dedicata agli italiani e all’illusione di appartenere ad un’unica razza.

La vicenda di Patrizia Prestipino, membro della direzione nazionale del PD e responsabile del dipartimento del PD per la difesa degli animali (sic!) che oggi ha fatto infuriare e divertire il Popolo del web, dimostra per l’ennesima volta che il principio (abusato dal berlusconismo) bene o male, purché se ne parli, vale sempre. Nessuno la conosceva finora, oggi invece è famosa per le sue parole sulla tutela della razza, domani probabilmente tornerà nell’oblio da cui è venuta. Ma funziona così: il quarto d’ora di notorietà non si nega a nessuno, come l’ultima sigaretta a un condannato a morte. Però la lady PD mi ha in qualche modo ispirato per scrivere questi quattro versi da regalare al vento.

L’Itala gente de le molte razze

tediar non voglio con discorsi triti
ma una cosa v’è da dire:
donde sono le italiche stirpi
chi voi ardite sostener
per continuar la nobile razza?
Dall’etruschi ai messapi
dall’arabi ai normanni
bizantini e longobardi
da lontano sono giunti
co’ francesi e spagnoli
abbiam fuso tante razze.
Ahi Italia, terra di conquiste
e dai mille dialetti
segno di tante culture
solo co’ bolli unificate
d’aspirazioni carbonare
e nazional desideri
di politiche necessità.
S’è fatta Nazione, si faccian gli italiani!
Unificati in medesima lingua,
Oh, che oggi unica cagione
che stretti ci tiene
violentata viene
e regressa, e povera
di lemmi e significati,
ciò che può simular
d’esser italiani,
non di razza, ma di linguaggio,
ogni giorno muore
tra stentorei tweet e stucchevoli post.

Caro Mentana, lascia stare il Medioevo

pisa piazza miracoli

Un recente post del giornalista Enrico Mentana ha fatto scalpore (e successo) per aver attaccato negazionisti, antivaccinisti e razzisti e averli ricondotti a una nuova corrente che lui stesso ha definito Medio Evo 2.0. Ma perché se la prende con il Medioevo? Sarà ignoranza storica?

post medioevo enrico mentana
Qui trovi il post originale

Ora, a parte il fatto che Mentana dovrebbe smetterla di coniare termini, tanto alla storia non passa, mi preme osservare che molto spesso la nostra società, ora per un motivo ora per un altro, viene accostata al Medio Evo.

Ora, pur capendo le ragioni di Mentana e pur condividendole in parte, non posso esimermi dal ribadire che dovete smettere di paragonare questa società al Medioevo. E basta!

Le ragioni? Semplici. Per comodità ne elenco solo 2 (anche se sarebbero molte di più):

E’ un termine dal significato positivo, non negativo

Il concetto di Medioevo in termini negativi fu dato dai rinascimentali, che disprezzavano l’arte e la cultura di un periodo durato circa 1000 anni, mentre nell’800 e nel ‘900 la cultura e l’arte medievale sono state rivalutate. Il feudalesimo, nato nel Medioevo, è sopravvissuto fino al ‘900 (quindi di che parliamo?), l’arte ha regalato patrimoni inestimabili, la cultura è stata tramandata dai monaci amanuensi ed è solo grazie a loro che è giunta fino a noi la filosofia greca, i trattati sulla natura e gli innumerevoli studi che avrebbero portato gli illuministi a scrivere la più grande enciclopedia della storia dell’umanità, Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers. Poi, così per memoria, vorrei ricordare che Federico II di Svevia è cresciuto nel Medioevo e ci ha regalato le prime scuole di lingua italiana a Palermo. Non so se mi spiego.

L’arte medievale rappresenta l’architrave del Patrimonio Culturale italiano

Vorrei ricordare che la Cattedrale di Otranto conserva il più importante mosaico dell’umanità, fatto nel 1163 dal monaco Pantaleone, che il Duomo di Modena è patrimonio UNESCO e che città come Pisa, Firenze, Lucca, Ravenna, Assisi (ecc. ecc.) si sono sviluppate in quel periodo.

Inutile ricordare che la torre pendente di Pisa è del 1173, Santa Maria Novella a Firenze è del 1200 e la Basilica di San Francesco d’Assisi è del 1228. Poi, così, tanto per, c’è da sottolineare che la più importante espressione artistica religiosa si trova a Galatina, Santa Caterina d’Alessandria, e che è stata fatta alla fine del 1300. Insomma, tutto nel Medio Evo.

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Basilica di Santa Caterina d’Alessandria

Quindi non vedo perché si debba parlare del Medioevo in termini negativi e allora chiedo a Mentana quali sono i criteri in base ai quali ricondurre la regressione culturale di oggi al Medio Evo tanto da coniare il termine Medio Evo 2.0?

Ahhhh, forse si riferisce alla caccia alle streghe e ai processi della Chiesa contro la scienza? Naaaa, perché per esempio Galileo fu processato, ma nacque in pieno Rinascimento e la caccia alle streghe è durata fino al 1700, quindi non è finita con il Medioevo.

E dunque, anche se mi sforzo, non ne capisco le ragioni. Sarà ignoranza e saccenza? Mah, se Enrico mi risponde, finalmente capirò le sue ragioni. Ma ne dubito.

Multa per grattino scaduto? Non va pagata

parcheggi strisce blu

Sono tante le Amministrazioni Comunali che scelgono di istituire i parcheggi a pagamento, ossia le cosiddette strisce blu, nelle proprie città, soprattutto nelle città turistiche, in quanto rappresentano un facile guadagno per le sempre più povere casse comunali. Ma dato che si tratta per l’appunto di soldi facili e veloci, molti Comuni tendono ad abusare dello strumento, forti anche del fatto che il Codice della Strada, su questi temi, è lacunoso e offre svariati spunti interpretativi. E’ per questo che ho deciso di scrivere quest’articolo, nonostante il problema sia annoso e affrontato lungamente sulle riviste giuridiche, ma spesso con linguaggio tecnico e di difficile comprensione da parte del grande pubblico. Quindi voglio affrontarlo con un linguaggio (spero) semplice e voglio che la gente sappia tutelarsi da quest’ennesimo balzello.

