Xylella. E’ una bufala o un problema?

Si torna a parlare di Xylella fastidiosa dopo che un articolo apparso sul blog di Beppe Grillo ha fatto scalpore e ha provocato le reazioni di molti giornalisti, politici, intellettuali e anche dei suoi stessi sotenitori. A dire il vero, nonostante il titolo dell’articolo firmato dalla giornalista Petra Reski sia acchiappaclick (la bufalite della Xylella), … Leggi tutto

Che fine ha fatto la cultura popolare?

cultura popolare

Breve excursus sulle varie fasi che hanno portato allo studio e all’emersione della cultura popolare e di come oggi sia una mera teca da museo senza più appigli con la realtà che dovrebbe produrla.

Il folklore, inteso come rappresentazione culturale delle tradizioni popolari (cioè gli usi, i costumi, le musiche, la cucina, le tecniche, i saperi, i racconti, le fiabe, ecc.), è stato oggetto di interesse da parte del movimento romanticista, a partire dal 1700, per poi fiorire nel 1800. E’ in questo periodo che nasce, in un certo senso, l’antropologia come studio delle culture popolari.

Il Volksgeist, lo Spirito del popolo era, nell’intenzione dei Romantici, l’elevazione della volontà della Nazione quale legge fondamentale del suo sviluppo sociale, contrapposto al giusnaturalismo, che vedeva come fondamento la legge naturale. Lo Spirito, ossia l’individuo universale, concetto largamente usato da Hegel, corrispondeva, nell’idea dei Romantici, all’Individuo-Popolo o all’Individuo-Nazione che trovava le sue radici nella cultura popolare, la quale venne utilizzata sia per differenziarsi da altri Individui-Nazione sia per accentuare le proprie peculiarità. E’ vero che buone parti del pensiero dei Romantici furono utilizzate per giustificare i nazionalismi e per dare una connotazione filosofico-culturale al regime nazista, ma è anche vero che questa filosofia diede il via all’analisi antropologica, che avrebbe, nel tempo, cambiato per sempre il concetto di Cultura.

La cultura popolare in Italia nell’Ottocento e primi del Novecento

In Italia il primo a porre l’attenzione sulle culture popolari fu Niccolò Tommaseo che, nel suo incontro con la poetessa pastora Beatrice di Pian degli Ontani, nel 1832 scrisse:

Feci venire di Pian degli Ontani una Beatrice, moglie d’un pastore, donna di circa trent’anni che non sa leggere e che improvvisa ottave con facilità, senza sgarar verso quasi mai: con un volger d’occhi ispirato, quale non l’aveva di certo madama De Sade […] Donna sempre mirabile; meno però, quando si pensa che il verseggiare è quasi istinto ne’ tagliatori e ne’ carbonai di que’ monti“.

Quel quasi istinto lasciò germogliare l’idea, tra numerosi intellettuali, che i contadini, i pastori, gli strati più umili della popolazione, avessero spontaneamente e forse inconsapevolmente l’istinto alla poesia, ai versi. Un istinto millenario, capace di produrre versi, musiche, canti, tecniche e saperi che furono oggetto di indagine, ma in chiave positivista, ossia, detta in altri termini, in chiave estetico-letteraria secondo un approccio assolutistico: c’è una cultura superiore, frutto dell’evoluzione degli studi e una cultura inferiore, frutto dell’ignoranza e di disgregate conoscenze delle cose. In quest’ottica il folklore venne sì studiato, ma come espressione pittoresca del popolo delle campagne. E’ con quest’ottica che, per tutto fine Ottocento e fino alla prima metà del Novecento, il folklore veniva catalogato tra le belle cose d’Italia, ma senza mai rientrare degnamente nel concetto di cultura (o di culture, per usare un’espressione del relativismo antropologico).

Gramsci e De Martino

Antonio Gramsci
Antonio Gramsci

Ma fu proprio un Intellettuale, Antonio Gramsci, che, nelle sue Osservazioni sul Folklore (Quaderni dal Carcere), individuò un nuovo approccio alla cultura popolare: non più un popolo indistinto che produce aspetti pittoreschi e folklorici, frutto dell’arretratezza e dell’ignoranza (com’era nell’approccio positivista), ma l’espressione alternativa di una cultura frutto di classi oppresse dalla cultura dominante. Gramsci, quindi, inserisce la produzione culturale popolare in un contesto sociale, la storicizza e la rende un’alternativa alla cultura dominante.

Il suo approccio sarà poi adottato da studiosi come Ernesto De Martino e Gianni Bosio, che condurranno le loro ricerche consapevoli che l’emersione della produzione culturale popolare favorirà una presa di coscienza delle classi subalterne in chiave anti-borghese.

Senza l’apporto di Intellettuali come Gramsci, De Martino, Bosio e tanti altri, le culture popolari non avrebbero avuto quella dignità tale da essere poi considerate, nei decenni successivi, alla stregua di un Patrimonio intangibile degno di tutela istituzionale (nel bene e nel male), tant’è che le varie Convenzioni UNESCO, sin dal 1989, sono state volte a dare salvaguardia e valorizzazione al folklore, nei suoi aspetti materiali e immateriali. Il loro apporto è stato, quindi, fondamentale, non tanto e non solo nello spostare l’indagine sulle culture popolari da un terreno estetico a uno sociologico-antropologico, ma anche nel capovolgere l’azione dell’Intellettuale, il quale non si pone come docente, dall’alto del suo sapere, ma come allievo nei confronti dei portatori di saperi folklorici.

