Ecco perché Salvini è il politico più capace

salvini e fedriga

Il risultato elettorale in Friuli, che vede Massimiliano Fedriga con il 57% delle preferenze, non ci stupisce affatto. E non stupisce nemmeno il crollo del Movimento 5 Stelle che ha perso, in Friuli, quasi 15 punti percentuale rispetto alle scorse politiche. Non stupisce non perché, come qualcuno dice, ormai il M5S ha perso appeal tra l’elettorato. No, affatto. Il motivo è, banalmente quanto squisitamente, dipendente dall’ambito geografico, dal bacino elettorale nonché dal tipo di legge elettorale, ma soprattutto dal candidato, Fedriga, che rispecchia perfettamente la filosofia di fondo della Lega Nord di Salvini e ne ha assunto la capacità di linguaggio divulgativo e la lucida analisi della complessa (seppur schematicamente semplice) congerie culturale italiana d’oggi giorno.

E’ da questa capacità di analisi che parte il mio apprezzamento nei confronti di Matteo Salvini come figura politica e di tutti gli altri esponenti della Lega che, in questi anni, hanno saputo perfettamente leggere la realtà e trasformarla in slogan politici d’alto impatto. Sicuramente molti dei miei (pochi) lettori a questo punto staranno storcendo il naso oppure avranno già abbandonato la lettura. Poco importa. Chi avrà l’ardire di continuare capirà che personalmente non stimo né Salvini né la Lega Nord, che non li ho votati né credo che lo farei e, soprattutto, che la figura del politico che sa interpretare la realtà è molto distante dalla figura del politico che amministra un Paese. Da qui ne discende che occorre tener ben distinti i ruoli: non sempre la figura del politico analista e divulgatore coincide con la figura del politico amministratore. Quando avviene siamo di fronte allo Statista. Ma attualmente non credo ci siano figure tanto autorevoli nel panorama politico italiano.

Detto ciò e augurandomi di aver saputo comunicare la distinzione tra i due ruoli, non posso esimermi dal considerare Salvini un attento analista della realtà attuale. Chiunque voglia sconfiggerlo sul piano dialettico o affrontare l’ondata d’urto che la Lega prima o poi porterà nel tessuto sociale italiano dovrà anzitutto non minimizzare né demonizzare l’operato di Salvini, altrimenti ne uscirebbe sconfitto. Chi gli dà del fascista o del populista commette un ingenuo errore di valutazione.

Fermiamoci un attimo ad osservare com’è cambiata la realtà negli ultimi 40 anni.

Il mondo cambia. Superfluo documentare un fatto così grave e così esteso: cultura, costumi, ordinamenti, economia, tecnica, efficienza, bisogni, politica, mentalità, civiltà … tutto è in movimento, tutto in fase di mutamento. Così commentava Paolo VI già nel 1974 e, in una lucida analisi della realtà, si rendeva conto di come la Chiesa, ferma e rigida nei suoi immutabili dogmi, si allontanava sempre più dai propri fedeli, ormai ammaliati dai richiami edonistici del consumismo e chiusi nel proprio individualismo feroce. Sono proprio queste le chiavi di lettura che ci possono portare a scandagliare la realtà attuale e a capirne l’intima essenza: consumismo e individualismo. Il primo, giunto ormai a maturazione e figlio legittimo del pensiero unico capitalista, è la religione di tutte le religioni, è il mostro sacro per cui sono sparite – nel giro di 40 anni – intere civiltà. La Civiltà contadina, con i suoi miti e le sue regole sociali attentamente analizzati da De Martino, è stata sepolta e dalle sue ceneri è sorta un’Araba Fenice composta da un nuovo modello comportamentale: la divinazione del consumo.

L’individualismo, invece, che vede l’essere umano come monade isolata e come destinatario unico degli interessi della società del consumo, ha soppiantato le rigide e classiche forme sociali: la Civiltà contadina, come ho detto, è morta, com’è anche stata annichilita la borghesia, il ceto medio. Le classi sociali storicamente ben irreggimentate nelle loro concezioni della vita e della storia sono scomparse e al loro posto ha prevalso l’Ego. E’ chiaro che in questa liquidità della società (per usare un termine baumiano) è facile adeguarsi al conformismo di matrice capitalista, mosso dai costumi calati dall’alto, da efficaci quanto suadenti strategie di marketing (tradizionali e digitali) e improntato sulla regola aurea che muove ormai il mondo: vendere. In questo contesto la televisione, il mondo della musica, della cinematografia, i big della rete (Facebook e Google in primis che possono vantare anche l’arma della profilazione) persino lo sport sono fautori della religione delle religioni, in quanto propongono, anzi, persuadono gli utenti (non più persone) a fare del consumo un modello di vita. Da ciò ne discende che i comportamenti collettivi di massa altro non sono che forme nuove di interclassismo.

Apro una breve parentesi per spiegare meglio il concetto. Non è un caso che l’UNESCO, in questi ultimi 30 anni, abbia lanciato numerosi allarmi circa la scomparsa delle diversità culturali, ritenendo che la globalizzazione abbia disgregato il complesso coacervo culturale mondiale. La diversità culturale, minacciata dalla globalizzazione, è importante per l’Umanità quanto la biodiversità è importante in Natura. L’omologazione dei consumi, quindi, annienta le diversità e depaupera i gruppi sociali dei propri valori di riferimento, delle proprie millenarie credenze, dei miti e riti stratificati e trasmessi oralmente, delle convinzioni, della propria visione del mondo.

Inoltre non è un caso che Facebook, periodicamente, effettui esperimenti sociali per capire quante persone si conformano ad un certo richiamo. L’ho spiegato in quest’articolo. Questo lo fa periodicamente e in occasione di grandi eventi o eventi straordinari per capire quanto siano efficaci e pregnanti le proprie strategie ed, eventualmente, nell’ottica del miglioramento continuo, per modificarne i parametri.

La nuova cultura interclassista – o liquida sempre usando l’intuizione geniale di Bauman – si è quindi ormai imperniata sul modello consumista, tanto da aver naturalmente abiurato tutte le forme sociali del passato. In altre parole ha scelto il benessere, la qualità di vita migliore, l’automobile, il telefonino, il week-end al mare, i viaggi, la sicurezza del proprio patrimonio e della propria casa, insomma, il proprio modello di vita che potremmo definire liberal-consumistico. Che differenza c’è tra chi ha i mezzi per poter avere una vita agiata e chi invece non li ha? Una volta questo era un elemento del conflitto di classe, oggi invece il conflitto è sparito ed è stato soppiantato dal sogno di ottenere quei mezzi, a tutti i costi. Non più dal lavoro (non c’è) né dal sacrificio né tantomeno dal merito. Il merito viene allineato da una scuola nozionistica, in continua riforma (verso il basso) e con docenti svogliati, impreparati e impauriti, il sacrificio (o, come si diceva in passato, la gavetta) viene confuso con lo sfruttamento (e spesso mischiato) e il conflitto non può esistere se non esistono due (o più) classi con visioni diverse del mondo e della storia. Ecco che, magicamente, si spiega il perché l’unico Dio per tanti è il sogno di vincere al gratta e vinci o al superenalotto o perché tanti figli uccidono i propri genitori per ottenerne l’eredità o, peggio, qualche spicciolo oppure perché molti preferiscono lo spaccio, attività più redditizia del lavoro. Non è certo questa l’unica spiegazione, ma va vista come una chiave di lettura.

Ecco perché, infine, per molti (è inutile nascondersi dietro un dito) il reddito di cittadinanza, o d’inclusione o comunque lo si voglia chiamare, è il leit-motiv che spinge a votare, per raggiungere il tanto sognato benessere.

