L’ennesimo rapporto di Eurostat sui c.d. Neet (o néné, giovani che non studiano né lavorano), diffuso oggi, evidenzia come, anche nel 2017, la quota si attesta al 25,7%, ossia un giovane su quattro, tra i 18 e i 24 anni, non ha un lavoro né è all’interno di un percorso di studi. Su quest’aspetto siamo i primi in Europa, seguiti da Cipro (22,7%), Grecia (21,4%), Croazia (20,2%), Romania (19,3%), Bulgaria (18,6%), Spagna (17,1%), Francia (15,6%), Slovacchia (15,3%), mentre la percentuale più bassa di Neet è in Slovenia, Austria, Lussemburgo, Svezia (8% circa) e Paesi Bassi (5,3%).

I dati di per sé parlerebbero chiaro, ossia che la percentuale di Neet è proporzionata alla percentuale di disoccupazione di una Nazione e quindi la risposta parrebbe scontata: dove manca il lavoro ci sono più Neet. Ma la risposta è davvero così semplice? Se andassimo ad analizzare i dati della presenza di Neet a livello globale ci stupiremmo non poco nello scoprire che negli USA la percentuale di Neet si aggira intorno al 15% e che in Giappone, terra di tecnologie e di forte propensione al lavoro, la percentuale varia dal 20 al 25% (dati disgregati, in base alla differenza di indicatori di analisi utilizzati). Dunque la presenza di una percentuale più o meno alta di disoccupazione è indicativa, ma non è risolutiva. Ad ogni modo va prima sgomberato il campo da un equivoco che spesso aleggia tra quelli che parlano di siffatti argomenti.

Non è questione di volontà

Spesso si dà la colpa ai giovani e si dice che non hanno stimoli o che quelli che vivono al Sud (dove i tassi di disoccupazione giovanile sono i più alti in Italia) non hanno voglia di lavorare (parole dell’intellettuale Flavio Briatore). Ma non è una questione di volontà. Se affrontassimo l’argomento restando nell’alveo della volontà (e quindi di una rappresentazione parziale della realtà) non riusciremmo mai a darci una risposta e a capire perché questi giovani hanno smesso di studiare e di lavorare. Insomma, dire che non vogliono lavorare o studiare è una semplificazione talmente imbarazzante da risultare persino dannosa, in quanto ci allontaneremmo dal problema e lo risolveremmo con una semplicistica formula di rito, tanto inutile quanto priva di strumenti atti a comprenderne la portata del problema.
Direi piuttosto che i ragazzi vorrebbero lavorare. I ragazzi vorrebbero studiare. Vorrebbero, razionalmente e consapevolmente, realizzare un progetto di vita. Ma non possono.

La mancanza di conflitto e l’incapacità di elaborare la sintesi

Non voglio scomodare un profondo pensatore come Hegel, ma a sto giro ci sta. Hegel, nel suo tentativo di dare sistematicità al pensiero filosofico, individua tre passaggi fondamentali, che sono: l’essere in sé, l’essere fuori di sé e l’essere in sé e per sé, tre concetti che – sinteticamente, stando al pensiero hegeliano – possiamo ridurre in tesi, antitesi e sintesi, ossia tre passaggi della dialettica, che Hegel tenta di universalizzare per spiegare la fenomenologia della realtà. Vabbuò, qualche filosofo storcerà il naso nel leggere questa riduzione del pensiero hegeliano, ma a me serve come strumento per spiegare una cosa. Ma prima vorrei farvi ascoltare un passaggio di un’intervista a Mentana sulla disoccupazione giovanile:

Mentana, forse consapevolmente, forse no, mette in risalto un aspetto essenziale, che si ritrova anche nel pensiero hegeliano e che spiega meglio il fenomeno dei neet: “le generazioni passate, quando si trovavano di fronte a un’ingiustizia, protestavano, mentre oggi c’è un’assuefazione, che nasce proprio da una parte dell’ingiustizia”. La protesta, nel vocabolario hegeliano, era la parte dell’antitesi, ossia della negazione dell’esistente.

Dunque con la critica all’attuale si alimentava la protesta (consapevole) e si procedeva verso una negazione che avrebbe portato alla sintesi.

Più o meno la stessa cosa fu teorizzata da Marx, ma non l’ho citato un po’ perché sennò sarei tacciato di comunismo (elemento ormai antistorico, anche se sempre attuale, ma che sopravvive in modo regresso a mò di soprammobile da cacciare ogni volta che si vuol far finire una conversazione in malomodo) un po’ perché Marx ha storicizzato il suo pensiero e ha eliminato l’universalizzazione del pensiero hegeliano.

Insomma, quello che semplicemente voglio dire è che, rispetto ai nostri genitori, che hanno concretizzato il secondo aspetto della struttura hegeliana (l’essere fuori di sé), noi ne siamo rimasti fuori. E quindi siamo rimasti fregati dalla storia.

Cos’è successo rispetto ad allora?

Mentre i nostri genitori scendevano in piazza nel ’68 o nel ’78, nasceva la società dei consumi, che li avrebbe ricondotti nei ranghi, promettendo loro un benessere che si sarebbe poi sviluppato – e concretizzato – nei decenni a venire. Ma quel benessere non sarebbe durato a lungo e oggi ne vediamo le prime conseguenze. Peccato che i nostri genitori non l’abbiano ancora capito e si prodigano nell’immaginare per noi un futuro antistorico e prettamente bucolico. Un futuro che si trova solo nella narrativa sociale fino a un ventennio fa.
Loro ci hanno viziati, ci hanno narrato un futuro in giacca e cravatta o in tailleur e noi ci abbiamo creduto. Ci hanno coccolati, spingendoci a credere che fatica e gavetta sono concetti da abiurare e che sono inutili, perché il successo non si raggiunge in salita, ma in discesa.
E dunque, in poche parole, hanno sconfessato il secondo – più importante – processo di crescita e di evoluzione: la negazione, il conflitto. Senza il conflitto, la negazione, non si arriva alla sintesi e si resta in una sorta di limbo costituito dall’essere in sé, però perenne. Per arrivare all’essere in sé per sé (cioè: trovare un lavoro, terminare un percorso di studi, svilupparsi emotivamente e lavorativamente) occorre per forza passare dal conflitto. Ma quando una società edonistica e una famiglia che assimila tali valori salta questo fondamentale passaggio, qual è la conseguenza?

So che questo video non spiega molto ciò che ho appena detto, ma preso con le dovute pinzette, è nettamente esemplificativo e pragmaticamente risolutivo.


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