Tuttavia questi intellettuali, che hanno avuto il pregio di dare rilievo al folklore, hanno vissuto in un’epoca in cui il dualismo cultura egemonica / cultura subalterna si sostanziava in modo netto: da un lato c’era, quindi, il popolo sottomesso e dall’altro lato la borghesia; da un lato la Civiltà contadina, dall’altro la civiltà cittadina. Insomma, netta era la distanza tra i due poli.

Gli anni Sessanta e Settanta

Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini

A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, però, qualcosa è cambiato. Le emigrazioni di massa, l’industrializzazione, l’emersione della società dei consumi, la diffusione di mezzi di comunicazione di massa come la TV e, in generale, un nuovo modello sociale, basato sul benessere e sull’urbanizzazione, hanno contribuito alla scomparsa della Civiltà contadina e delle sue produzioni immateriali: storie, saperi, musiche e canti vennero travolti da modelli culturali più appetibili e diffusi. Del resto la cultura popolare veniva vista come un’espressione di un cattivo passato da dimenticare, fatto di miseria e fame, mentre la nuova cultura egemonica predicava benessere ed era incompatibile con il vivere povero delle campagne, ormai svuotate a favore del più remunerativo lavoro nelle industrie nascenti.

E’ in questo periodo che molti intellettuali hanno ripreso gli studi di Gramsci e De Martino sul folklore non più e non solo in chiave anti-borghese, ma anche in chiave anti-capitalista, anti-egemonica e, successivamente, anti-globalista e localista, dove il dualismo egemonia/subalternità non rappresenta più la lotta di classe tra chi vive in mondi diversi e in contrapposizione, ma una frammentazione sociale inserita nel contesto dell’interclassismo.

Se è vero che il povero, ormai privo del suo terreno di riferimento, sogna di essere ricco e sogna, come modello del benessere, la Seicento, la casa al mare e uno stipendio sicuro, il suo volersi elevare a borghese (o piccolo-borghese) è l’esempio di una stratificazione sociale frammentata e fittamente segmentata, dove non vi è più una (potenziale e possibile) lotta di classe, ma una lotta a senso unico, volta all’illusorio raggiungimento del sogno del benessere. In questo quadro mutano i c.d. folkways, ossia le abitudini dell’individuo e i costumi della società che sorgono da sforzi intesi a soddisfare i bisogni (William Sunmer, Costumi di gruppo, 1906), non sono più nettamente trasmessi dal gruppo di riferimento, ma si confondono con quei bisogni, indotti o spontanei, propri della civiltà cittadina attraverso le influenze della società dei consumi.

Insomma, la cultura popolare inurbata e rimodellata nei ceti operai di periferia, nell’incontro-scontro tra operai e piccola borghesia, nel mescolamento tra vecchi modelli e nuovi bisogni, produce, tra gli intellettuali di sinistra degli anni Settanta, un nuovo approccio, che è quello dell’analisi demologica non più di matrice gramsciana, ma volta a studiare le culture subalterne e suburbane. Quel poco che resta della Civiltà contadina è oggetto di incessanti studi e ricerche, che oggi rappresentano l’architrave della conoscenza che possiamo avere di ciò che in quel periodo restava ancora autentico. Dico autentico non perché nelle culture popolari possa essere ammesso un termine del genere, ma perché oggi quelle ricerche etnografiche vengono cristallizzate nel concetto di tradizione e fatte passare per espressione di identità culturale, quando altro non sono che un aspetto mutevole di una realtà che di lì a poco sarebbe totalmente scomparsa.

L’opera degli Intellettuali di quel periodo fu quindi di ri-scoperta e ri-proposta contro la massificazione industriale, la produzione egemonica musicale, insomma, il consumismo, l’omologazione e l’industrializzazione che, nel corso degli anni, avrebbe profondamente mutato le matrici culturali e, di conseguenza, le espressioni stesse.

L’intellettuale che più ha messo l’accento sulla disgregazione della cultura popolare ad opera della società dei consumi fu Pier Paolo Pasolini, il quale s’interrogava su come la cultura popolare potesse rimodellarsi all’interno di una struttura sociale ormai profondamente mutata.

Accanto a lui, Alberto Mario Cirese (Cultura egemonica e culture subalterne, 1973) gettò le basi per una riflessione sul rapporto tra egemonia e subalternità non più in chiave gramsciana ma secondo un’indagine che tenesse conto anche della reciproca influenza tra la cultura egemonica e quelle subalterne nonché della circolarità del rapporto tra esse, nell’ottica per cui il folklore si pone come un’espressione di cultura alternativa e implicitamente contestativa che però si rimodella ogniqualvolta i suoi portatori si trovano a cavallo tra l’egemonia e una subalternità che però non è cementificata, ma è inserita in un corpo estraneo ad essa e rimodellabile continuamente.

Del resto è storia recente che la cultura popolare è diventata sempre più appannaggio della massa e di quegli intellettuali piccolo-borghesi inurbati che trovano in essa uno sfogo nei confronti della nevrosi prodotta da modelli omologanti di matrice globale. Ma non solo! E’ anche un pretesto per riaffermare presunte identità locali che, però, non avevano alcun senso nella Civiltà contadina. Il concetto di identità è stato introdotto, anzi, nella riemersione della cultura popolare, come riaffermazione di presunti valori territoriali contrapposti al modello global.