Cosa c’entra tutto questo con Salvini?

C’è da chiedersi come abbia fatto un personaggio a portare un partito prettamente territorialista, fermo al 4%, ad un partito ormai di fatto nazionalista che vanta il 18% di consensi, con un buon bacino elettorale persino al Sud. La risposta appare semplice quanto scontata. Ha saputo anzitutto dialogare con la gente, sia al Nord che al Sud e ha capito che le distinzioni di classe o le distinzioni territoriali sono ormai dei meri sfottò privi di qualsiasi substrato culturale, quindi è riuscito – in pochi anni – ad entrare nella pancia delle persone parlando un linguaggio comune e intercettando i desideri e le paure della gente.

Ammettiamolo pure candidamente. E’ stato l’unico, oggi, a capire che le distinzioni tra fascismo e comunismo sono ormai evidenti solo sul piano letterale e in nostalgici e sbiaditi ricordi della storia e che anch’esse si sono liquefatte e mischiate nella realtà di tutti i giorni.

Tutti sappiamo che, statisticamente, i reati commessi da italiani sono di gran lunga superiori ai reati commessi da stranieri, eppur nessuno può obiettare che la lotta all’immigrazione sia uno dei capisaldi della Lega e sia generalmente sentita come una necessità da parte di larghe fette della popolazione.

Nella storia abbiamo sempre assistito a scontri sociali. La comunità diventa compatta e coesa quando ha un nemico comune. Dai vecchi campanilismi (le lotte tra paesi) tipiche del Medioevo (e che ci siamo portati finora come retaggio) alle lotte di classe di Sessantottiana memoria, fino a giungere agli scontri Nord-Sud, nella dialettica politica degli anni Ottanta e Novanta, oggi, con una società interclassista, il nemico da combattere viene dal mare, ha un colore di pelle diverso, parla una lingua diversa e, preso dalla disperazione e dalla dicotomia tra la cultura d’appartenenza e il nuovo modello sociale d’approdo, fa – statisticamente in misura inferiore – quello che farebbe un qualsiasi ragazzo italiano alla ricerca disperata di soldi: delinque. Ne ho parlato brevemente in un vecchio articolo sullo Ius Soli.

Individuare un nemico comune, parlare un linguaggio semplice e comprensibile, stare tra la gente e capirne bisogni e desideri, questo è ciò che Salvini ha fatto, in modo talmente semplice da essere rivoluzionario. Perché mentre gli altri partiti (e persino la Chiesa, fino al 2013) ancora non avevano ben chiara la portata rivoluzionaria del modello capitalista, che ha sfalciato via le classi sociali, la Lega di Salvini, con un certosino lavoro sui territori, ha ben capito tutto ciò e l’ha tradotto in propaganda politica.

Da parte sua anche il Movimento 5 Stelle ha fatto altrettanto, solo con un grossolano errore di valutazione: non ha dato importanza alle istanze dei territori, si è affidata quasi esclusivamente alla rete come termometro sociale, quando invece la rete spesso si è dimostrata fuorviante per capire i bisogni e i desideri della gente. Le sedi territoriali della Lega, invece, a differenza dei MeetUp dei 5 Stelle, hanno rappresentato il vero termometro sociale grazie al quale Salvini ha ottenuto quei dati che, come dicono tutti gli esperti di marketing digitale, rappresentano l’unico vero strumento per operare precise strategie di marketing. E la Lega, anche rispetto al M5S, ha saputo leggere e interpretare i dati per poi offrire alla gente un prodotto appetibile e altamente profilato.

Ora vedremo se la Lega avrà (prima o poi) le stesse capacità nel gestire le Istituzioni in cui siederà. Ad ogni modo mi auguro che questo contributo non sia preso come un mero elogio alla Lega ma per quello che è: l’analisi di chi le analisi le sa fare.

Il GDPR spiegato semplice

GDPR

Il GDPR, acronimo di General Data Protection Regulation è il nuovo regolamento generale europeo sulla protezione dei dati (Regolamento UE 2016/679) che si prefigge l’obiettivo di tutelare in modo più stringente rispetto al passato la privacy dei cittadini europei e di chi risiede nel territorio europeo.

Il regolamento è già entrato in vigore nel 2016, ma sarà efficace a partire dal 25 maggio 2018, data in cui si presume che tutti i destinatari del provvedimento (ossia: Enti Pubblici, Imprese, professionisti, ecc.) si saranno adeguati alla normativa. Ma sappiamo bene che non è così e che a meno di un mese dall’inizio dell’applicazione del regolamento sono tante le persone che non ne conoscono l’esistenza o che ancora non si sono adeguate.

Quest’articolo nasce quindi dall’esigenza di spiegare in modo semplice le pratiche necessarie per adeguarsi al GDPR ed è rivolto soprattutto a micro imprese, artigiani e liberi professionisti che rappresentano la maggior parte del tessuto produttivo nazionale. Non toccherò argomenti che riguardano le PMI e le multinazionali, per cui il GDPR impone misure più stringenti, né mi rivolgerò a quelle imprese o start-up ad alto contenuto tecnologico che gestiscono numerosi dati personali degli utenti in modo da profilarli e rivenderli. L’obiettivo è quello di rivolgermi a tutti coloro che si trovano a trattare dati personali ma non ne fanno un business, ossia alla gran parte delle attività economiche italiane.

I principi del GDPR

Iniziamo col dire che i tre pilastri su cui si fonda il GDPR sono: il principio di accountability, un approccio ai dati by design e by default (tra poco ci torneremo) e una gestione preventiva in riferimento alla valutazione dei rischio e alla valutazione d’impatto sulla raccolta dei dati.

Altri principi del GDPR

Gli altri pilastri su cui si fonda il nuovo regolamento sono: Principio di liceità e correttezza del trattamento nei confronti dell’interessato (i dati devono essere corretti e ci dev’essere un consenso informato); Principio di trasparenza (i dati devono essere facilmente accessibili da parte del titolare e le comunicazioni devono essere chiare e comprensibili da parte di chi gestisce i dati); Principio di limitazione e di minimizzazione dell’uso dei dati (ossia occorre richiedere solo i dati strettamente necessari a fornire il servizio a cui l’utente è interessato); Principio di esattezza (i dati devono essere esatti e aggiornati qualora non lo fossero); Principio della limitazione temporale (i dati possono essere conservati per il tempo necessario a raggiungere le finalità perseguite da chi li tratta); Principio di integrità e riservatezza (i dati devono essere al sicuro e protetti da trattamenti non autorizzati oppure da eventuali danni).

A chi si rivolge il GDPR?

A tutti coloro che trattano i dati personali di fornitori, clienti, utenti, dipendenti, ecc. e che operano sul territorio europeo oppure al di fuori dell’Europa ma trattano i dati di cittadini e residenti nel territorio europeo. In altre parole, che tu abbia sede al di fuori dell’UE non importa, l’ambito di applicabilità del regolamento si estende a tutti coloro che hanno a che fare, direttamente o indirettamente, con i dati di qualunque persona si trovi a risiedere sul territorio europeo.

Soggetti esclusi

Gli unici soggetti che non sono destinatari del provvedimento sono le persone fisiche che trattano i dati per finalità esclusivamente personali o domestiche nonché i Tribunali penali (e le procure) per finalità giudiziarie relative al perseguimento di reati.

