Mark Zuckerberg, CEO di Facebook, fa mea culpa e ammette la responsabilità nel segreto di Pulcinella in riferimento alla conservazione illegale dei dati di 50 milioni di utenti da parte di Cambridge Analytica.

Pare brutto dirlo, ma l’avevo detto qualche mese fa, nell’articolo Uscite dai Social. Se decidi di entrare nel meraviglioso mondo di internet (e dei social network in particolare) devi essere consapevole che tutto quello che fai, che dici, che condividi, che scarichi, tutti i like che metti, i commenti che fai, gli articoli che leggi, le ricerche che svolgi su Google, insomma, tutta la tua vita digitale è attentamente scandagliata, analizzata, decifrata, sintetizzata e venduta ad Aziende che ci fanno un po’ quello che gli pare.

Le più “buone” di queste Aziende useranno i tuoi dati per venderti pubblicità altamente profilata su quelli che – secondo le loro analisi – sono i tuoi gusti, altre, invece, lo faranno per convincerti a fare qualcosa.

Ma le leggi le informative sulla privacy?

Quando scarichiamo un’app o apriamo una nuova casella di posta o usiamo il tasto connettiti con Facebook per velocizzare il login su un’app o un sito, abbiamo mai letto l’informativa sulla privacy? Insomma, quella lunga pappardella scritta in giuridichese, con caratteri piccoli piccoli, che sta tra la scritta “leggi con attenzione” e il coloratissimo tasto accetto? Ebbene, leggendo con attenzione scopriamo che molte di queste app possono accedere a numerose informazioni che ci riguardano, come la rubrica telefonica, i messaggi, foto e video archiviati sul cellulare e molto altro. Quanti di noi la leggono?

Si, ma se non accetto non la scarico

Ebbene sì, la bastardata (se così si può chiamare) di questi sviluppatori sta proprio in questo: se non ti sta bene la nostra privacy policy non puoi scaricare l’app. E fa niente se si tratta di un’app poco nota, ma se invece si tratta di un’app di tendenza? Cosa prevale? “Vabbè” penseremo noi “tanto non ho nulla da nascondere”. Questa è la giustificazione che sento dire più spesso quando parlo di privacy in rete. Il punto non è cosa nascondi e cosa no, ma che fine fanno i tuoi dati e se sei consapevole di essere considerato – dai big della rete – alla stregua di un prodotto che si analizza, si vende e poi si usa per farti comprare roba o farti maturare una convinzione.

Ma cos’è successo?

Christopher Wylie
Christopher Wylie

In poche parole nel 2013, un ricercatore dell’Università di Cambridge, Aleksandr Kogan, creò un’app con un quiz sulla personalità chiamato Thisisyourdigitallife. Kogan la collocò su Facebook e fu installata, in poco tempo, da circa 300.000 persone. In realtà la stupida app aveva lo scopo di ottenere i dati sensibili degli utenti e anche dei loro amici. In totale furono 51 milioni i profili sottratti senza il consenso degli interessati.

Ma che se ne facevano di questi dati?

Un certo Christopher Wylie, informatico che lavorava per Cambridge Analytica, ha raccontato la vicenda ad una giornalista del Guardian, dicendo che l’app fu ideata per creare pubblicità mirate e politicizzate, in particolare per influenzare gli elettori alle presidenziali americane e al referendum sulla Brexit.

E Facebook che c’entra?

Mark Zuckerberg
Mark Zuckerberg

Niente. Più o meno. L’unica colpa di Facebook è stata quella di non aver saputo controllare l’accesso alle informazioni da parte degli sviluppatori. Per capire meglio il concetto, va spiegato che sul noto social è possibile, da parte di qualsiasi sviluppatore, creare app direttamente all’interno della piattaforma oppure all’esterno e integrarle nel social. In questo modo si può permettere agli utenti, per esempio, di giocare a candy crush o a tressette oppure di fare quegli stupidi test che – guardaunpo’ – servono appunto a capire e carpire i nostri gusti e la nostra personalità. Dunque Cambridge Analytica non ha fatto altro che creare un’app sfruttando le falle di sicurezza di Facebook per ottenere dati da analizzare, sintetizzare e rivendere per influenzare la gente. Quando Zuckerberg se n’è accorto, poco tempo dopo, ha ristretto la privacy degli utenti e ha chiesto all’Azienda di eliminare i dati. Cosa che, però, non ha fatto. Senza la testimonianza di Wylie quei dati sarebbero ancora rimasti conservati (anche se dati di qualche anno fa sono ormai vecchi nel mondo digitale).
Zuckerberg, ieri, è finalmente uscito dal silenzio e ha commentato “si è trattato di una pesante violazione di fiducia e sono davvero dispiaciuto dell’accaduto (…) abbiamo una basilare responsabilità di proteggere i dati delle persone e se non siamo in grado di farlo, allora non meritiamo di avere l’opportunità di essere al servizio della gente”.