Gli anni Ottanta e Novanta

Difatti gli anni Ottanta e Novanta hanno rappresentato, per la cultura popolare, un periodo sì di rivitalizzazione (frutto anche della conseguente attenzione globale nei confronti delle diversità culturali, come l’es. dell’UNESCO), ma anche di profondo mutamento. Se da un lato si moltiplicavano le attenzioni rivolte alle espressioni culturali e rinasceva l’interesse nei confronti delle loro rappresentazioni (cucina tipica, musiche e canti, in particolare), soprattutto in chiave di promozione del territorio nei confronti del sempre crescente fenomeno turistico, dall’altro si sentiva sempre più pressante l’intrusione del mercato del folklore di matrice, appunto, egemonica. E l’appropriazione del concetto di Patrimonio Culturale da parte delle Istituzioni (si pensi alla creazione di apposite Fondazioni per la sua promozione) unito alla sempre maggiore attività del mercato degli eventi ha di fatto consegnato la cultura popolare, nello specifico musiche e canti, nelle mani della cultura egemonica, la quale, chiaramente, ha tutto l’interesse a spezzettare e sminuzzare le espressioni folkloriche selezionandone gli aspetti più appetibili sul mercato degli eventi e trascurando, di fatto, quelli meno vendibili. Quest’operazione, squisitamente egemonica e omologante, da un lato ha privato di ogni valore la cultura nella sua complessità e dall’altro ha sottratto ai suoi portatori il diritto di usarla e ricontestualizzarla.

Ma, ad ogni modo, ormai questo diritto non c’è più proprio perché non c’è più quel sub-strato culturale che produce espressioni culturali sue proprie. Insomma, ciò di cui si è appropriata la cultura egemonica non è tanto la cultura popolare in sé (quella si è liquefatta e si mescola e confonde nell’interclassismo) quanto l’oggetto dell’indagine etno-demografica di quarant’anni fa, in altre parole un oggetto museale, però immateriale.

Oggi che succede?

Raymond Geuss
Raymond Geuss

Raymond Geuss, classe 1946 e professore emerito all’Università di Cambridge, scrive “la filosofia è morta: i segni vitali prodotti una quarantina di anni fa, l’eccitazione, la creatività, l’inventiva sono sostituite, ormai, da tediose recite e rievocazioni storiche” (qui trovi l’articolo originale). Mi permetto di citarlo perché, in fondo, è essenzialmente ciò che è accaduto alla cultura popolare.

E’ morta sotto la scure della società dei consumi, che ha fatto delle espressioni culturali popolari vive una merce da dare ad uso e consumo di stakeholders, turisti e massa indistinta e indiscriminata che non si riconosce né produce espressioni culturali nuove in quanto non le appartengono.

In altre parole, come ben dice Geuss, la creatività e l’inventiva sono sostituite da rievocazioni storiche, dall’ossessiva ripetizione della tradizione, che però non è rivitalizzata, ricontestualizzata e utilizzata in chiave anti-egemonica, ma ridotta a mera spettacolarizzazione, a ricordo quasi bucolico di un passato che non c’è più e che si ripropone come teca da museo.

In questo quadro la ricerca demologica si è interrotta ed è incapace di scandagliare le rappresentazioni dei sub-strati culturali ormai liquefatti e confusi tra ceti marginali e ceti borghesi. Non c’è più un anti- da proporre (anti-sistema, anti-capitalismo, anti-borghesia, anti-globalizzazione, ecc.) perché la critica che ha sempre sorretto la cultura popolare è scomparsa e il nemico da combattere oggi è talmente invisibile da non esistere.

Insomma, oggi il folklore è più simile a quello guardato con gli occhi del Positivismo ma in chiave moderna, ossia spettacolarizzazione estetico-letteraria di espressioni d’identità locale, mentre però i suoi portatori non esprimono una cultura, ma un ricordo, tenuto vivo solo dal mercato. E’ per questo che ormai da molti anni quei pochi portatori sani, ancora vivi, della Civiltà contadina, hanno abbandonato il campo della ri-proposta, in quanto non gli appartiene più, mentre sul campo sono rimasti quelli che non esprimono più alcunché, se non ciò che il mercato (o la moda del momento) gli impone di esprimere. Una sorta di servilismo che, però, soggiace alla legge del ribasso. Ne ho parlato, in riferimento alla musica, in quest’articolo.

Tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale diceva Hegel, a voler significare che Ragione e reale sono la stessa cosa. Questo la cultura popolare, nell’illetteralità dei suoi portatori, l’aveva intuito, come Gramsci aveva intuito che da questa filosofia spontanea potessero trarsi le basi per riaffermare la dignità delle classi popolari, mentre oggi il Razionale s’identifica con altro, che la demologia ancora non ha saputo (o voluto) individuare e gli Intellettuali si tengono ben lontani dal comprenderlo, mentre il reale è solo uno stantio ricordo del passato, che si manifesta nell’inconsapevole servilismo di chi, quella cultura popolare, pretende di esternarla senza sapere che, in realtà, sta solo perpetrando le istanze del potere egemonico.

 

Il turco capitalismo

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Gli algoritmi e l’intelligenza artificiale, per quanto complessi, sono però il frutto del lavoro umano, in particolare di milioni di persone invisibili che vengono sfruttate dal turco capitalismo, nell’ottica di un’automazione spesso illusoria. A margine di queste brevi considerazioni, un commento alla proposta di L.R. Lazio “Norme per la tutela e la sicurezza dei lavoratori … Leggi tutto

Gig economy, chi sono i big che comandano il mercato del food

gig economy

Per molti la Gig economy è un’opportunità e un’innovazione, per altri, come il Ministro Di Maio, un settore da regolamentare con contratti collettivi o concertazioni con le Aziende. In realtà è solo una nuova veste di un modello che punta allo sfruttamento e che porterà l’economia reale alla stagnazione e a nuovi e sempre maggiori … Leggi tutto

Hanno fatto bene a licenziare la prof che augurava la morte ai poliziotti

Lavinia Flavia Cassaro poliziotti torino

Lavinia Flavia Cassaro, l’insegnante torinese di 38 anni che il 22 febbraio scorso, durante una manifestazione, ha urlato ai poliziotti “dovete morire” è stata licenziata. Il sindacato che la difende ha ritenuto il provvedimento eccessivo rispetto alla vicenda. In realtà hanno fatto bene a licenziarla, per tanti motivi (non certo perché l’ha chiesto Renzi).