Il principio di accountability

Questo è il principio cardine del GDPR. Si traduce con responsabilizzazione e significa che il titolare del trattamento dei dati (che spesso coincide con il titolare dell’Azienda) ha l’obbligo di dimostrare in modo documentale l’adeguamento alle prescrizioni del Regolamento mediante l’adozione di misure tecniche (per la sicurezza dei dati) e organizzative (politiche e procedure interne, formazione del personale, verifiche periodiche, ecc.) adeguate. In altre parole si può intendere come una sorta di inversione dell’onere della prova, per cui, a differenza del passato, spetta al titolare del trattamento dimostrare di aver messo in campo tutte le misure tecniche e organizzative necessarie per conformare l’utilizzo dei dati al nuovo regolamento. La normativa, detta in altri termini, dà per scontato che in caso di perdita o furto dei dati il responsabile è solo il titolare del trattamento e a lui toccano sanzioni molto pesanti (ci torniamo tra poco).

Tuttavia il regolamento non dà indicazioni precise su quali siano le misure pratiche da adottare, ma lascia intendere che si dovrà valutare caso per caso, in base alla tipologia di organizzazione, alla natura e alle finalità dei dati raccolti.

Privacy by design e Privacy by default

Sono due principi che, di fatto, applicano il principio di accountability. Nonostante l’anglofonia ostica, vogliono dire semplicemente che bisogna adottare tutte le misure di protezione dei dati sin dalla fase di progettazione del trattamento e che i dati vanno utilizzati, per impostazione predefinita, al solo fine per cui sono stati raccolti. Così non è chiaro? Facciamo un esempio chiarificatore in relazione ai due principi.

Privacy by design

Se tu hai intenzione di aprire un e-commerce, prima di farlo dovrai stilare un documento in cui raccoglierai tutte le tipologie di dati personali che intendi raccogliere (es. nome, cognome, indirizzo, numero di telefono, email, ecc.) e indicare in che modo intendi raccogliere e proteggere questi dati (es. dicendo che li terrai su un server sicuro oppure li passerai sul tuo gestionale e, in tal caso, dovrai dire chi accede a questi dati, come sono conservati e quali protezioni stai usando in caso di un eventuale attacco hacker).

Privacy by default

In questo caso dovrai creare un documento in cui dici che i dati che raccogli sono finalizzati solo per uno o più scopi per cui tu hai dato l’informativa all’utente. Ad esempio, se l’utente ti contatta attraverso il form di contatto del tuo sito, dovrai scrivere che, di default, i dati che raccogli serviranno solo a ricontattare il cliente e a proporgli i tuoi prodotti/servizi, mentre non userai quei dati per mandargli newsletter, sempre se non ha espresso un esplicito consenso a questo tipo di trattamento. Parimenti non userai i suoi dati per vendergli pubblicità di terze parti, sempre se non lo hai reso edotto nell’informativa. Insomma, dovrai standardizzare il processo e usare quei dati solo per le finalità che ti sei prefissato e per cui hai scritto un’informativa chiara.

La valutazione del rischio

Questa è un’altra operazione che dovrai fare per rispondere al principio di accountability. In caso di un ipotetico data breach (rischio di perdita, distruzione o diffusione indebita, ad esempio a seguito di attacchi informatici, accessi abusivi, incidenti o eventi avversi, come incendi o altre calamità) come fai a recuperare i dati o a contattare gli utenti per dire loro che i dati sono andati persi o sono stati rubati? Quest’evento – anche se ipotetico e molto remoto – dovrebbe essere preventivato e scritto su carta. In altre parole devi indicare tutte le misure e le garanzie previste per una adeguata protezione dei dati personali trattati. Come farlo? Anche se sembra complicato è semplice. Rifletti: Qual è la natura dei dati che potrebbero essere violati? Quanto gravi potrebbero essere i danni  causati agli individui a cui i dati violati si riferivano? Se effettui una copia di backup almeno una volta al mese, se hai adottato protocolli di sicurezza (https) sul tuo sito web, se ai dati che hai sul gestionale non accede nessuno tranne te, allora sei apposto. Devi solo riportare su carta quello che già fai e valutare l’impatto di un eventuale (remoto) attacco nei tuoi confronti o di un’eventuale perdita di dati a seguito di un evento insolito. In altre parole devi solo valutare un ipotetico rischio e scrivere quali possono essere le cause e quali le conseguenze.

Se poi il data breach accade davvero, la norma impone che occorre comunicare la violazione all’autorità di controllo (il Garante della privacy) entro 72 ore dal momento in cui ne sei venuto a conoscenza.

Come adeguarsi al GDPR in sintesi

L’adeguamento al GDPR ti porterà via si e no mezza giornata di lavoro. Quello che dovrai fare è semplice: fermati a pensare ai dati personali che tratti: clienti, fornitori, utenti del sito web, dipendenti. Poi pensa alla natura dei dati: nome e cognome? Indirizzo? Numero di telefono? Fai una lista della tipologia di dati che tratti e metti tutto per iscritto su un foglio excel (lo chiamano registro del trattamento, obbligatorio per aziende con più di 250 dipendenti, ma comodo per te da usare in quanto è un buon promemoria per adeguarti alla normativa). Poi su un foglio word scrivi come utilizzi quei dati. Devi solo scrivere che, per esempio, i dati degli utenti che ti contattano per ricevere un preventivo saranno usati al solo scopo di inviare il preventivo. Nulla di più e nulla di meno. Dirai, nel documento, che di default (cioè in modo predefinito) tutti i dati di quelli che ti contattano per avere un preventivo saranno usati al solo scopo di inviare il preventivo. Se hai più mezzi per ottenere dei dati, lo metterai su carta. Scriverai, per esempio, che i dati degli utenti ti arriveranno da:

  • form di contatto
  • ordine sul sito web
  • ordine telefonico
  • ordine da email
  • altri sistemi

Fatto ciò dovrai scrivere sullo stesso foglio word in cui dirai ogni quante volte effettui un backup dei dati, dove li salvi e chi può accedere a quei dati. Poi dirai i sistemi che usi per conservarli. Ad esempio scriverai che salvi i tuoi dati su un hard disk esterno e che lo conservi gelosamente nel cassetto della tua scrivania a cui tu solo puoi accedere. Poi scriverai che in caso di potenziale attacco hacker o potenziale danneggiamento sul tuo sito web il rischio di perdita dei dati è minimo perché, in fondo, gestisci solo dati non sensibili, ma generici (cosa se ne fa un hacker di un indirizzo di consegna?). Ad ogni modo dovrai scrivere come prevedi di risolvere la faccenda in caso di perdita o furto dei dati degli utenti con cui interagisci.

Infine, se sul tuo sito web hai diversi mezzi di ottenere i dati (ad esempio un form di contatto e un carrello con cui accetti gli ordini) dovrai rilasciare un’informativa specifica per ogni sistema di acquisizione dei dati e scrivere quali sono le finalità dell’acquisizione e come tratterai i dati. Tra l’altro, per ogni informativa dovrai rendere edotto l’utente che è suo diritto accedere ai dati, rettificarli, cancellarli, ecc.

Se sponsorizzo la mia azienda su Google Adwords o su Facebook ads che succede?

Il GDPR ha espressamente impostato un bilanciamento d’interessi tra il diritto degli utenti e l’interesse dell’Azienda a fare marketing diretto. In altre parole possono essere trattati i dati di utenti in caso di pubblicità sui social o su google, salvo obbligare il titolare del trattamento alla minimizzazione dei dati, per cui si dovranno usare quanti meno dati possibile per la finalità del trattamento. Insomma, il nuovo regolamento mette l’utente nelle condizioni di compiere un consapevole esercizio dei poteri di controllo sui propri dati, garantendogli il diritto all’informazione, all’accesso, alla rettifica, alla cancellazione, alla limitazione del trattamento e il diritto di opposizione dei dati che lo riguardano.