Le tre tecniche che i Comuni usano per i parcheggi a pagamento

cartello_parcheggio_pagamento

Ci sono tre modi per cui un Comune può massimizzare le entrate derivanti dai parcheggi a pagamento. Uno è legittimo (anche se ingiusto), l’altro rasenta l’illegittimità mentre l’ultimo è illegale.

Determinare tariffe esose dei parcheggi

Un Comune è libero di scegliere le tariffe dei parcheggi a pagamento, sulla base della classificazione delle aree urbane (centro storico, semi-centro, area di pregio, area industriale, ecc.) coerentemente con le tabelle pubblicate dal Ministero, e quindi può stabilire, per esempio, che nel centro storico si paga 1,50 €/ora, mentre nel semi-centro si paga 0,90 €/ora e che nelle zone industriali gli stalli di parcheggio siano liberi.

Data questa libertà dei Comuni nel determinare le tariffe, molte zone a vocazione turistica scelgono di applicare tariffe alte (per esempio in Costiera Amalfitana o a Portofino si arriva a pagare anche 10,00 € l’ora) o di estendere la durata del parcheggio a pagamento a tutto il giorno (la maggior parte dei Comuni fa pagare nelle ore mattutine e pomeridiane). Questo è un comportamento che può sembrare ingiusto ed esoso, ma rientra nella discrezionalità amministrativa e nei confini di legge.

Estendere le strisce blu in ogni zona del centro e del semi-centro

Alcuni Comuni, per ottenere più entrate, decidono di estendere le strisce blu in tutte le zone del centro e in moltissime zone del semi-centro, quindi trovare, in queste città, parcheggi liberi (e non soggetti a durata limitata della sosta) è impossibile. Questo è un comportamento che rasenta l’illegalità. La rasenta, però. Perché l’art. 7 comma 8 del Codice della Strada dice che se i Comuni decidono di adottare i parcheggi a pagamento, devono prevedere, nelle vicinanze, anche un numero adeguato di parcheggi liberi (e privi di controllo di durata della sosta, cioè non soggetti a disco orario). La norma è chiara, però prosegue dicendo che quest’obbligo non sussiste per alcune zone di pregio o di particolare rilevanza urbanistica, opportunamente individuate e delimitate dalla giunta nelle quali sussistono esigenze e condizioni particolari di traffico. Dato che la norma è molto vaga e lascia ampio spazio alla giunta comunale di decidere se una certa zona è o non è di pregio oppure è o non è di particolare rilevanza urbanistica, allora è chiaro che questi Comuni diranno che tutto il centro è di particolare rilevanza, quindi escludendo ogni sorta di parcheggio libero! Ma quest’atteggiamento è stato censurato più volte dalla Corte di Cassazione, per cui potrebbe rappresentare un valido motivo di ricorso (Vedi Cass. civ. Sez. II, 20-01-2010, n. 927; Cass. civ. Sez. I, 07/03/2007, n. 5277; Cass. civ. sez. VI-2, ordinanza 03/09/2014 n. 18575).

Fare una multa per ticket scaduto

verbale

Qui viene il bello. Quando torni alla macchina e trovi una multa per “grattino” scaduto, sappi che quella multa è illegale, completamente. Spesso il Ministero dei Trasporti si è espresso sul tema, dicendo che i Comuni non possono sanzionare gli automobilisti a cui è scaduto il ticket di pagamento della sosta. Punto. Lo ha ribadito più volte, per ultimo con nota n. 53284 del 12 maggio 2015 in cui ha ribadito che nella sosta limitata o regolamentata è possibile incorrere nelle seguenti violazioni che sono sanzionate dal Codice della Strada:

  1. Ove non venga posto in funzione il dispositivo della sosta, ovvero non venga indicato l’orario di inizio della sosta, si incorre nella sanzione prevista dall’art. 157 co. 8 del CDS;
  2. Ove la sosta si protragga oltre l’orario per il quale è stata corrisposta la tariffa, si incorre nella sanzione prevista dal comma 15 dell’art. 7 del CDS;
  3. Con riferimento inoltre alla sola protrazione della violazione, quale requisito costitutivo della fattispecie illecita, si incorre nella sanzione prevista dal comma 15 dell’art. 7 del CDS in presenza di una reiterazione della condotta.

Quindi il protrarsi della sosta oltre il termine per il quale è stato effettuato il pagamento non si sostanzia in una violazione di obblighi previsti dal Codice, ma si configura come una inadempienza contrattuale che comporta per l’Amministrazione creditrice un recupero delle tariffe non riscosse previa le procedure coattive previste ex lege e l’eventuale applicazione di una penale secondo quanto previsto nella regolamentazione ex art. 7 comma 1, lett. f).

Cosa significa? Che il Comune dovrà richiedere solo il pagamento del residuo ed applicare una penale solo se è stata determinata dalla Giunta. Quindi facciamo un esempio. La Giunta comunale di Roccapriora delibera che per ogni ora dal termine del pagamento della sosta si dovrà applicare una penale di 3,00 € più il costo del parcheggio, pari a 1,00 €/ora. Io vado con la mia pandina a Roccapriora, ma c’ho solo 50 centesimi e quindi pago il parcheggio per mezz’ora. Vado a fare un giro e poi trovo un amico che non vedo da tanto tempo. Tra n’aperitivo e l’altro ho passato con lui 3 ore. Alla fine del bel pomeriggio torno alla macchina e non troverò una multa, bensì un avviso bonario che mi inviterà a pagare 3,50 euro di parcheggio scaduto più 9,00 € di penale. Questa modalità è legale, la multa, invece no.

Quante città si sono adeguate?

ausiliario traffico parcheggi

Nel 2015 l’unico Comune che ha contestato le note ministeriali è stato il Comune di Lecce, tutti gli altri si sono adeguati. Ma attenzione! Molti Comuni, pur essendosi adeguati alle direttive ministeriali, continuano a fare multe per grattino scaduto, e sono tutte multe contestabili. Inoltre sono pochissimi i Comuni che hanno deliberato in materia di recupero del residuo e applicazione dell’eventuale penale. Se manca la delibera di Giunta, non potranno recuperare alcuna somma.