I fatti

il 22 febbraio, durante un corteo di Casapound, Lavinia Flavia Cassaro, la giovane maestra che manifestava contro il corteo, si trovò a scontrarsi con i poliziotti che garantivano l’ordine tra le due manifestazioni. Per puro caso si trovavano lì le telecamere della trasmissione Matrix, che ripresero la scena.

Cassaro augurava la morte agli agenti e, alle obiezioni del giornalista che le ricordava il suo ruolo da insegnante, lei rispondeva: “è triste sì, ma non è sbagliato, perché loro stanno proteggendo i fascisti e un giorno potrei trovarmi fucile in mano a combattere contro questi individui”.

Dopo che il caso mediatico divenne di portata nazionale, la Cassaro ribattè: “Non auguro davvero la morte a nessuno ma ero arrabbiatissima. Ho detto quello che pensavo ma è stato travisato. Mi sento stupida ho dato adito a  costruire un castello mediatico. Se fossi riuscita a mantenere  la lucidità avrei espresso meglio i miei pensieri. Mi sento in  colpa? Nei confronti dei miei compagni”. E continua: “Non avrei dovuto cadere in questi tranelli e farmi travolgere dalla passione e dalla rabbia, ma la nostra Costituzione dichiara che il fascismo è un reato e CasaPound è esplicitamente un partito fascista. Io mi sento profondamente antifascista”.

Fascismo e antifascismo

Qui preme sin da subito porsi qualche domanda di carattere generale: cos’è il fascismo e cos’è l’antifascismo? Che ruolo hanno le forze dell’ordine in tutto ciò? Da queste – apparentemente – semplici domande ne giungono altre, più specifiche e di carattere semiotico: davvero Casapound è un partito di ispirazione fascista? Davvero un appartenente alle forze dell’ordine merita di essere etichettato come difensore del fascismo o servo del sistema?

Prima di rispondere a queste domande mi preme sgomberare il campo da una sotto-considerazione che ritengo scontata: non si augura mai la morte a nessuno. Mai. Se quest’espressione, pur partendo dall’impulso e dalla rabbia, viene usata, pare evidente che faccia parte del costrutto mentale di chi l’adopera, se non del suo bagaglio culturale. In altre parole, puoi avere tutta la rabbia in corpo, ma dire “dovete morire” è l’esemplificazione, dettata dall’emotività e dall’eccitazione del momento, di un più profondo odio verso determinate categorie che vengono interpretate come nemici e servi del sistema: i poliziotti e, chiaramente, i fascisti. Già di per sé questa semplificazione derivante da convinzioni di tipo meramente semiotico a compartimenti stagni (e storicamente superata) sarebbe sufficiente ad etichettare come inadeguata all’insegnamento una persona del genere.

I fascisti

Ma ora bisogna rispondere alla prima domanda. Casapound rappresenta un partito fascista? No, affatto. Semmai è la parodia di una parodia. Il fascismo storico, in Italia, non ha mai scalfito la cultura di fondo degli italiani, dunque il loro linguaggio e le loro rappresentazioni della Realtà. Qui l’ho spiegato meglio.

Se andassimo ad analizzare le varie forme di fascismo, sin dal dopoguerra, scopriremmo che le stragi di stato, le strategie della tensione, gli attentati, l’eversione nera e i golpe, tentati e falliti o sommessamente messi in atto, altro non sono che rappresentazioni intrinseche di un potere solo superficialmente connotate da un termine che richiama il ventennio. Insomma, quelli degli anni ’70 erano davvero fascisti, ma non nel senso di eredi del ventennio. Come loro anche i brigatisti lo erano, lo erano anche i ragazzi antagonisti che occupavano (e lo fanno tutt’ora) le scuole e le facoltà.

Oggi, se dovessimo individuare i fascisti, li ritroveremmo in molte realtà, meno che in quelle che nominalisticamente lo sono. Forza Nuova, CasaPound e quei gruppetti che inneggiano in modo quasi romantico al ventennio fascista sono una parodia di una parodia durata vent’anni.

Dunque manifestare contro una parodia è qualcosa di assolutamente antistorico e privo di qualsivoglia analisi della realtà. Anche quest’aspetto fa capire come una docente, semioticamente antifascista ma culturalmente inserita in un contesto fascista, non stia manifestando contro il vero fascismo (cioè quello che le sta intorno), ma contro una parodia. Mi chiedo come faccia a insegnare a dei bambini l’analisi se poi non è consapevole di andare a manifestare contro una parodia. Perché se lo fosse, evidentemente, non ci andrebbe.

I poliziotti

E qui veniamo alla seconda domanda. Davvero un appartenente alle forze dell’ordine merita di essere etichettato come difensore del fascismo o servo del sistema?

Sarei tentato di scomodare Pasolini, quando in una sua poesia del ’68, scrisse: Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. Ma poi diventerei qualunquista, dato che quei suoi versi, un po’ ironici, provocatori e “scritti male” (com’ebbe lui stesso a dichiarare), andrebbero letti nell’hic et nunc, anche perché Pasolini stesso dichiarò: “(…) la vera rivoluzione non la faranno mai gli studenti, perché sono figli di borghesi. Al massimo potranno fare una “guerra civile”, in questo caso generazionale, in seno alla borghesia”.