Sanzioni

Le sanzioni sono pesanti. Il regolamento dice: fino a 10 milioni di euro o fino al 2% del fatturato mondiale annuo se superiore. In caso di violazione degli obblighi del titolare o del responsabile del trattamento fino a 20 milioni di euro o fino al 4% del fatturato mondiale annuo se superiore (e non il 2% o 4% del tuo fatturato, come qualcuno sostiene…). Sembrano cifre assurde, ma è capitato in passato di assistere a sanzioni comminate a piccole aziende per importi di 10.000,00 euro solo perché non avevano rilasciato un’informativa sull’uso dei cookie. Quindi non è detto che si arrivi a cifre così elevate, ma anche 1.000,00 euro di multa sono pesanti se rivolte a micro imprese.

Io non tratto dati personali

Ne sei sicuro? Il regolamento si rivolge a tutti coloro che, anche incidentalmente, trattano i dati delle persone. Quindi, per esempio, se hai un locale di generi alimentari con un impianto di videosorveglianza, dovrai adeguarti al regolamento seguendo le prescrizioni imposte a tutti gli operatori a cui è rivolto. Lo stesso vale per i dati di eventuali dipendenti o dei fornitori. Quindi il GDPR non si rivolge solo a realtà che operano su internet, ma a tutti coloro che, direttamente o indirettamente, hanno a che fare con i dati delle persone, inclusi quelli biometrici. In buona sostanza, se hai installato un impianto di videosorveglianza nel tuo negozio, dovrai adeguarti al nuovo regolamento, valutare i dati che raccogli e rilasciare un’informativa adeguata.

GDPR e Codice della Privacy

Come dice il proverbio? Fatta la legge, trovato l’inganno. Il nostro codice della Privacy (D.Lgs. 196/2003) sarà abrogato, perché i regolamenti dell’UE sono, per loro natura, direttamente applicabili presso gli Stati membri. Però tra le fonti normative sono, di fatto, sullo stesso piano delle leggi ordinarie dello Stato italiano. Quindi che succede? Succede che al momento il GDPR non sarà ancora applicato in quanto è necessario che il Parlamento crei una legge di raccordo tra la vecchia e la nuova normativa, soprattutto nelle parti in cui confliggono. Quindi, di fatto, finché non ci sarà un provvedimento normativo ad hoc il GDPR non dispiegherà tutti i suoi effetti e, paradossalmente, sarà ancora in vigore il D.Lgs. 196/2003. Difatti il 21 marzo 2018 il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto legislativo che introduce disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del Regolamento, ma ancora non è stato ultimato l’iter di approvazione nelle commissioni parlamentari e in aula. Comunque è sempre bene arrivare preparati all’appuntamento e non c’è niente per cui preoccuparsi. Il GDPR, per le micro imprese e per i professionisti, sarà un’occasione per riflettere sui dati che raccogliamo e su come li trattiamo. Il resto sarà solo vuota burocrazia finalizzata ad accontentare una normativa che per i piccoli imprenditori è solo una lieve perdita di tempo.

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Hybris e politica

icaro hybris

La hybris è la tracotanza, che sembra pervadere la politica attuale, tanto che è stata teorizzata una sindrome, chiamata appunto sindrome di hubris. I concetti dei miti e della filosofia greca, come sempre, ci aiutano a comprendere anche i fenomeni attuali. La prima volta che ascoltai il termine Hybris andavo al ginnasio, durante l’ora di letteratura greca, … Leggi tutto

La guerra in Siria spiegata semplice

guerra in siria

Come nasce la guerra in Siria? Cosa è successo dal 2011 a oggi? Perché Putin difende Assad? E soprattutto, è davvero Assad il vero nemico e quello che ammazza i suoi concittadini con armi chimiche? Un’analisi critica e di semplice lettura sul conflitto siriano. Era il 15 marzo 2011 quando, sull’onda della Primavera araba, molti … Leggi tutto

M5S e Quinto Potere. Analogie e confronti

quinto potere

Non so se Luigi Di Maio abbia ricevuto, in questi giorni, qualche telefonata da parte di Angela Merkel o di altri big reggenti dell’Unione Europea, un po’ come accadde a Napolitano quando cacciò letteralmente Silvio Berlusconi dal Governo, perché inviso in Europa, e piazzò un più europeista Mario Monti. Non ci è dato saperlo.

Ma se raffrontiamo le dichiarazioni del M5S (in primis di Di Maio) prima e dopo la campagna elettorale, scopriamo con facilità come siano agevolmente passati da essere un Movimento antisistema a un vero e proprio Partito di Governo di andreottiana memoria (mutuandone i sistemi e non l’astuzia politica).

Vorrei tanto sapere cosa ne pensa la base del M5S del possibile accordo tra M5S e PD per un governo d’intesa dopo che, per anni, i pidioti (come sono stati bollati sempre dal M5S) sono stati accusati di tramare nei palazzi a discapito dei poveri italiani.

Oggi non si parla più di trame o di inciuci, ma di accordi per governare e fare il bene degli italiani (parole di Di Maio). Vieppiù che ai vertici del M5S non importa tanto con chi si farà il Governo, se con la Lega o con il PD, importano solo due cose: che Di Maio diventi Premier e che si portino nell’Agenda politica interna ed europea i temi e le proposte voluti dal M5S, in particolare il reddito di cittadinanza. Con quali coperture finanziarie non si sa ancora e soprattutto con quali aspettative, dato che in Europa hanno velatamente fatto sapere all’Italia che i tempi della flessibilità stanno finendo e che si tornerà a breve a chiudere i rubinetti e a rimettere in riga l’andamento del debito pubblico. In altre parole, dopo una breve parentesi di illusa ripresa economica, stiamo per tornare ai regimi del fiscal compact, con tutto ciò che ne consegue.

In questo desolante quadro in cui il M5S cerca disperatamente un partner improvvisato per condividere forzosamente lo stesso tetto, non importa se bianco o nero, simpatico o antipatico, l’importante è che la poltrona di casa sia usata solo da lui, l’unico personaggio che sta dimostrando di avere senso delle Istituzioni e senso di responsabilità è quello che – toh – è stato sempre beffeggiato dalla base del M5S, ossia Sergio Mattarella. Dalle consultazioni di questi giorni emerge un Presidente con nervi saldi e un’ottima capacità di analisi, per cui non è disposto a consegnare un Paese fragile e in piena crisi politica e d’identità ad un governo improvvisato in cui una parte fa la stampella e l’altra decide le regole del gioco. Se va fatto un governo d’intesa, ci dev’essere sintesi. Questo sembra pensare ogni giorno l’unico personaggio sano delle nostre martoriate istituzioni.

Quinto Potere

La nascita e l’attuale evoluzione istituzionalizzata del M5S e di Di Maio in particolare mi richiama alla mente un film del 1976 di Sidney Lumet, Quinto Potere. Per chi non l’avesse visto, il film racconta la storia di Howard Beale, un commentatore televisivo che viene licenziato in quanto l’indice di gradimento della sua trasmissione è sceso troppo. Beale, il giorno prima del licenziamento, annuncia il proprio suicidio in diretta, che avrà luogo, dice, a una settimana di distanza da quel momento. Durante quei giorni inizia a inveire contro il sistema, denunciando le ipocrisie della società e dei media e gridando in TV le sue teorie di stampo anarchico-rivoluzionario. Grazie a una giovane responsabile dei programmi d’intrattenimento della rete, Diana Christensen, Beale viene inserito in un nuovo programma di successo e di lì a poco diverrà il pazzo profeta dell’etere.