Come posso tutelarmi?

ricorso prefettura parcheggi a pagamento

L’unico modo per tutelarti è di proporre ricorso al Prefetto territorialmente competente (quindi al Prefetto della tua Provincia di residenza), perché è gratuito e si può inviare anche a mezzo PEC (risparmiando pure sul costo della raccomandata A/R). Sconsiglio il ricorso al Giudice di Pace, perché le spese di giustizia superano di gran lunga l’ammontare della multa. Il Prefetto di solito accoglie questo tipo di ricorsi (tranne se non sono scritti con i piedi o mancano gli elementi minimi di un ricorso amministrativo), perché è un rappresentante del Governo e quindi deve adeguarsi alle decisioni ministeriali.

E’ vero che da oggi se paghi la multa entro 5 giorni dalla notifica del verbale hai diritto a uno sconto del 30%, ma è anche vero che sono tante le multe ingiuste che vengono fatte ogni giorno per ticket scaduto e sono tutte illegittime.

Da sanzione amministrativa a inadempimento contrattuale

Ci sarebbe da argomentare su un altro punto. Se è vero che il mancato rinnovo del pagamento non è sanzionabile è anche vero che diventa un inadempimento contrattuale, quindi la società a cui il Comune ha affidato il servizio può intimare il pagamento attraverso le ordinarie procedure (avviso bonario, messa in mora, citazione a giudizio, ecc.) e può decidere, insieme al Comune, importi alti a titolo di penali. Ciò comporterebbe che l’ammontare della somma richiesta potrebbe essere più alta rispetto alla multa. Ma staremo a vedere, perché ad oggi, a due anni dalla pubblicazione della nota interpretativa, solo pochi Comuni si sono adeguati e quindi ancora non sappiamo come si evolverà la vicenda. Però una cosa la sappiamo: il Comune e la Società partecipata dovranno dimostrare esattamente la durata della sosta, da quando scade il ticket fin quando l’auto non viene spostata dallo stallo blu. E siamo sicuri che questa prova sarà fornita? L’unica prova che possa dar vita alla richiesta integrativa e all’eventuale penale (“eventuale” si fa per dire, lo dice la legge, ma tutti i Comuni la prevederanno…). Perché se è vero che noi cittadini dobbiamo ubbidire alla legge, è anche vero che le Amministrazioni devono fare altrettanto.

Conclusioni e curiosità sui proventi dei parcheggi a pagamento

A breve ho intenzione di pubblicare un vademecum e un modello di ricorso amministrativo, in modo da facilitare la presentazione di un ricorso al Prefetto. Ce ne sono tanti sul web, ma molti modelli, secondo me, lasciano a desiderare.

Infine, una curiosità. L’art. 7 comma 7 del Codice della Strada dice che i proventi dei parcheggi a pagamento sono destinati alla installazione, costruzione e gestione di parcheggi in superficie, sopraelevati o sotterranei, e al loro miglioramento nonché a interventi per il finanziamento del trasporto pubblico locale e per migliorare la mobilità urbana. Ora, secondo voi, tutti i soldi che entrano ai comuni dai parcheggi a pagamento vengono davvero usati per questo? No, perché altrimenti dovremmo avere strade in marmo di Carrara, parcheggi con strisce oro 24 carati e autobus volanti a energia solare. Invece come vengono usati questi soldi? Chiaro: sono i profitti delle Società partecipate che gestiscono i parcheggi a pagamento. Di ciò dobbiamo ringraziare il prode Prodi e il mitico D’Alema, che hanno voluto privatizzare tutto.

E’ inutile prendersela con gli analfabeti funzionali

analfabeti funzionali

Analfabeti funzionali, che termine curioso, proprio come webeti (coniato – pare – dal giornalista Enrico Mentana).

Una volta, prima dell’avvento dei social e persino di internet, al mio paesello quelli così erano chiamati volgarmente e semplicisticamente scemi, con varianti lessicali dipendenti dagli strati sociali oppure dalla qualità della conversazione quali idioti, fessi, imbecilli, stupidi, stolti (questo è il termine che usavo quando parlavo con persone acculturate), cretini, per poi arrivare ai localismi quali mammallucchi, pampasciuni, cugghiuni, fave o grulli (usato nella mia permanenza in terra toscana).

Oggi però imperversa una moda linguisticamente fatale, che s’insinua – attraverso il web – nei nostri linguaggi e, piano piano, senza farsi accorgere, ne modifica i lemmi, pur nell’immutabilità dei significati.

Ecco che, per esempio, lo storytelling non è altro che il racconto di storie, il selfie è l’autoscatto, lo stepchild adoption è l’adozione del figlio del partner, il brand è il marchio, l’on demand è un servizio a richiesta, ecc.

Quindi un analfabeta funzionale è semplicemente un fesso che però ha studiato quel tanto che basta per saper leggere e scrivere, ma non è in grado di capire il senso di un concetto, anche semplice. In realtà pure molti laureati (e anche masterizzati o dottorati) soffrono di questa malattia culturale e infatti si nota spesso – viaggiando tra i social – che molti titolati si esprimono peggio di come si esprimeva mio nonno con la terza elementare.

Anzi, a pensarci bene, mio nonno aveva un linguaggio forbito e teneva la contabilità del forno in cui lavorava, con la terza elementare. Ma vabbè, so’ dettagli.

analfabeta_funzionale

Dunque, un analfabeta funzionale è un fesso. Chiaro. Alla categoria si possono ricondurre queste figure, così massicciamente presenti sui social:

quello che legge il titolo e commenta

A volte capita che fraintenda anche il senso del titolo, ma siccome i titoli degli articoli di oggi (inclusi quelli – sic! – dei maggiori quotidiani nazionali) sono stupidi, sensazionalistici e acchiappaclick, allora devi essere proprio demente per fraintendere il senso del solo titolo. Quindi sta gente che fa? Commenta solo in base al titolo. E infatti quei mattacchioni dei giornalisti del Secolo XIX l’anno scorso hanno fatto un esperimento sociale, basato proprio su ciò. Leggi e divertiti.