Da questi due versi, dalla precisazione e leggendo tutto ciò nell’ottica dell’attualità, un fondo di verità c’è e va letto con due chiavi. La prima è talmente banale che mi pare scontata: i poliziotti sono persone che fanno un lavoro che prevede il rispetto di ordini. Eh vabbè. Concetto scontato, ma che non sempre lo è (non per gli antifascisti che inveiscono contro o per i ragazzi scemi che scrivono ACAB sui muri). La seconda è che in questo clima così liquido (mi perdoni Bauman per la semplificazione), un poliziotto può essere tanto fascista quanto antifascista e un fascista può essere più antifascista di un fascista. Un antifascista propugna gli stessi temi di un fascista (entrambi sono contro la guerra, o entrambi sono ambientalisti, per esempio) e un poliziotto può avere le stesse idee di un fascista/antifascista. So che sembra di aver detto una marea di banalità, ma il succo del discorso è che cadute le rigide distinzioni sociali e idelogiche, come si può ancora ragionare in termini di buono/cattivo quando si parla di fascismo/antifascismo e di polizia/manifestanti?

Oggi non viviamo più lo scontro dialettico tra borghesia e potere operaio, tra polizia serva del capitalismo e della repressione di Stato e movimento comunista. Non più, tutto ciò è crollato e tutti, indistintamente, siamo sotto l’egida delle regole di mercato. Il capitalismo ha fatto il suo dovere e ha terminato la sua opera egemonica. E quindi a che serve prendersela con un poliziotto che, allo stato attuale, potrebbe essere – culturalmente – sullo stesso piano di un antifascista?

Gli antifascisti

E qui veniamo agli antifascisti moderni. Se quelli della Resistenza lottavano contro i fascisti storici e l’occupazione nazista, se quelli del ’68 ebbero a lottare contro la borghesia, quelli di oggi cosa rappresentano? A parlare di temi socio-economici o geo-politici, non vedo molta differenza tra gli uni e gli altri. Non è un caso che il M5S abbia fatto del qualunquismo (destra e sinistra non ci sono più) il suo cavallo di battaglia e non è un caso che le accuse di fascismo rivolte a Salvini facciano un buco nell’acqua. Già, perché a sentir parlare gli antifascisti sembra che siano rimasti a Windows 95 mentre oggi si parla di Cloud computing. Su numerosi temi l’antifascismo odierno è diventato mero buonismo (vedi l’accoglienza indiscriminata e anti-analitica delle migrazioni) oppure conservatorismo nominale (opporsi ad una via intitolata ad Almirante o a gadget che richiamano al fascismo storico). Essere legati ancora all’antifascismo nominale è un’operazione che allontana sempre più la gente dalla critica e l’avvicina al populismo.

Non mi pare di aver letto grandi proteste quando Oettinger disse “saranno i mercati a insegnare agli italiani a votare bene”. Eppure questa frase dovrebbe rappresentare, oggi, il leit-motiv dell’antifascismo, ossia l’opposizione a quel nemico (invisibile) che dovrebbe spingere gli antifascisti ad aggiornare il proprio background culturale. E invece quella frase è passata inosservata, quando avrebbe dovuto scatenare le proteste di chi comprende il vero ed essenziale problema che ci attanaglia. Vorrà dire che non è stato ancora capito. Ma lo ha capito bene – udite udite – proprio Bertinotti, quell’ex comunista che è stato tacciato di cattolicismo ciellino ma che, invece, ha colto bene il nocciolo della questione e mi pare più comunista (passatemi il termine) di tanti antifascisti nominali.

Insomma, per concludere e tornando al punto dell’articolo, hanno fatto benissimo a licenziare la maestra. Non perché urlava (e alcuni genitori dei suoi ex allievi sostenevano che urlasse anche contro i bimbi), non perché andava alle manifestazioni. No, perché una persona che, a quanto lasciano trasparire le immagini e le sue dichiarazioni, non sa analizzare la realtà poi non può lavorare nel campo della formazione. Come potrebbe educare i bimbi ad usare il ragionamento se lei stessa è ancorata a vecchie e logore classificazioni che non esistono più e che sono puramente nominalistiche? Qui ci vogliono professori che insegnino ai ragazzi a ragionare, ad analizzare la realtà, insomma, a provare a essere liberi. E quest’esercizio, lo sappiamo bene, va fatto in famiglia e a scuola, sin dalla formazione primaria e senza fermarsi a semplici e indolori operazioni di facciata.

Neet e assenza di conflitto: ecco perché il fenomeno è così ampio

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L’ennesimo rapporto di Eurostat sui c.d. Neet (o néné, giovani che non studiano né lavorano), diffuso oggi, evidenzia come, anche nel 2017, la quota si attesta al 25,7%, ossia un giovane su quattro, tra i 18 e i 24 anni, non ha un lavoro né è all’interno di un percorso di studi. Su quest’aspetto siamo i primi in Europa, seguiti da Cipro (22,7%), Grecia (21,4%), Croazia (20,2%), Romania (19,3%), Bulgaria (18,6%), Spagna (17,1%), Francia (15,6%), Slovacchia (15,3%), mentre la percentuale più bassa di Neet è in Slovenia, Austria, Lussemburgo, Svezia (8% circa) e Paesi Bassi (5,3%).