A causa di questa leggerezza nel trattare i dati degli utenti, Facebook oggi ha perso molti soldi in borsa, ma sicuramente non perderà appeal tra gli utenti.

Perché?

Perché con più di 2 miliardi di utenti attivi e numerosissime Aziende di tutto il mondo che hanno investito milioni in pubblicità sul social, è impensabile, al momento, che Facebook possa perdere quote di utenti e, forse, anche quote di capitale. E’ vero che Facebook ha bruciato in 2 giorni 35 miliardi di dollari (sui 500 miliardi di capitale del colosso), ma è anche vero che questi soldi li recupererà in breve tempo con allettanti promozioni sulle inserzioni.

Algoritmi, fake news e influenze

Dunque Cambridge Analytica ha “rubato” dei dati e li ha usati per influenzare l’elettorato. E’ stata scoperta l’acqua calda digitale. Secondo voi i social cosa fanno tutto il giorno?
Twitter si basa sui trend degli hastag e permette a pochi (agguerriti) utenti di influenzare le discussioni sul social, Youtube mette in risalto i video di tendenza, basati sul numero di visualizzazioni e quindi su contenuti sensazionalistici e spesso fake, e ci propina video basati sulle nostre ricerche precedenti. Facebook usa EdgeRank, cioè l’algoritmo che seleziona i contenuti visualizzati nel news feed da ogni utente. Secondo quest’algoritmo (aggiornato di recente) sulla timeline di ogni utente vengono visualizzati i contenuti più in linea con la propria personalità o di utenti con cui s’interagisce di più. Ovviamente vengono mostrati anche i contenuti sponsorizzati profilati dagli inserzionisti. E quindi non è questo un modo di influenzare?

Ci hanno insegnato che un concetto, ripetuto più volte, anche se falso, alla fine diventa vero. La ripetitività è sempre stata, nella storia dell’umanità, la base per memorizzare e, di conseguenza, interiorizzare certi concetti. Ci sono studi centenari basati sulla ripetitività dei concetti e le convinzioni sociali e personali. Detto in altri termini, se per mesi ti ritrovi sempre sulla tua timeline di Facebook notizie sugli immigrati che si beccano 35 euro al giorno, alla fine ti convincerai che è vero e, a livello inconscio, inizierai a maturare fastidio, se non proprio odio, nei loro confronti. Questo meccanismo avviene indipendentemente se le notizie siano vere o false, ma è chiaro che le fake-news scritte con titoli sensazionalistici e immagini o video carichi di pathos, arrivano prima all’obiettivo.

Social e media tradizionali

Il concetto che ancora a molti sfugge è che i social seguono sempre le stesse dinamiche dei media tradizionali, pur in un contesto e con una meccanica diversi. Come la radio ha influenzato la gente negli anni ’30 (famoso è l’esperimento di Orson Welles che, per radio, convinse milioni di americani che era in corso un’invasione aliena) e la TV dagli anni ’60 ad oggi (basta vedere com’è nato il berlusconismo), così i big di internet (e dei social in particolare) influenzano la gente, ma in questo caso illudendola di avere il controllo dei propri contenuti.

Perché se è vero che i media tradizionali trasmettono messaggi massificati e gli utenti li recepiscono passivamente, è anche vero che sulla rete gli utenti sono attivi e credono di avere il controllo di ciò che fanno, ma non hanno chiaro come funziona il meccanismo e che giro fanno i contenuti che pubblicano, i siti che visitano o le ricerche che fanno.

E allora che fare?

Uscire dai social, come è stato consigliato addirittura dal fondatore di WhatsApp e da numerosi altri guru della rete? Si, ma non basta. Perché ormai siamo talmente imperniati sul web da uscirne con difficoltà. Come faremo senza WhatsApp, Messenger, Instagram, Youtube o i giochini stupidi? L’unica è, al momento, essere consapevoli che tutto ciò che facciamo in rete ci sarà risputato sotto forma di inserzione o di contenuto profilato ma che è la rete stessa, se usata consapevolmente, a fornirci gli anticorpi per resistere alle influenze. Perché la rete non va confusa con chi la abita. La rete è neutra, è chi ci vive che può corromperla o progredirla. E se noi siamo sfruttabili in massa, in massa abbiamo il potere di gestirla. Basta esserne consapevoli.

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