L’odiatore seriale

Premesso che odio i neologisimi angolofoni, quindi col cazzo che userò il termine haters, gli odiatori seriali sono quelli che qualsiasi cosa tu scriva (soprattutto se sei un personaggio famoso o comunque seguito sui social) loro hanno sempre qualcosa da ridire, un po’ di veleno da vomitare, qualche frase offensiva o persino qualche parola pesante o minaccia. Tipo, tu scrivi: “mi è morto il nonno, riposa in pace”. E lui ti risponderà con frasi del tipo: “spero abbia sofferto” o “il tumore se l’è mangiato”, o cose così. L’odiatore è chiaramente un fesso, che siccome non ha altri modi per sfogare le sue innumerevoli frustrazioni, allora lo fa con te e ogni “like” che prende alimenta il suo ego bisunto e lo illude di contare qualcosa nel mondo. In quello virtuale conta solo fino allo scorrimento della timeline, in quello reale purtroppo non conta un cazzo. Ecco perché è sempre immerso sui social. In fondo la sua vita è vuota, quindi i suoi 30 secondi di gloria rappresentano la summa della propria esistenza. Da compatire.

Quello che si fa i cazzi tuoi, sempre e comunque

E’ il tipo che spulcia il tuo profilo, fino ad arrivare a settembre 2007 e che (a volte) gli scappa il dito e mette il like a una foto di giugno del 2009, in cui tu eri sorridente in costume da bagno. E’ quello che quando tu scrivi: “oggi mangio leggero”, ti commenta con un: “hai problemi di fegato”? Ma fatti i cazzi tuoi, no? Spesso questo personaggio è associabile ad un altro normotipo, cioè il maniaco seriale.

Il maniaco seriale

E’ quello che ti chiede l’amicizia. Zero amici in comune, con foto profilo che mostra la tartaruga e il tatuaggio, con occhiali da sole specchiati e montatura verde pisello e un sorriso a 36 denti che simula la sua deficienza. Tu accetti l’amicizia e subito ti arriva un messaggio tipo: “ciao, o visto ke 6 single vuoi scopare?”. Tu gli fai notare che non è il caso, ma lui, nelle settimane a venire, ti mette il “like” a ogni foto che pubblichi, persino a quella della nonna sdentata e sulla sedia a rotelle. E lì capisci che la sua serialità è solo la punta dell’iceberg di un malessere sociale e psichico che potrebbe portare ad epiloghi poco piacevoli.

L’uomo del “meditate gente, meditate”

E’ il mio preferito. Il normotipo di quello che ci mette ore a scrivere un post o un commento e il cui risultato sono solo una serie di frasi stereotipate e ritrite, ma che – in testa sua – solo ricche di cultura e fanno effetto e poi, dopo un’altra ventina di minuti a pensare all’epilogo del suo scritto da nobel, conclude con un “meditate gente, meditate”. Infine, dopo aver premuto “invio”, si gongola pensando alla sua saggezza e attende i like dei suoi simili.

Quello che tu gli parli di fave e ti risponde a piselli

E’ un modo di dire della mia zona, che indica quello che ti risponde a minchia dopo aver iniziato un dialogo con lui. Tu ti sforzi, durante un dialogo tra sordi, nel semplificare il tuo pensiero e fargli capire concetti semplici, ma lui ti risponderà parlando di altro. Non perché voglia distogliere l’attenzione e spostare la conversazione su altro. No. Semplicemente non ha capito e, anziché ammetterlo, ti risponderà a cazzo.

Quello che si mette il like da solo

Nel gergo social, come sappiamo tutti benissimo, un like è un apprezzamento a un contenuto che abbiamo pubblicato. Quindi se lo hai scritto significa che condividi quello che dici, no? Mi pare elementare. Quindi perché, dimmi perché, dammi una spiegazione logica e razionale per cui devi mettere quel like ai tuoi contenuti? Dimmelo, ti prego.

Il condivisore seriale di bufale

La persona più pericolosa nel mondo social. E’ colui che si fa attrarre da titoli quali “Sensazionale scoperta, le scie chimiche fanno venire la cacarella”, oppure “I vaccini faranno diventare tuo figlio autista” o ancora “Putin ce l’ha grosso (condividi e scopri cosa)” o articoli politici come “Renzi ha fatto la cacca e noi gli paghiamo la carta igienica, condividi se sei indignato!”. A nulla vale che l’articolo provenga da un sito che si chiama “ilfattoquotidaino” oppure “la repubblica delle banane”, a nulla valgono le black list dei siti bufalari e complottisti, a nulla vale che tu commenti i suoi post dicendo che sono falsi. Ne uscirà fuori solo un’amara discussione in cui tu sei il complottista e loro i portatori sani di verità assolute. Sono deficienti, punto. Vanno solo derisi e bloccati.

Lo sgrammaticato

In realtà questa categoria racchiude tutte le altre. Per quanto mi riguarda, se uno sbaglia pure un accento, lo depenno dalla mia lista di “amici” e “contatti” (e in effetti mi sento molto solo ultimamente). Per giunta lo sgrammaticato è quello che se tu gli fai notare i suoi errori grammaticali, quasi sempre ti risponderà dicendoti che è più importante quello che vuole dire rispetto a come lo dice. Il cazzo è che non capisci nemmeno ciò che vuole dire e il più delle volte si tratta solo di concetti elementari e imbeccati.

analfabeti_funzionali_italia
wow! L’Italia è al primo posto! Aspetta…per cosa? Ops, per analfabetismo funzionale (cioè per numero di scemi)

Ora facciamo un’ammissione. A chi non è mai capitato di imbattersi in tipi del genere? Alzi la mano chi non ha mai avuto a che fare con un fesso. No, non nella vita reale, sui social.

Lì pascolano liberamente, pare essere il loro habitat naturale e pare che rappresentino la maggioranza.

In effetti lo sono

Statisticamente sarebbero quasi la metà della popolazione italiana. Pare. Qualunque sia il dato statistico, resta il fatto che sono in tanti e che tu, anche se cerchi di mostrarti disponibile, aperto e propenso al dialogo, ne uscirai sempre frustrato e ricolmo di offese gratuite.

Il fatto è che hanno vinto gli analfabeti funzionali

Tu puoi anche usare tutta la logica possibile per inchiodarli alla propria ignoranza. Non ci riuscirai. Puoi pubblicare tutti gli schemi logici di questo mondo per fargli capire che bisogna parlare con consapevolezza. E’ inutile. Puoi anche citare tutte le fonti che dimostrano il contrario di ciò che sostengono. E’ tempo perso.