I dati di per sé parlerebbero chiaro, ossia che la percentuale di Neet è proporzionata alla percentuale di disoccupazione di una Nazione e quindi la risposta parrebbe scontata: dove manca il lavoro ci sono più Neet. Ma la risposta è davvero così semplice? Se andassimo ad analizzare i dati della presenza di Neet a livello globale ci stupiremmo non poco nello scoprire che negli USA la percentuale di Neet si aggira intorno al 15% e che in Giappone, terra di tecnologie e di forte propensione al lavoro, la percentuale varia dal 20 al 25% (dati disgregati, in base alla differenza di indicatori di analisi utilizzati). Dunque la presenza di una percentuale più o meno alta di disoccupazione è indicativa, ma non è risolutiva. Ad ogni modo va prima sgomberato il campo da un equivoco che spesso aleggia tra quelli che parlano di siffatti argomenti.

Non è questione di volontà

Spesso si dà la colpa ai giovani e si dice che non hanno stimoli o che quelli che vivono al Sud (dove i tassi di disoccupazione giovanile sono i più alti in Italia) non hanno voglia di lavorare (parole dell’intellettuale Flavio Briatore). Ma non è una questione di volontà. Se affrontassimo l’argomento restando nell’alveo della volontà (e quindi di una rappresentazione parziale della realtà) non riusciremmo mai a darci una risposta e a capire perché questi giovani hanno smesso di studiare e di lavorare. Insomma, dire che non vogliono lavorare o studiare è una semplificazione talmente imbarazzante da risultare persino dannosa, in quanto ci allontaneremmo dal problema e lo risolveremmo con una semplicistica formula di rito, tanto inutile quanto priva di strumenti atti a comprenderne la portata del problema.
Direi piuttosto che i ragazzi vorrebbero lavorare. I ragazzi vorrebbero studiare. Vorrebbero, razionalmente e consapevolmente, realizzare un progetto di vita. Ma non possono.

La mancanza di conflitto e l’incapacità di elaborare la sintesi

Non voglio scomodare un profondo pensatore come Hegel, ma a sto giro ci sta. Hegel, nel suo tentativo di dare sistematicità al pensiero filosofico, individua tre passaggi fondamentali, che sono: l’essere in sé, l’essere fuori di sé e l’essere in sé e per sé, tre concetti che – sinteticamente, stando al pensiero hegeliano – possiamo ridurre in tesi, antitesi e sintesi, ossia tre passaggi della dialettica, che Hegel tenta di universalizzare per spiegare la fenomenologia della realtà. Vabbuò, qualche filosofo storcerà il naso nel leggere questa riduzione del pensiero hegeliano, ma a me serve come strumento per spiegare una cosa. Ma prima vorrei farvi ascoltare un passaggio di un’intervista a Mentana sulla disoccupazione giovanile:

Mentana, forse consapevolmente, forse no, mette in risalto un aspetto essenziale, che si ritrova anche nel pensiero hegeliano e che spiega meglio il fenomeno dei neet: “le generazioni passate, quando si trovavano di fronte a un’ingiustizia, protestavano, mentre oggi c’è un’assuefazione, che nasce proprio da una parte dell’ingiustizia”. La protesta, nel vocabolario hegeliano, era la parte dell’antitesi, ossia della negazione dell’esistente.

Dunque con la critica all’attuale si alimentava la protesta (consapevole) e si procedeva verso una negazione che avrebbe portato alla sintesi.

Più o meno la stessa cosa fu teorizzata da Marx, ma non l’ho citato un po’ perché sennò sarei tacciato di comunismo (elemento ormai antistorico, anche se sempre attuale, ma che sopravvive in modo regresso a mò di soprammobile da cacciare ogni volta che si vuol far finire una conversazione in malomodo) un po’ perché Marx ha storicizzato il suo pensiero e ha eliminato l’universalizzazione del pensiero hegeliano.

Insomma, quello che semplicemente voglio dire è che, rispetto ai nostri genitori, che hanno concretizzato il secondo aspetto della struttura hegeliana (l’essere fuori di sé), noi ne siamo rimasti fuori. E quindi siamo rimasti fregati dalla storia.

Cos’è successo rispetto ad allora?

Mentre i nostri genitori scendevano in piazza nel ’68 o nel ’78, nasceva la società dei consumi, che li avrebbe ricondotti nei ranghi, promettendo loro un benessere che si sarebbe poi sviluppato – e concretizzato – nei decenni a venire. Ma quel benessere non sarebbe durato a lungo e oggi ne vediamo le prime conseguenze. Peccato che i nostri genitori non l’abbiano ancora capito e si prodigano nell’immaginare per noi un futuro antistorico e prettamente bucolico. Un futuro che si trova solo nella narrativa sociale fino a un ventennio fa.
Loro ci hanno viziati, ci hanno narrato un futuro in giacca e cravatta o in tailleur e noi ci abbiamo creduto. Ci hanno coccolati, spingendoci a credere che fatica e gavetta sono concetti da abiurare e che sono inutili, perché il successo non si raggiunge in salita, ma in discesa.
E dunque, in poche parole, hanno sconfessato il secondo – più importante – processo di crescita e di evoluzione: la negazione, il conflitto. Senza il conflitto, la negazione, non si arriva alla sintesi e si resta in una sorta di limbo costituito dall’essere in sé, però perenne. Per arrivare all’essere in sé per sé (cioè: trovare un lavoro, terminare un percorso di studi, svilupparsi emotivamente e lavorativamente) occorre per forza passare dal conflitto. Ma quando una società edonistica e una famiglia che assimila tali valori salta questo fondamentale passaggio, qual è la conseguenza?

So che questo video non spiega molto ciò che ho appena detto, ma preso con le dovute pinzette, è nettamente esemplificativo e pragmaticamente risolutivo.