Gli ascolti aumentano e i ritorni economici iniziano a salire, finché, ad un certo punto, Beale riceve una chiamata dal presidente della rete, Arthur Jensen. Costui, in un lungo discorso, lo convince ad adeguarsi al potere e a propagandare la sottomissione al sistema. Beale si convincerà e inizierà a cambiare registro nei suoi spettacoli televisivi, fin quando lo share non calerà e finirà drammaticamente la sua esperienza di commentatore.

Per chi non lo sapesse, Quinto potere segue il celebre film di Orson Welles, Quarto potere. Quinto potere è incentrato sul potere dei media televisivi, mentre Quarto potere sulla stampa. Si chiamano così perché seguono la ripartizione democratica dei poteri: il primo potere è quello legislativo, il secondo è quello esecutivo e il terzo quello giudiziario. Ma secondo altre interpretazioni, seguirebbe la ripartizione classica: nobiltà (oggi alta borghesia), clero e borghesia.

Analogie e confronti con il M5S

Chi ha visto Quinto potere o ha capito qualcosa dalla breve trama e dai video postati avrà sicuramente colto le analogie con quanto accade oggi in Italia.

Il M5S, al pari di Howard Beale, è stato in grado di identificare il malessere della gente e di tradurlo in comunicazione mediatico-politica. Stando fuori dalle Istituzioni e dal sistema di potere, è facile farlo ed è facile ottenere consensi. Tuttavia, nel momento in cui varca la soglia del palazzo, entra in contatto con il sistema di potere e gli equilibri che lo compongono. E’ proprio in quel momento che bisogna dimostrare la propria destrezza politica e la profonda conoscenza degli ingranaggi che muovono il complesso sistema di potere interno, europeo e internazionale, con tutte le forme intermedie e al di fuori di esso (enti, gruppi d’interesse, associazioni di categoria, confederazioni, lobby economiche, ecc.). Passare da un giorno all’altro dall’antieuropeismo al dialogo con gli europeisti più colonizzatori (Macron e Merkel in primis) oppure rassicurare i mercati che l’Italia resterà fedele al patto con l’Europa e con la Nato (questo sì che è rivoluzionario!) vuol dire essere stato persuaso dal sistema di potere che lo circonda e che l’importante è ottenere la poltrona. In ultima analisi significa adeguarsi al potere e prospettare un’azione politica che hanno sempre criticato sin dalla nascita: il riformismo. Altro non potranno fare. Che differenza ci sarà con i Governi PD degli ultimi anni o con i governi della cosiddetta Seconda Repubblica? Dov’è l’indole rivoluzionaria del M5S?

Il ruolo di Beppe Grillo

Per concludere vorrei soffermarmi un attimo sul ruolo che ha avuto e che avrà Beppe Grillo, oggi che il suo Movimento (da cui è apparentemente uscito) sta varcando le soglie del potere. Prima della nascita del Movimento, durante i suoi spettacoli, si occupava di satira e quindi di critica del potere; durante la sua reggenza del Movimento, in cui i suoi erano seduti sui banchi dell’opposizione, si poteva ancora permettere di fare satira, ma la sua restava al confine tra la satira e la propaganda politica, dato che aveva interesse affinché il Movimento raccogliesse consensi. Oggi che sembra esserne uscito, sarà in grado di criticare il soggetto politico che ha creato oppure anche lui, come Howard Beale dopo l’incontro con Jensen, farà propaganda pro-sistema? Ai posteri, come si dice, l’ardua sentenza. Ma a noi contemporanei un dubbio sorge e la risposta ci pare quasi scontata.

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Oramai oggigiorno se non sei presente in rete non ti conosce nessuno. Questo lo sappiamo più o meno tutti e soprattutto le Aziende. Con un sito web è possibile trasformare una piccola realtà locale in un brand internazionale, anche grazie alla capacità della rete di superare i limiti geografici.

E’ sufficiente, in linea di massima, aprire un sito web e uno o più profili sui tanti canali Social, in breve tempo e soprattutto gratuitamente.

Ma c’è un problema.

Rispetto a 10 anni fa il numero dei siti web presenti in rete è decuplicato. Basti pensare che solo gli e-commerce, dal 2010 a oggi, sono aumentati del 25% mentre i siti vetrina, le landing page e i blog sono aumentati del 78%. La rete offre numerose opportunità, ma per emergere e per farsi conoscere è necessario investire numerose risorse, non solo economiche, ma anche in termini di tempo e di competenze. Inoltre bisogna valutare un altro aspetto essenziale sulla presenza in rete, ossia che gli utenti del web oggigiorno vengono continuamente bombardati da contenuti, spesso commerciali, con conseguente calo di attenzione su contenuti ritenuti poco interessanti o comunque poco influenti, specie se pervenuti da brand poco noti.

In poche parole…

Che tu sia un imprenditore affermato localmente o un hobbysta che vorrebbe trasformare la sua passione in attività imprenditoriale o un artista che vuole far conoscere le sue opere al Mondo, devi per forza investire sulla rete, o con il sito web o con un canale social o, meglio, con entrambi.

Sono cambiati i tempi, è cambiato il mezzo, ma la meccanica resta sempre la stessa: se non investi, soccombi.

La pubblicità ai tempi del Marketing tradizionale

Una volta per far conoscere un’Azienda (o qualsiasi altra attività) occorreva investire un certo budget in pubblicità: dalle inserzioni sui giornali al volantinaggio ai manifesti sparsi per le città per poi passare alla radio, alle TV locali o nazionali, in base al budget e alla strategia di crescita aziendale, c’erano soluzioni di ogni tipo. A occuparsi di ciò ci pensava quasi sempre un’Agenzia specializzata in pubblicità, soprattutto quando l’Azienda si proponeva sul mercato nazionale o internazionale.

Oggi cos’è cambiato? Nulla. Sono cambiate le forme con cui fare pubblicità, ma la filosofia di fondo resta: senza investimenti in marketing non ti conosce nessuno. Oddio, per fortuna con il web è molto più economico – rispetto al passato – fare pubblicità e c’è un’unica, sostanziale, differenza rispetto alle forme di pubblicità di massa tipiche dei media tradizionali: ti puoi rivolgere ad un pubblico specifico (in gergo si dice profilazione), con conseguenti notevoli risparmi in termini economici e maggiore efficacia del ritorno d’investimento (in gergo si chiama ROI).

Il famoso cuggino che fa il sito web con pochi soldi

Per anni si è radicata l’idea che per operare on-line occorre munirsi di un sito web fatto da soli o, al più, dal famoso cuggino informatico che te lo fa per 200 euro, nella becera concezione per cui “tanto basta fare il sito, piazzare due immagini e mettere la mappa per vendere dappertutto”. Già, perché un professionista che ti chiede cifre alte per un sito web sembra un ladro in quanto in Italia c’è l’idea che il lavoro intellettuale non ha un valore economico e va regalato.

La diffusione dei Social, poi, ha amplificato questa concezione, anzi, per molti avere un sito web è sembrato persino inutile: “Tanto vendo su Facebook o su Instagram. Mi apro il profilo, pubblico le foto, i prezzi, faccio un’inserzione ogni tanto e vendo”. In realtà i Social non sono concepiti per vendere (anche se ultimamente si stanno aprendo ai Marketplaces) bensì per far interagire Aziende e utenti, per ampliare la web awarness e la web reputation nonché per attività di remarketing.