Gli scemi, finché avranno una connessione internet e un accesso libero e indiscriminato agli strumenti social, ti travolgeranno sempre e comunque con le loro supposizioni, i qualunquismi, le dietrologie da quattro soldi e la grammatica calpestata con violenza e abominio.

Tu potrai condividere quanto vuoi gli articoli che richiamano alla ragione, ma saranno solo compresi e accettati dai tuoi simili, cioè da quelli che vivono nelle riserve della ragione (pochi, insomma), mentre intorno a te imperverserà il diluvio dell’arroganza mista a saccenza e ignoranza. Senti a me, esci dai social e torna a leggere un buon libro. Un libro ti darà cultura (tranne quelli di Saviano e della D’Urso) e ti ricorderà la lingua, i social – invece – ti faranno dimenticare persino le regole basilari della grammatica. Davvero, fidati. Che cazzo fai? Condividi questo post sui social? Allora non ai capito un cazzo!

Roma: era mafia o non era mafia?

mafia capitale sentenza

Ieri, 20 luglio, nell’aula bunker di Rebibbia, il presidente della X sezione penale del Tribunale di Roma Rosaria Ianniello, dopo 3 ore e mezza di camera di consiglio, ha pronunciato la sentenza che chiude il primo capitolo giudiziario di Mafia capitale.

I fatti relativi a mafia capitale

Secondo la Procura di Roma, Massimo Carminati (ex terrorista nero e membro della banda della magliana) e altre 44 persone sono accusate di aver creato un’organizzazione mafiosa per controllare e manipolare l’assegnazione di appalti pubblici e la gestione dei migranti, tramite una serie di legami tra associazioni di stampo mafioso, affaristi, funzionari pubblici e politici.

Nello specifico l’ex capo di gabinetto di Walter Veltroni, Luca Odevaine avrebbe, in qualità di componente del Tavolo di coordinamento nazionale sui migranti del Viminale, gestito i flussi dei richiedenti asilo, dirottandoli verso la Capitale, per far guadagnare il sodalizio di mafia capitale, in particolare le cooperative di Salvatore Buzzi, che si occupavano della gestione dei migranti. Solo con la gestione di uno dei campi rom di Roma, il sodalizio avrebbe guadagnato più di 2 milioni di euro.

Ma non basta, perché l’imputato Franco Testa, Ex cda Enav, si occupava di proporre “amici” nei posti più importanti dell’amministrazione comunale, mentre Franco Panzironi, l’ex amministratore di Ama, si occupava di gestire i proventi illeciti, inoltre Luca Gramazio, ex consigliere prima del Comune di Roma (capogruppo PD) e poi della Regione Lazio, attraverso una serie di atti amministrativi, favoriva i componenti dell’associazione criminale di mafia capitale. Questa, a grandi linee, è la ricostruzione dei fatti compiuta dalla Procura della Repubblica di Roma.

Mafia capitale era associazione a delinquere semplice

Da quanto emerge dal dispositivo della Sentenza (in attesa delle motivazioni) a Roma, fino al 2014, hanno agito due associazioni per delinquere, non di stampo mafioso: una che fa capo a Massimo Carminati, Riccardo Brugia, Matteo Calvio e Roberto Lacopo; l’altra riconducibile agli stessi Brugia e Carminati insieme con Salvatore Buzzi, Claudio Caldarelli, Nadia Cerrito, Luca Gramazio, Franco Panzironi e altri. Quindi, nonostante le pene severe inflitte a numerosi componenti dell’associazione a delinquere, i giudici non hanno ritenuto di applicare la norma dell’art. 416/bis, “associazione di tipo mafioso”.

La norma

Ma cosa dice la norma dell’art. 416/bis?

Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da dieci a quindici anni.
Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da dodici a diciotto anni.
L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.
Se l’associazione è armata si applica la pena della reclusione da dodici a venti anni nei casi previsti dal primo comma e da quindici a ventisei anni nei casi previsti dal secondo comma.
L’associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell’associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito.
Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà.
Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono e furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego. [Decadono inoltre di diritto le licenze di polizia, di commercio, di commissionario astatore presso i mercati annonari all’ingrosso, le concessioni di acque pubbliche e i diritti ad esse inerenti nonché le iscrizioni agli albi di appaltatori di opere o di forniture pubbliche di cui il condannato fosse titolare].
Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra, alla ‘ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso.

Quindi i criteri per riconoscere un’associazione di tipo mafioso sono:

una pluralità di figure criminose

di carattere alternativo ed autonome, ognuna delle quali deve possedere la consapevolezza di contribuire con la propria condotta alla sussistenza dell’associazione e al raggiungimento dei suoi obiettivi sia personali che di gruppo;

una forma organizzativa stabile e continuativa

non per forza di lunga durata e non necessariamente immutabile.

un ruolo apicale

(o una posizione dirigenziale) di uno dei membri.

una carica intimidatrice

idonea a piegare ai propri fini la volontà di quanti vengono a contatto con l’organizzazione, nonché concreta (e non astrattamente esercitata) che si sostanzia in violenze, anche di carattere psicologico e atti tesi a costringere qualcuno ad eseguire un’azione pur contro la sua volontà, non per forza attraverso l’uso delle armi.

l’assoggettamento

cioè l’attività di coercizione psichica (e talvolta fisica) finalizzata a creare una percezione interiore dell’inferiorità del soggetto a cui sono rivolte le intimidazioni ed a sottomettere quest’ultimo alla volontà di chi intimidisce, generando un concreto timore per la propria incolumità e per quella della propria famiglia qualora il soggetto intimidito non acconsenta alla volontà del soggetto che genera le intimidazioni.

l’omertà

consiste nell’atteggiamento tenuto dal soggetto intimidito, in conseguenza dell’assoggettamento, e cioè il rifiuto di collaborare con le Autorità nella repressione del sodalizio criminale.

Le sentenze

La prima e più importante Sentenza della Corte di Cassazione sul tema è la n. 1709/1974 per cui è associazione mafiosa “ogni raggruppamento di persone che, con mezzi criminosi, si proponga di assumere o mantenere il controllo di zone, gruppi o attività produttive attraverso l’intimidazione sistematica e l’infiltrazione di propri membri in modo da creare una situazione di assoggettamento e di omertà che renda impossibili o altamente difficili le normali forme di intervento punitivo dello Stato”. Tale Sentenza precede di 10 anni la discussione politica sul tema e pone le basi per il successivo inserimento dell’art. 416/bis nel corpus del Codice Penale.