Fascismo storico e fascismo consumistico

fascismo fascista e fascismo consumistico

Ovvero un’analisi semiseria su come il fascismo fascista non abbia mai intaccato la cultura di fondo degli italiani, mentre il vero fascismo lo stiamo vivendo da 40 anni. Negli ultimi mesi leggo continuamente articoli che fanno parallelismi tra l’attuale situazione politica in molti paesi europei e, in particolare, in Italia e il fascismo. Addirittura si … Leggi tutto

Il Casus Savonis, ovvero la differenza tra ruolo politico e di garanzia

Tutti sappiamo com’è andato a finire il tentativo, da parte di Lega e M5S, di formare il Governo Conte, ad un passo dal veleggiare nel mare giallo verde, ma improvvisamente arenato sulle sabbie di Savona, non l’amena località ligure, ma un Ministro dell’Economia scelto da Conte ma categoricamente rifiutato da Mattarella. Motivo del rifiuto da parte del Presidente della Repubblica? Paolo Savona è dichiaratamente antieuro. Oddio,  lo stesso Savona più volte ha ribadito (come anche Salvini e Di Maio) di non essere antieuropeista, ma di volere, per l’Italia, un ruolo più forte in Europa. Comunque sia il niet di Mattarella è stato categorico, tanto che subito dopo ha dato a Carlo Cottarelli l’incarico di formare un nuovo Governo.

In queste ore stiamo leggendo di tutto: da accuse di impeachment nei confronti di Mattarella ad astute strategie politiche da parte della Lega di insistere sul nome di Savona per avere una scusa per rafforzare il suo appeal elettorale. Due argomenti che vorrei subito bollare sinteticamente.

Voto anticipato e strategia salviniana?

Secondo alcuni commentatori, l’irrigidimento di Salvini sulla nomina di Savona è stata una strategia per mettere al muro il M5S e mostrarsi come vittima davanti all’elettorato, in modo da rafforzare il proprio appeal elettorale e vincere le prossime elezioni che, forse, saranno indette anticipatamente. Può darsi, ma in questo pasticcio in cui ci siamo invischiati tutto può succedere, persino che il PD possa guadagnare percentuali nella prossima campagna elettorale. Quindi non mi sento di parlare di strategie così avvincenti e in parte fuorvianti.

Impeachment

Premesso che odio profondamente i termini di derivazione anglosassone, quando si parla di impeachment in riferimento al Presidente della Repubblica, nell’assetto istituzionale italiano, ci si riferisce ad una norma costituzionale ben precisa: l’art. 90 della Costituzione (su cui ci tornerò a breve), che recita: “Il presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”. Quindi sono due le forme di impeachment: alto tradimento (ossia, per esempio, cospirare con potenze straniere per sovvertire l’ordine nazionale) o attentato alla Costituzione (ossia violare più principi costituzionali e sovvertire le istituzioni costituzionali). Chiaramente non siamo di fronte a questi casi e quindi il famoso impeachment è solo una parola mediaticamente efficace ma istituzionalmente non percorribile, per non dire risibile.

Il ruolo di Mattarella

Detto ciò, l’aspetto su cui vorrei porre l’attenzione è semplice: può il Presidente della Repubblica porre un veto sulla scelta di uno o più Ministri operata dal potenziale Presidente del Consiglio? In altre parole, quando Conte è andato da Mattarella con la lista dei Ministri, quest’ultimo poteva porre il veto sulla scelta di Savona come Ministro dell’Economia? Il quesito non è di semplice soluzione, perché ci sono due ostacoli: il primo è il dettato costituzionale, molto vago sul tema, il secondo è la prassi costituzionale, per cui nella vaghezza della norma più volte i Presidenti della Repubblica, nella storia, hanno valicato il proprio ruolo, ma ciò non significa che avrebbero potuto farlo. Perché la Costituzione non va letta articolo per articolo, ma nella sua interezza.

Il dettato costituzionale

L’art.92 della Costituzione disciplina la formazione del Governo con una formula semplice e concisa: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri“. Ciò vuol dire che la scelta dei Ministri risulta dalla volontà di tre soggetti distinti: il Capo dello Stato che compie la nomina, il Presidente incaricato di formare il Governo che formula la proposta e la maggioranza parlamentare che lo sostiene. Quindi, in altre parole, il Presidente della Repubblica può al più consigliare il Presidente del Consiglio designato, ma non porre un veto esclusivo nella scelta della squadra di Governo, in quanto valicherebbe il suo confine di garante della Costituzione e dell’iter procedimentale e si porterebbe su un campo politico, ossia di scelta delle personalità che andranno a formare il Governo e che dovranno ricevere la fiducia dal Parlamento, unico organo in grado di operare una scelta politica sull’Esecutivo. Tuttavia il Presidente della Repubblica può – nel caso in cui la maggioranza parlamentare non sia esattamente solida – consigliare un’alternativa nella scelta di uno o più Ministri, ma mai porre un veto esplicito.

Già, perché un costituzionalista come De Siervo scrisse che “la disciplina costituzionale appare esplicita nell’escludere un potere del Presidente della Repubblica nella scelta dei Ministri, anche se sembra che in alcuni discussi casi vi siano state pressioni in tal senso da parte di alcuni Presidenti o almeno qualche caso di preclusione verso alcuni esponenti politici”.