I Social, insieme ad una sapiente attività di posizionamento web e di link building, sono un ottimo strumento per far veicolare il brand, ma sono solo un sistema marginale per vendere direttamente. Chiunque pensi che sia sufficiente avere un profilo o una pagina su Facebook, uno su Instagram e un semplice sito web vetrina fatto in modo amatoriale, senza una precisa strategia, senza prevedere investimenti e senza un piano di marketing digitale, prima o poi finirà per dire che su internet non si vende e darà la colpa alla concorrenza, ai cinesi, al sovraffollamento della rete, persino a Google che lo posiziona in ultima pagina, piuttosto che a sé stesso.

Lo stato delle cose al giorno d’oggi

Difatti con l’aumentare della popolazione di siti web diminuisce esponenzialmente la possibilità di emergere, soprattutto oggi che i motori di ricerca filtrano i risultati sulla base di complessi algoritmi che tengono in conto di numerosi fattori tra i quali: la presenza di contenuti originali e in linea con quanto cerca l’utente, la presenza di parole chiave coerenti e omogenee, una struttura del sito fatta bene e che rispetta le regole in relazione al SEO (con tutti gli attributi inseriti), la velocità e la reattività del sito web, la presenza di un codice scritto bene e senza errori o ridondanze, la presenza del protocollo di sicurezza e tanto altro ancora. Sulla base di questo complesso rapporto ecco che alcuni siti web vengono mostrati prima degli altri e, nei casi peggiori, alcuni siti web non compaiono affatto nella SERP di Google.

E’ evidente che non comparire sui motori di ricerca significa non esistere affatto, con l’ovvia conseguenza che non venderemo mai i nostri cappotti fatti a mano o quell’ebook che abbiamo scritto con tanta passione.

Per ovviare a questo problema ci sono soluzioni a pagamento come la pubblicità pay-per-click, ma siamo sempre punto e a capo: se arrivi al punto di pagare per la pubblicità su Google vuol dire che hai fatto bene tutto il resto. Non attivi la pubblicità a pagamento se non hai una chiara strategia di marketing on-line.

Tempo e competenze o soldi?

Sia chiaro, non è proprio necessario pagare Google, Facebook oppure uno sviluppatore bravo o un’Agenzia di web-marketing per emergere sulla rete.

La rete, per fortuna, offre numerosissime fonti da cui imparare a fare tutto da soli, inoltre ormai ci sono molti servizi che offrono siti web già impacchettati e funzionali. Tuttavia non sempre queste soluzioni sono professionali e non sempre un imprenditore ha il tempo di imparare a fare tutto, anche perché, a dispetto di quanto si pensi, per operare in rete occorrono tantissime competenze in molti campi: dal linguaggio di programmazione (php, css, asp, java, ecc.) alle tecniche per fare buone foto, dalla capacità di scrivere testi leggibili (sia dagli utenti che dai motori di ricerca) all’editing video, dal SEO all’analisi dei dati, e tanto altro ancora.

Fare tutto da soli è possibile?

Si, ma occorre tempo e una buona dose di curiosità e voglia di imparare sempre cose nuove. Se manca il tempo o mancano le competenze (oppure non si riesce ad acquisirle) occorre prevedere un certo investimento in termini di denaro e rivolgersi a un professionista. Anzi, uno non basta, perché più è diventato complesso operare on-line e più si sono sviluppate figure professionali autonome: non è detto che uno sviluppatore di siti web sappia lavorare con il SEO o che un esperto di campagne promozionali su Facebook sia in grado di leggere i dati di Google Analytics (il più importante mezzo per studiare l’efficacia di un sito web). Dunque un solo professionista non basta, occorre rivolgersi a diverse figure.

Come riconoscere un Professionista valido

Per farlo occorre prima chiedersi: cosa voglio ottenere dalla mia presenza in rete?. Voglio più vendite? far veicolare il mio brand? Oppure che la gente scarichi e condivida le foto delle mie opere? Voglio che si iscrivano ad una newsletter per offrire loro le mie conoscenze sul settore in cui opero? O farmi conoscere da un pubblico locale perché ho – chessò – un’autocarrozzeria e voglio ottenere più clienti? Oppure voglio emergere sui mercati internazionali? Senza una chiara strategia sarà molto difficile trovare il professionista giusto e scartare quelli che non servono.

Questo è il primo campanello d’allarme: se trovi qualcuno che ti dice: ok, facciamo tutto noi senza nemmeno avergli spiegato di cosa hai bisogno (perché, forse, non lo sai ancora nemmeno tu…), allora hai di fronte uno dei tanti millantatori che ultimamente si spaccia per un professionista del web. Già, perché un asso piglia tutto che si occupa di sviluppo, grafica, campagne social, SEO-SEM, persino di stampa volantini è, molto probabilmente, solo un povero disperato che ha imparato a fare i siti con WordPress e ti farà solo perdere soldi (che a te sembrano pochi in confronto ad altri professionisti, ma sono solo soldi buttati).

Quindi armati di pazienza, cerca tanto e non ti fermare alla prima agenzia sotto casa che ti chiede poco e ti fa tutto.

Sviluppo sito web

Questo è il primo aspetto da considerare. Oggi troverai migliaia di agenzie o singoli sviluppatori che si occupano di realizzare siti web. Ma come riconoscere quelli migliori? Anzitutto fatti mandare il loro portfolio (cioè i siti che hanno già fatto). Come ti sembrano? Lascia perdere la grafica, concentrati sull’usabilità. Hai provato ad aprire uno dei loro siti con lo smartphone? Il sito è responsive (ossia si adatta alle dimensioni dello schermo)? Se non lo è, scartalo subito. Ancora, hai analizzato la velocità del sito? Con un semplice tool di Google (questo) puoi analizzare la velocità del sito e ricevere un rapporto dettagliato sui problemi da risolvere. Se non ha nemmeno ottimizzato le immagini, salutalo. Non è un professionista. Conosco gente che non si cura nemmeno di cambiare la favicon (ossia l’icona che trovi in alto a sinistra sulla scheda del browser) e mi basta questo per considerarli degli sfigati che si spacciano per professionisti.

Dunque nello sviluppo del sito devi tener presente:

  • velocità e reattività
  • usabilità (anche da mobile)
  • omogeneità strutturale
  • omogeneità grafica

Non importa se lo sviluppatore farà il sito da zero o userà un CMS (tipo Joomla, WordPress, ecc.), l’importante è che faccia un buon lavoro con un codice pulito, prestazioni accettabili e un’usabilità sia in termini di navigazione che di grafica.

SEO del sito web

Per molti pseudo-professionisti il SEO equivale solo a inguacchiare il sito di molte parole chiave buttate a casaccio nell’idea per cui più parole chiave si mettono e meglio è. In realtà Google e tutti i Big della rete stanno ormai abbandonando gradualmente il concetto di key-word per abbracciare una filosofia che porti a ottenere risultati sempre più vicini alle ricerche dell’utente. In altre parole stanno finendo i tempi in cui scrivevi “rivenditore caldaia Cagliari” e ti comparivano i risultati di negozi o e-commerce che dappertutto stanno meno che a Cagliari. L’esperienza utente è al centro dell’attività di Google e gli spider di Google vengono continuamente aggiornati in modo da premiare i siti con key-word omogenee e penalizzare i furbi. Quindi attenzione a chi tratta con leggerezza il SEO.

Fai una ricerca per immagini su Google e non compaiono i tuoi prodotti? Chiedi spiegazioni a chi ha realizzato il tuo sito e forse scoprirai che non sa nulla di SEO…

Quindi sul SEO devi almeno valutare:

  • tipo di parole chiave usate e coerenza con il testo
  • presenza di contenuti nei tag title, metatag title, metatag keywords, metatag description, alt image e image description
  • densità delle parole chiave all’interno del testo

Un buon professionista spiegherà il senso di tutto ciò e ti darà un sito web con tutti questi attributi compilati in modo coerente.