Si è a lungo dibattuto se per la configurazione dell’associazione mafiosa occorra o meno un legame con le consorterie tradizionali (cosa nostra, ndrangheta, camorra) e la Giurisprudenza di legittimità ha chiarito che anche se ci fosse un sodalizio con la mafia organizzata, non è detto che la nuova organizzazione sia da considerarsi associazione mafiosa, perché, affinché avvenga ciò, occorre che la nuova consorteria mutui il metodo mafioso e operi con un’effettiva capacità di intimidazione, non rilevando penalmente il riconoscimento o meno da parte della “casa madre” (Cass. Pen., sent. n. 13635/2012).

Difatti, perché si parli di associazione mafiosa, occorre che “gli elementi qualificanti del sodalizio criminoso riferito dall’art. 416/bis attengono essenzialmente al modus operandi dell’associazione e alla specificità del bene giuridico leso. Il primo consiste nell’avvalersi della forza intimidatrice che promana dalla stessa esistenza dell’organizzazione, alla quale corrisponde un diffuso assoggettamento nell’ambiente sociale e dunque una situazione di generale omertà. Il secondo consiste nel fatto che, attraverso lo strumento intimidatorio, l’associazione si assicura la possibilità di commettere impunemente più delitti e di acquisire o conservare il controllo di attività economiche private o pubbliche, determinando una situazione di pericolo oltre che per l’ordine pubblico in genere, anche per l’ordine pubblico economico. La situazione di omertà deve ricollegarsi essenzialmente alla forma intimidatrice dell’associazione, e che se è invece introdotta da altri fattori, si avrà l’associazione per delinquere, ex art. 416 c.p., non quella di tipo mafioso. Ne discende che l’associazione di tipo mafioso si caratterizzi non tanto per la sua struttura, quanto per una certa intensità e stabilità del vincolo sodale, perché solo in relazione ad un forte vincolo può determinarsi quell’efficacia intimidatrice, che scaturisce dalla consapevolezza dell’esistenza stessa dell’associazione” (Cass. Pen., Sent. n. 16464/1990 e succ.).

Di Sentenze del genere ce ne sono a centinaia e, al netto di numerosi contrasti giurisprudenziali sulle forme, il ruolo soggettivo e sulle finalità dei sodalizi criminali, la giurisprudenza è ormai concorde nell’affermare che l’associazione di tipo mafioso si caratterizza quando sono presenti i sei criteri citati sopra, in particolare la carica intimidatrice, l’assoggettamento e l’omertà.

Conclusioni

Qualsiasi giurista ci dirà che nel diritto civile il fatto è certo ma la norma è incerta (e va ricercata), mentre nel diritto penale avviene l’esatto contrario: la norma è certa, è il fatto, invece, ad essere incerto (e va accertato). Quindi è certo che, nel caso in specie, l’art. 416/bis detta regole chiare su come identificare il sodalizio mafioso, interpretate e chiarite negli anni, ancor di più, dalla Giurisprudenza di merito e di legittimità, ma i fatti, così come accertati dalla Procura, non sempre sono chiaramente identificati e analizzati. Ecco perché, prima di commentare sull’esistenza o meno della “mafia” a Roma, è necessario leggere le motivazioni della Sentenza su mafia capitale e non uno striminzito dispositivo (a proposito, chi, tra gli innumerevoli commentatori dell’ultim’ora ha letto il dispositivo della Sentenza? Credo nessuno…), e credo che ciò non basti, perché per mettere il punto sulla questione ho paura che dovremmo attendere la Sentenza d’appello e, sicuramente, quella della Cassazione (mi auguro a Sezioni Unite, in modo da evitare ulteriori contrasti giurisprudenziali).

Perché siamo certi che i soggetti condannati dal Tribunale di Roma abbiano usato intimidazioni e si siano avvalsi di un’aura diffusa di omertà? E’ certo che abbiano approfittato dello stato di assoggettamento di coloro che si trovavano in contatto con il sodalizio criminale piuttosto che di uno stato di corruzione volontaria e sistematica? Sappiamo per certo che l’organizzazione era stabile e deteneva il controllo delle attività economiche servendosi della forza intimidatrice o più che altro della propensione ad elargire e far ottenere facili e ingiusti profitti?

Tutte queste domande avranno una risposta e mi auguro che i commentatori leggano la Sentenza con la stessa solerzia con cui sentenziano (è il caso di dirlo): è mafia capitale! No, non è mafia capitale!

Viva la mafia!

il_padrino mafia

Bene, oggi, a 25 anni dalla scomparsa di Paolo Borsellino e, poco prima, di Giovanni Falcone e, ancor prima, di Rosario Livatino e poi Carlo Alberto dalla Chiesa, Peppino Impastato, Ilaria Alpi (i nomi sono troppi, li trovate tutti qua) voglio fare una riflessione un po’ fuori dal coro.

Gli idioti che si fermeranno al titolo già mi staranno bestemmiando e mi faranno fischiare le orecchie per tutta la sera, ma gli altri che si prenderanno la briga di leggere l’articolo, capiranno che “viva la mafia” è la summa di 160 anni di uno Stato mal riuscito, sin dalla sua istituzione, tendenzialmente frammentato e incapace di attuare quelle forme di giustizia ed equità sociale in grado di creare coesione sociale e senso di appartenenza ad una Nazione e alla sua vita sociale e politica.

Detto in altri termini, la mafia è un cancro che prolifica in un organismo malaticcio che non ha alcuna intenzione di curarsi né di condurre una vita sana.

Come al mio solito, prima di parlare di un argomento, ci tengo a ricordare (e ricordarmi) le origini, anche per capire meglio quello che appresso dirò.

Le origini della mafia

Non è facile capire le origini del sistema mafioso. Secondo una leggenda risalente al 1400, tre cavalieri spagnoli, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, uccisero un uomo per vendicare l’onore della sorella e furono condannati a 29 anni 11 mesi e 29 giorni di carcere nell’Isola di Favignana. Durante la detenzione maturarono le “regole di onore e omertà” che costituivano il codice della “società”. Da allora Osso fonderà Cosa Nostra in Sicilia, Mastrosso la ‘ndrangheta in Calabria e Carcagnosso la Camorra a Napoli.