Il caso Savona

Se il Presidente della Repubblica ha un ruolo di garante e può – per etichetta istituzionale – al più dare un consiglio e mai entrare nel campo delle scelte politiche, cosa succede nel caso in cui valichi il suo ruolo? La Costituzione ci dà una risposta e ci dice, sostanzialmente, due cose: che spetta al Parlamento dare la fiducia al Governo e quindi scegliere il percorso politico da intraprendere (art. 94) e che il Presidente della Repubblica è irresponsabile per tutti gli atti che compie nell’esercizio delle sue funzioni (art. 90). La responsabilità delle proprie scelte va sempre di pari passo con la volontà politica di compierle. Se la Costituzione attribuisce una irresponsabilità, allora chiaramente non dà margine di discrezionalità politica sul ruolo cui la concede.

Dalla combinata lettura delle due disposizioni si evince una cosa semplice: Lega e M5S hanno la maggioranza in Parlamento? Sembrerebbe di si. Hanno un accordo? Si. Il contratto di governo, piaccia o non piaccia (a me non piace, ma è un’altra storia), c’è stato e quindi i due soggetti politici erano pronti a governare. Avevano trovato un accordo anche sul candidato Premier, quindi bastava solo far vagliare il nascituro governo dal Parlamento. L’iter istituzionale, seppur lento, stava prendendo la sua piega, ma poi Mattarella ha posto un veto sul nome di un Ministro e – giustamente – il candidato Premier, Conte, è stato costretto a rinunciare al suo incarico. Mattarella ha travalicato il suo ruolo? Sì. Non c’è dubbio. Ha rispettato il dettato costituzionale? No. E’ evidente. L’avrebbe fatto se avesse sciolto le camere dopo che il Governo Conte non avesse ottenuto la fiducia dal Parlamento, ma in questo caso è sceso su un campo squisitamente politico: ha detto no a un Ministro. Perché? Perché, a quanto pare, non è in linea con la politica europea, perché i mercati e il debito pubblico sono in bilico e perché è necessario garantire continuità con la nostra permanenza nel sistema europeo. La scelta di Mattarella è stata una scelta politica, che spettava al Parlamento, non certo a lui.

Detto ciò, sono d’accordo con la sua scelta. Già. Anche io temo ripercussioni sulla nostra economia, anche io temo che i mercati possano subire contraccolpi a causa di un Governo populista e demagogico, anche io temo per le sorti dell’Italia nel caso in cui sia messa in discussione la permanenza in Europa (non perché l’Europa, così com’è, ci faccia bene, ma perché pesanti saranno le ripercussioni, anche in termini di stabilità sociale…), anche io ho paura del crollo degli investimenti, ma onestamente ho più paura di un assetto istituzionale anarchico, in cui – secondo valutazioni squisitamente politiche – un Presidente della Repubblica possa andare oltre al suo ruolo e prendere decisioni politiche, che non gli competono affatto. Ho paura più di questo che del crollo dei mercati. Perché? Perché se un arbitro dovesse, durante la partita, mettersi al posto dell’allenatore, fare cambi o modificare la strategia di gioco, pur restando arbitro, voi cosa pensereste? Pensereste che la partita è truccata, no? Che sta assumendo un ruolo che non è suo. Se l’arbitro diventa allenatore e inizia ad impartire ordini ai giocatori, mentre fa ancora l’arbitro, non pensate che stia influenzando la partita? E se poi fischia un fallo nei confronti della squadra che allena e che arbitra, cosa pensereste?

Quando un Presidente della Repubblica – che è irresponsabile e imparziale – fa queste scelte, fa esattamente quello che farebbe un arbitro se decidesse di fare l’allenatore. Né più né meno.

Le conseguenze

Le conseguenze di questa intrusione di Mattarella nel percorso di formazione di un soggetto politico-esecutivo (il Governo) scelto da un soggetto politico per eccellenza (il Parlamento) ha ripercussioni forti, perché al momento Mattarella, dopo aver esautorato il nascituro governo, ha dato incarico ad un soggetto terzo, non conforme alla maggioranza parlamentare, di formare un governo tecnico (balneare? pluriennale? Dipende da cosa prevarrà in Parlamento, se la volontà di maturare la pensione o la regola democratica di traghettare il paese verso nuove elezioni), l’ennesimo governo tecnico, che piace a quelli che dettano le vere regole: i neo-capitalisti, quelli che possono campare solo se vige la regola principe del capitalismo (sia essa di matrice statunitense o europea): gli sfruttatori possono arricchirsi solo se esistono gli sfruttati. Come una banca guadagna grazie allo sfruttamento del nostro mutuo, così il sistema bancario europeo può guadagnare se tiene al guinzaglio il debitore, ossia l’Italia e tutti i paesi del Sud, non soltanto un Sud geografico, ma culturale ed economico.

Non credo che il M5S e la Lega avrebbero fatto la differenza o ci avrebbero traghettati verso un benessere maggiore. Non credo nel benessere, non in questo sistema capitalista. Non credo che flat tax o reddito di cittadinanza ci avrebbero giovato. Anzi. Credo che però avrebbero dato uno scossone a questo sistema basato sullo sfruttamento, un sistema che prima o poi vedrà la morte (il capitalismo finanziario non può vivere assai, si basa su ineguaglianze troppo evidenti e su speculazioni troppo spregiudicate) e che si sostiene su un esilissimo equilibrio, per giunta messo in discussione dai precari e cangianti rapporti geo-politici globali attuali. No, Lega e M5S non avrebbero cambiato il sistema, ma basta una leggera scossa per buttare giù tutto. E quella scossa sarebbe avvenuta (e avverrà, prima o poi) anche involontariamente. E poi come lo rimetti in piedi un equilibrio precario basato sulla finanza e la speculazione? Sarà per questo che dubito che torneremo presto alle elezioni. La paura è troppa e lo spread, lo spauracchio finanziario (quindi inesistente e pilotato) ne è la prova.

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