Social Media

Se ti rivolgi a un’Agenzia per migliorare la tua presenza sui social e ti farà un discorso del genere: “ti promettiamo 10.000 like in 3 mesi al modico prezzo di 1000 euro”, beh, scartala subito. I like o i follower sono importanti, certo, ma non così tanto come pensi. Perché tutto dipende da quella che è la tua strategia. Se a te interessa aumentare le vendite del tuo shop on-line non è detto che molti like faranno al caso tuo. Magari te ne serviranno pochi, ma mirati. Magari per te servirà una strategia di lead generation o di remarketing e non una volta a far conoscere la tua pagina o il tuo profilo.

Quindi se un’Agenzia ti promette tanta popolarità, magari senza ascoltare le tue esigenze, non è seria. Va scaricata. Inoltre fatti dire quante e quali campagne hanno già realizzato. Sai che su Facebook ci sono 11 format pubblicitari? Non esiste solo la sponsorizzazione di un post, ma se fanno solo quella, allora sono degli improvvisati esperti di campagne social. Poi, anche se Facebook è il social più grande in assoluto, non è detto che sia il solo che faccia per te. Ti hanno mai parlato di campagne di successo su Linkedin o su Twitter? Se ti propinano solo campagne Facebook, senza prima analizzare la tua attività e le tue esigenze, allora lo ribadisco: scaricali. Meglio perdere tempo per cercare altri professionisti piuttosto che perdere soldi.

Foto / Video

Se hai un e-commerce avrai sicuramente bisogno di fare le foto ai tuoi prodotti. A dispetto di quanto comunemente si pensi, le foto in still-life di prodotti inanimati sono quelle più difficili da fare. Anche in questo caso puoi fare le foto da te, ma prima pensa alla regola fondamentale di ogni e-commerce: senza una buona foto, non vendi. Non occorre essere Steve McCurry per fare buone foto. Occorre solo:

  • una macchinetta fotografica che abbia le impostazioni programmabili (tempo di esposizione, bilanciamento del bianco, ecc.), quindi anche una semplice compatta va bene. Escluderei l’uso di Smartphone
  • almeno 3 luci con lampadine della stessa temperatura (calde o fredde non importa, tanto con il bilanciamento del bianco s’aggiustano i colori)
  • uno sfondo neutro (anche un tavolino e una parete)
  • un programma di ritocco foto (Photoshop e Gimp sono i migliori)

Se non hai quest’attrezzatura o non hai tempo per fare le foto, devi rivolgerti a un professionista. In questo caso qualsiasi fotografo dovrebbe essere in grado di fare foto da studio fatte bene. Per capire se ha competenze di foto still life, fatti mandare una foto di un oggetto bianco (meglio se lucido) su uno sfondo bianco, che rappresenta la paura più grande di ogni fotografo! Se la foto ti sembra soddisfacente, assumilo pure!

Copywriting Contenuti nel sito web

Mai sottovalutare quest’aspetto. La scrittura di testi sul web è una vera e propria arte. Non si tratta solo di saper scrivere, ma di saper scrivere testi leggibili sia dagli utenti che dagli spider dei motori di ricerca! E’ un’arte che sta tra le capacità di scrittura creativa e le capacità di SEO. Inoltre avere dei contenuti originali sul web equivale a superare ogni forma di concorrenza. Evita il copia-incolla, sia perché se ti sgamano ti possono contestare la violazione del copyright sia perché ogni forma di copiatura può essere segnalata a Google con la punizione di vedersi scendere il sito sulla SERP. E questa è la peggiore delle punizioni!

Trovare un professionista che sappia scrivere dei testi efficaci non è facile, ma la maggior parte delle volte questa figura coincide con l’esperto di SEO-SEM.

In conclusione

Mi auguro che questi semplici suggerimenti possano esserti utili per scegliere con cautela e consapevolezza a chi rivolgerti, perché lavorare sulla rete offre molte opportunità, ma oggigiorno offre anche tante fregature, soprattutto per chi si rivolge con leggerezza all’Agenzia sotto casa, senza una precisa strategia e senza molte conoscenze in materia. Quindi chiediti cosa vuoi ottenere, rifletti su quali sono le tue esigenze, poi cerca sul web e magari scoprirai che puoi fare tutto da te oppure che ti servirà l’aiuto di un professionista, ma quando gli spiegherai con chiarezza le tue esigenze, capirai da te se è un dilettante oppure un esperto e ti stupirai di quanto ti sarà facile intuirlo, perché quando sarai in grado di sapere ciò che ti occorre, sarà una passeggiata capire se chi hai di fronte può soddisfare le tue richieste oppure no.

E’ Fico rinunciare alle indennità (peccato che è demagogico)

roberto fico presidente indennità

A quanto pare il neo eletto Presidente della Camera, Roberto Fico, appena insediato ha subito scritto una lettera a nonsobenechi per rinunciare all’indennità prevista per la figura del Presidente della Camera. Che bravo uaglione. Ecco il suo post.  Peccato che però questa bella letterina l’avrebbe dovuta scrivere a sé stesso. Già, è lui quello che … Leggi tutto

Facebook vi ruba i dati? Avete scoperto l’acqua calda digitale

facebook acqua calda

Mark Zuckerberg, CEO di Facebook, fa mea culpa e ammette la responsabilità nel segreto di Pulcinella in riferimento alla conservazione illegale dei dati di 50 milioni di utenti da parte di Cambridge Analytica. Pare brutto dirlo, ma l’avevo detto qualche mese fa, nell’articolo Uscite dai Social. Se decidi di entrare nel meraviglioso mondo di internet … Leggi tutto

Le Aziende italiane e la lenta digitalizzazione

carlo calenda digitalizzazione

Oggi tutti parlano di Industria 4.0, ma molte Aziende sono ancora ferme a vecchi modelli di business. La digitalizzazione? Per molti è solo una pagina su Facebook e messaggiare con i clienti tramite WhatsApp.

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Quello che vedete in foto è Carlo Calenda, Ministro dello Sviluppo Economico sotto il Governo Gentiloni. L’ultima sua iniziativa a favore della digitalizzazione delle imprese italiane è stata l’istituzione di un voucher a fondo perduto finalizzato all’adozione di interventi di digitalizzazione dei processi aziendali e di ammodernamento tecnologico. Con quest’iniziativa il Ministero intende finanziare tutte le imprese italiane, che ne facciano richiesta, per attività volte a:

  • migliorare l’efficienza aziendale;
  • modernizzare l’organizzazione del lavoro, mediante l’utilizzo di strumenti tecnologici e forme di flessibilità del lavoro, tra cui il telelavoro;
  • sviluppare soluzioni di e-commerce;
  • fruire della connettività a banda larga e ultralarga o del collegamento alla rete internet mediante la tecnologia satellitare;
  • realizzare interventi di formazione qualificata del personale nel campo ICT.

Il voucher copre la metà dell’investimento, fino a un massimo di 10.000 euro. E’ scaduto a metà febbraio e pochi giorni fa è stato pubblicato l’elenco delle aziende finanziate.

A fare richiesta del voucher digitalizzazione sono state quasi 95.000 imprese.

Questo dato mi ha fatto riflettere.