Leggenda a parte, si dice che effettivamente la mafia ebbe origini dalle sette segrete spagnole, che – durante il periodo borbonico – proliferavano nel Sud Italia, in particolare tra Napoli e Palermo, ma erano organizzazioni assimilabili alle attuali confraternite (o società massoniche) prive, dunque, di violenza e sopraffazione tipiche dell’attuale sistema mafioso.

Il nome mafia compare per la prima volta nel 1863, in un’opera teatrale: I mafiusi de la Vicaria, ambientata nel carcere della Vicaria di Palermo. Il termine non ha origini ben chiare, forse deriva dall’arabo (la presenza di comunità arabe è stata a lungo massiccia nel territorio siciliano), commistionato col dialetto siculo, mentre sappiamo con certezza che ‘ndrangheta deriva dal greco (“uomo valente, forte”) e camorra dal dialetto locale camurria (“imbrogliare, frodare”).

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Una scena del film “Il Prefetto di Ferro” di Pasquale Squitieri (1977)

Fino all’unità d’Italia le comunità mafiose erano dedite ad attività di riscossione crediti al soldo dei latifondisti e dei signorotti locali, oppure si potevano ricondurre al fenomeno del brigantaggio (delinquenza comune). Dopo l’unità d’Italia il fenomeno divenne più esteso e strutturato, arrivando all’uso della violenza e dell’imposizione e a sempre più intense attività di scambi con le nascenti istituzioni dello Stato sabaudo prima e del regime fascista poi. Tant’è che quando Mussolini, nel suo intento di sconfiggere la mafia, inviò in Sicilia il Prefetto Cesare Mori (detto “il Prefetto di ferro”) dovette richiamarlo subito a Roma non appena Mori iniziò a scoprire i legami tra i mafiosi locali e il governo di Roma.

Mussolini voleva solo propagandare una lotta alla mafia che però si fermasse all’arresto o alla soppressione della manovalanza, mai si sarebbe aspettato che Mori avrebbe scoperto i legami tra mafia e politica, tant’è che ricevette l’ordine di abbandonare l’operazione e tornare a Roma, dove gli fu impedito di proseguire con le indagini.

Mentre la mafia siciliana si strutturava nel controllo del territorio, dei commerci e negli accordi con le istituzioni, la ‘ndrangheta e la camorra erano ancora sistemi embrionali, dediti soprattutto al brigantaggio.

La ‘ndrangheta inizierà a svilupparsi economicamente solo a partire dagli anni ’70 fino agli anni ’90, con i sequestri di persona, grazie ai quali avrebbe ottenuto ingenti somme di denaro da reinvestire nei traffici internazionali di droga e armi, per poi divenire, nel giro di pochi decenni, una delle mafie più potenti al mondo, mentre la camorra inizierà a svilupparsi economicamente nel dopoguerra, grazie alla presenza degli americani a Napoli e a causa della perdurante crisi post-bellica che favorirà lo sviluppo di organizzazioni dedite al controllo del gioco d’azzardo, dello spaccio di alcool, sigarette e persino di generi di prima necessità. Anche la camorra, come la ‘ndrangheta, reinvestirà i suoi proventi nelle attività di traffico di droga.

Ma perché è nato il fenomeno mafioso?

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Una scena del film “Cristo si è fermato a Eboli” di Francesco Rosi (1979)

Non è facile dare una risposta, bisogna prima analizzare per bene la storia del Sud Italia. Bisogna conoscere la realtà della Civiltà contadina e degli oppressi al servizio del potente di turno, del signorotto locale o del sovrano che, senza conoscere i propri territori e chi ci abita, li scambia, li regala, ne fa oggetto di trattati con altri sovrani europei, oppure ne fa territorio di battaglie, usando la gente che – non sapendo nemmeno contro chi combatte – va a morire per una Storia altrui, per un sovrano che non conosce e non ama e contro un sovrano che non conosce e non odia. Va ad ammazzare altri soldati che, come lui, sono lì per fame e per un misero salario, oppure per imposizione. E mentre s’ammazzano, non si odiano, anzi, si amano perché, in fondo, pur essendo nemici, sono accomunati da un destino: essere sfruttati.

Per secoli i contadini, gli artigiani, i manovali del Sud sono stati sfruttati da potenze che non conoscevano né sentivano proprie. Sapevano solo che il signorotto avrebbe preteso la sua decima e avrebbe usato i suoi servitori (i mafiosi in fieri) per imporre il pagamento. E poi, tolto il signorotto, sarebbe arrivato un altro esattore, mandato da chissà chi e da chissà quale posto lontano, per imporre altre tasse, altri balzelli, altri pagamenti che li avrebbero resi ancora più poveri. Se è vero che, come racconta la Storia del Sud riemersa in questi anni, l’Unità d’Italia, al soldo dei Piemontesi, fu fatta nel sangue delle genti del Sud, i cui paesi vennero distrutti, le popolazioni sterminate e le banche saccheggiate, è anche vero che con i Borboni, i Francesi o i Veneziani non si stava meglio. Forse stavano meglio “quelli di città”, ma i contadini no.

Carlo Levi, in Cristo si è fermato a Eboli (che vi invito a leggere per capire meglio la storia del Sud e degli oppressi) scrive:

Gli Stati, le Teocrazie, gli Eserciti organizzati sono naturalmente più forti del popolo sparso dei contadini: questi devono perciò rassegnarsi ad essere dominati: ma non possono sentire come proprie le glorie e le imprese di quella civiltà, a loro radicalmente nemica. Le sole guerre che tocchino il loro cuore sono quelle che essi hanno combattuto per difendersi contro quella civiltà, contro la Storia, e gli Stati, e la Teocrazia e gli Eserciti. Sono le guerre combattute sotto i loro neri stendardi, senz’ordine militare, senz’arte e senza speranza: guerre infelici e destinate sempre ad essere perdute; feroci e disperate, e incomprensibili agli storici.

In questo contesto di sfruttamenti perenni e di briganti (cioè i primi mafiosi) eroi, che difendono il popolo, pensate che le nuove istituzioni, volute con l’unità d’Italia, poi le corporazioni fasciste e poi la nuova Repubblica del 1948 (che non avrebbe, per decenni, soppresso lo sfruttamento) avrebbero eliminato le ingiustizie e rappresentato un volano di sviluppo per le genti del Mezzogiorno? No, affatto.

La redistribuzione delle terre ai contadini, fatta negli anni ’50, ovviamente frammentò il latifondo, ma il governo non garantì ai contadini adeguati strumenti produttivi o cooperativi e fu così che, impossibilitati a coltivare le terre, i contadini emigrarono in massa. Sfruttati e abbandonati dalle istituzioni, in un periodo in cui le regioni non esistevano ancora (saranno istituite solo negli anni ’70) e i comuni erano governati da sindaci provenienti dalle vecchie nobiltà (e quindi ex latifondisti ed ex signorotti), a chi si doveva rivolgere un povero contadino per avere una minima forma di tutela? Non certo al sindaco, né alle forze dell’ordine, e quindi – giocoforza – l’unico punto di riferimento era il brigante, il mafioso locale, che spesso era uno di loro, ma arricchito (grazie alle attività criminali) e che, per ottenere consensi, elargiva favori a chi non poteva avere giustizia da parte delle Istituzioni.

Avevi subito un torto? Ti rivolgevi al mafioso. Tua figlia era stata importunata da qualche ragazzotto? Se ti fossi rivolto alle forze dell’ordine avrebbero detto che non potevano intervenire (come accade oggi, del resto) e quindi, per ottenere giustizia, andavi dal mafioso. Volevi far lavorare tuo figlio? Il mafioso era quello che ti garantiva, grazie alle sue conoscenze, un lavoro. Il boss locale era il sindaco di fatto e i suoi soldati rappresentavano le forze dell’ordine al suo soldo e, in ultima analisi, al servizio dei compaesani.

Come si fa a sconfiggere la mafia?

livatino ucciso dalla mafia
Rosario Livatino, detto il giudice ragazzino, ucciso dalla mafia nel 1990

Le giornate della memoria, come quella di oggi, non servono a nulla. E non serve nemmeno mandare al macello legioni di magistrati coraggiosi, uomini di scorta, funzionari o prefetti, insomma, gente onesta, proba e valorosa.

I magistrati uccisi dalla mafia sono l’esempio del fallimento di uno Stato che ha fatto accordi con la mafia, per paura e perché ormai è impossibile sconfiggerla. Uno Stato che, nelle sue articolazioni e nella sua ignavia, ha lasciato le porte aperte affinché, tramite la corruzione, la mafia s’impadronisse di consigli comunali, regionali, società partecipate, appalti.

E’ evidente che lo Stato italiano non è mafioso (solo i fessi fanno semplificazioni così puerili), ma non è stato in grado di eliminare il problema dalla sua radice: l’approvazione sociale.

La gente deve pur sopravvivere. Se lo Stato è assente, la mafia è presente nei propri territori. Garantisce occupazione e giustizia. In Calabria ci sono più forestali che in Trentino? E’ merito della ‘ndrangheta, certo. Che fanno le persone, se lo Stato è assente e non garantisce dignità o, ancor peggio, fonti di sopravvivenza? Ora capite perché nonostante la gente sappia che la mafia deturpa i territori (anche gli stessi territori in cui vivono) è omertosa e non si lamenta?

Ora vi spiegate perché la statua di Borsellino viene distrutta e la gente difende i boss locali o, peggio, gli fa l’inchino durante le processioni? Non è arretratezza culturale né cultura mafiosa insita nella gente. E’ solo un tentativo di difendere le uniche persone che garantiscono quel minimo di sopravvivenza. Lo so che vi scandalizzate a leggere queste parole, ma è solo comprendendo gli aspetti positivi della mafia che la si può sconfiggere. E nessuno, al Sud, è così autolesionista da subire lo scempio dell’ambiente e il degrado se non ha, come moneta di scambio, qualcosa, anche il minimo per sopravvivere.

La mafia può anche avere imperi economici in tutto il Mondo, ma si può sconfiggere bruciando la terra che alimenta le sue radici: l’approvazione sociale. E come? Se lo Stato è presente nei territori, se si attuano politiche di vera giustizia ed equità sociale, se si garantisce dignità sociale alle persone, attraverso il lavoro, il welfare, strutture che funzionano ed Enti locali che rispondono alle esigenze dei cittadini, la mafia non ha più ragione di esistere né di autoalimentarsi.

Utopia? Certo. Perché la direzione che ha preso l’Italia negli ultimi anni è diametralmente opposta a questa: privatizzazioni dei servizi pubblici (anche di quelli essenziali), cieca ubbidienza alla tecnocrazia europea e alla logica bancaria e capitalistica, quindi foriera di ingiustizie sociali sempre più evidenti, abbandono del Sud anche a causa del taglio dei trasporti, abbandono delle politiche volte all’inclusione sociale di giovani e fasce deboli della popolazione, politiche volte a favorire l’immigrazione a scapito del welfare interno (non sempre è vero, ma è ciò che la gente percepisce anche a causa dell’eccessiva apertura delle nostre frontiere, della debolezza nei confronti degli altri Paesi europei, che invece le chiudono e della discussione, inopportuna e inappropriata, sullo ius soli), tutto questo contribuirà ad alimentare le ingiustizie sociali e a favorire il potenziamento dei sistemi mafiosi. A poco serviranno le commemorazioni, le operazioni di polizia, gli arresti, le confische dei beni. I beni e i soldati della mafia si potranno ricomprare agevolmente, mentre ciò che alimenta il sistema mafioso, cioè l’approvazione sociale, non sarà mai sradicato da uno Stato che, in fondo in fondo, con la mafia ci sa convivere. Parola di Pietro Lunardi.

lunardi mafia
Lo disse il Ministro Piero Lunardi nel 2001 in Sicilia: “bisogna convivere con la mafia”

Brucia la terra

Brucia la terra

Il mare osserva la terra che lenta e inesorabile brucia. Due piccoli versi ispirati dai deprimenti fatti di questi giorni.

Brucia la terra

Nella calura estiva

tra acri odori di fumo

di sterpaglia in fiamme

ingigantite dal vento

e prodotte da sudicie mani

sporche di terra e sangue

intravedo, in lontananza, il mare

acque profonde

che circondano campi in fiamme

e mentre la terra brucia

il mare, sornione, quieto la osserva.