L’Italia conta 4.400.000 imprese attive (fonte ISTAT). Cioè, quasi 4 milioni e mezzo di imprese che funzionano (perché di imprese inattive ce ne sono molte di più). Ciò significa, all’incirca, un’impresa ogni 13 abitanti, anziani e bambini inclusi. Un così alto numero d’imprese è sempre un buon segno, perché – nonostante la crisi economica degli ultimi anni – dimostra che da Nord a Sud ci sono tanti italiani che hanno voglia di fare impresa e di mettersi in gioco. Ma il dato delle Aziende che hanno partecipato al bando è significativo di quanto siano ancora poco avvezze al concetto di digitalizzazione. E attenzione, perché il bando non imponeva alcun tipo di vincolo, quindi poteva partecipare chiunque.

Ora, a parte l’ovvia considerazione che molte imprese abbiano rinunciato a partecipare al bando per via del misero importo finanziato (solo 100 milioni di euro) oppure per evitare le solite rogne burocratiche legate all’ottenimento del voucher, c’è però da dire che il 2,2% delle imprese attive che hanno partecipato al bando è un dato estremamente basso rispetto alle aziende sconfortate e quindi va letto in un’ottica diversa, ossia che le aziende italiane, soprattutto quelle vecchie e quelle B2B (ossia imprese che si rivolgono solo ad altre imprese), sono ancora solidamente ancorate a stantie logiche di business.

Basta farsi un giro tra i siti web di imprese B2B, che, per esempio, hanno come business la produzione di macchinari per altre imprese. Siti vecchi e statici, lenti, con immagini minuscole e chiaramente non adatti alla navigazione mobile. Se provi a contattarli dal form (quando c’è), non ti rispondono mai. Segno che non guardano la mail oppure non fanno manutenzione al sito web.

Insomma, molte grandi Aziende B2B guardano a internet come a una semplice vetrina, senza curarsi dell’interazione con vecchi e potenziali nuovi clienti.

La mail, questa sconosciuta

Le mail sono il mezzo più veloce ed economico per comunicare con un’Azienda. Eppure ci sono moltissime aziende che non le usano, perché preferiscono i vecchi metodi di contatto con i clienti: telefono e appuntamenti dal vivo. Chiedere loro di farti mandare un listino via mail è cosa impossibile. Ti diranno: fissiamo un appuntamento. Se tu vivi a Torino e l’Azienda è di Napoli, qual è il vantaggio in termini economici e di tempo? Tu o loro spenderete inutilmente soldi e tempo per un appuntamento dal vivo che si sarebbe risolto con l’invio di una mail.

Ultimamente, però, con l’avvento di WhatsApp, le Aziende hanno saltato a piè pari i mezzi canonici del web rappresentati dalle mail, passando direttamente al sistema di messaggistica tramite smartphone. Molti però ne fanno un uso così promiscuo da inviarti, insieme al materiale lavorativo, anche le foto dei loro figli o le meme più stupide che ricevono da amici e parenti. Anche questo è un segno di quanto molte Aziende, anche grosse, non hanno idea delle potenzialità della rete e non sanno distinguere la realtà lavorativa da quella personale.

Il commercio e il manifatturiero

Il maggior numero di imprese attive in Italia fanno parte di queste due categorie: commercio e manifatturiero. Le prime sono circa 1 milione, mentre nel manifatturiero (che comprende il famoso e celebrato Made in Italy) sono attive più di 300 mila Aziende. Se nel settore del commercio si registra un più vivace utilizzo dei canali web (in particolare siti di e-commerce e vetrine social), il manifatturiero soffre ancora di un abisso mostruoso in termini di innovazione. Gran parte delle Aziende hanno attivo solo un canale social e un sito web realizzato con vecchie metodiche e aggiornato solo (e forse) nell’aggiunta di nuovi prodotti. Il mobile-friendly, per queste Aziende è ancora un concetto sconosciuto e le comunicazioni avvengono solo tramite WhatsApp. Altro che digitalizzazione.

Il famoso “cuggino”

L’idea che internet sia un qualcosa che “forse funziona, ma boh?” è esplicitata dal fatto che numerosissime Aziende si rivolgono a improbabili e improvvisati sviluppatori per farsi fare il sito web, nell’ottica del maggior risparmio possibile e con l’idea che “il sito ce l’hanno tutti, me lo faccio anch’io, ma voglio spendere poco”. Se uno sviluppatore serio, consapevole del lavoro che c’è dietro la creazione di un sito web efficace, arriva a chiedere anche 10.000 euro per realizzare un lavoro fatto ad arte, un Imprenditore poco avveduto penserà che tale richiesta è una truffa, in quanto il cuggino (o l’amico o lo sviluppatore paesano, che ha aperto un’agenzia improvvisata) ha chiesto solo 500 euro. Ed è così che ci si ritrova con siti fatti in 5 minuti con Joomla o WordPress, senza alcuna ottimizzazione, senza alcun lavoro sul SEO e senza curarsi nemmeno di cambiare la favicon. Alla lunga, quando il nostro Imprenditore si accorgerà di non vendere nulla su internet, dirà che internet non funziona, che il suo prodotto non funziona sulla rete e che è inutile spendere soldi per il web-marketing. Non penserà che il cuggino ha fatto un lavoro da schifo e ha solo fatto perdere 500 euro all’Imprenditore.

Forse è anche per questo motivo che molte Aziende hanno snobbato il voucher per la digitalizzazione, perché pensano che internet non funziona.

Non credo nelle sponsorizzazioni e su Facebook ci sto solo perché mi hanno detto che serve, ma non vendo

Tra le Aziende presenti in rete, molte hanno deciso – ultimamente – di aprire una fan page su Facebook, perché boh? lo fanno tutti e pure io. Chiaramente, senza una strategia, senza una visione di ciò che l’utente del web cerca, senza budget e senza misurazioni dei risultati, non si va da nessuna parte. Ecco che ti ritrovi brand famosi (o comunque radicati nella realtà produttiva di un territorio e noti in zona) con 400 like o pagine che hanno speso un mucchio di soldi per promuoversi su Facebook, con 10.000 like ma zero interazioni.

E’ chiaro che con queste politiche di marketing non venderai. Perché in rete l’utente cerca informazioni, divertimento, coinvolgimento. E se tu, Azienda, pensi di comunicare usando vecchi sistemi di marketing, non otterrai mai un lead, ossia una conversione da utente a potenziale cliente. E’ il meccanismo ad essere diverso da come lo si interpretava fino a un decennio fa e non è così difficile da interpretare, basta solo pensare che la gente, su internet, e soprattutto sui social, non è un telespettatore a cui propinare passivamente una pubblicità, ma un utente attivo, che cerca, che confronta, che si informa e chiede rassicurazioni. Sarà per questo che Facebook ultimamente dà importanza al tempo di risposta dei messaggi o che Google propone i risultati più pertinenti alle ricerche degli utenti.

Giusto per concludere…

Con un paradigma da web 1.0 o da “al massimo uso WhatsApp per comunicare con i miei clienti”, non si va da nessuna parte.

Quindi, sì, internet funziona, per quasi tutte le categorie merceologiche. Insomma, puoi vendere di tutto. Però va usato con approcci diversi dal vecchio sistema di marketing e soprattutto va usato secondo metodiche nuove, più rivolte alla comunicazione, alla personalizzazione, al rapporto diretto con gli utenti. Ma mi rendo conto che questo tipo di approccio sarà adottato dalle nuove generazioni di imprenditori, perché quelli attuali sono ancora presi dal dare colpa alla crisi, mentre inviano ai propri clienti, su WhatsApp, l’ultimo video del criceto affamato e non immaginano quanti vecchi e potenziali clienti li bloccano, erodendo quote di fatturato e reputazione on-line. L’unica che oggi conta.