La fattura elettronica è una cagata pazzesca

fattura elettronica

Ebbene, siamo agli sgoccioli. Il 1 gennaio 2019 non sarà un giorno di festa per milioni di contribuenti, i quali dovranno iniziare l’avventura – tutta italica – della fattura elettronica.

In Europa siamo gli unici ad usarla, eccezion fatta per il Portogallo, in cui si usa solo in specifici casi. Se siamo gli unici, un motivo ci sarà. Qual è il motivo? E’ semplice: la fattura elettronica è inutile, fa perdere tempo, non porta alcun vantaggio alle Aziende e comporta una spesa in più.

Cos’è la fattura elettronica?

La fattura elettronica è un sistema digitale di emissione, trasmissione e conservazione delle fatture create in uno specifico formato (XML) che si basa sulla creazione di un file digitale, trasmesso attraverso un portale predisposto dall’Agenzia delle Entrate mediante un codice identificativo e/o una casella di posta elettronica certificata (PEC).
In altre parole con questo nuovo formato l’Agenzia delle Entrate fa sia da “postino”, garantendo la presa in carico della fattura e la consegna, sia da “controllore”, in quanto ha accesso in tempo reale al contenuto del documento, quindi può vedere chi l’ha emessa, chi la riceve, cosa è stato acquistato e quanto si è speso.

Soggetti coinvolti

I soggetti coinvolti sono: emittente (o fornitore), Sistema di Interscambio (Agenzia delle Entrate) e destinatario (cliente b2b, Privati e Pubbliche Amministrazioni).

Ma vediamo nel dettaglio vantaggi e svantaggi di questo nuovo sistema.

I vantaggi

La maggior parte delle volte sentirete dire che questo sistema combatte il nero e lo spreco di carta, dato che non saranno più previste fatture cartacee. Falso.
Chi finora ha lavorato in nero continuerà a non emettere fatture, mentre lo “spreco” di carta viene già abbondantemente superato dall’emissione delle semplici e funzionali fatture in PDF. Perché oramai la maggior parte delle Aziende si serve di sistemi gestionali che generano documenti in PDF i quali sostituiscono pienamente la fattura cartacea. Sarebbe stato sufficiente implementare questo sistema così snello e veloce.

Tra l’altro, facendo più prove, ne risulta che per emettere una fattura in PDF con un qualsiasi sistema gestionale occorrono circa 20/25 secondi, mentre per emettere una fattura in formato elettronico (XML) occorrono almeno 3 minuti e non è neanche detto che l’invio della fattura attraverso il sistema di interscambio dell’Agenzia delle Entrate vada a buon fine, perché possono generarsi errori (di battitura, di connessione, ecc.) che provocano un problema e le possibilità di essere sanzionati per errori involontari aumentano, dato che l’Agenzia delle Entrate, con questo sistema, ha accesso diretto al contenuto del documento, cosa che non avveniva in passato.

Dunque il vero vantaggio non ce l’ha il contribuente (anzi, a lui spettano tutte le rogne), bensì l’Agenzia delle Entrate, la quale può controllare in tempo reale tutte le transazioni, il contenuto dei documenti, cosa ha acquistato il cliente e quanto ha speso. Altro che spesometro! In questo modo l’Agenzia delle Entrate può spiare senza alcun limite tutte le nostre abitudini d’acquisto, entrando anche nel merito delle nostre scelte.

Come avveniva finora?

Finora l’Agenzia delle Entrate aveva accesso solo alla somma delle fatture emesse/ricevute e solo in caso di accertamento poteva vedere il contenuto dei documenti. Dal 1 gennaio invece potrà effettuare in tempo reale qualsiasi controllo, saprà cosa abbiamo acquistato e potrà fare controlli incrociati anche per conoscere le abitudini di consumo di ogni persona. Questo perché – a differenza del passato – l’obbligo di fatturazione elettronica vale anche nei confronti dei privati.

I possibili errori

Fino ad ora era possibile correggere una fattura sbagliata. Oggi non più.

Mettiamo il caso che abbia sbagliato ad inserire un’aliquota IVA su una fattura già inviata al cliente. Fino ad oggi potevo avvertire il cliente, renderlo edotto dell’errore, correggere quest’ultimo e poi emettere la stessa fattura con la correzione. Qualsiasi sistema gestionale permette la correzione delle fatture anche dopo l’emissione.

Dal 1 gennaio non sarà più così, perché una volta inviata tramite il sistema di interscambio la fattura sarà immodificabile e in base al tipo di errore scatteranno pesanti sanzioni che vanno dal 10% della sanzione minima (500,00 €) fino al 18%. Stiamo parlando quindi di cifre considerevoli, che l’Agenzia delle Entrate pretenderà anche in caso di errori lievi. E pensate a quanti errori potrà commettere un imprenditore anziano, poco avvezzo con la tecnologia. Ma chiunque abbia mai masticato di Aziende saprà che gli errori sono facili da commettere e che si può sempre rimediare. Dal 1 gennaio si potrà rimediare, sì, ma pagando le relative sanzioni.

Esistono già i PDF

Come detto, non ci sono vantaggi nella fatturazione elettronica. La scusa che rimuoverà l’uso della carta è banale e ipocrita, perché l’uso della carta è ormai abbondantemente superato dall’uso dei PDF nelle fatture.

E poi sapete che per emettere la fattura elettronica è previsto l’uso della fattura di cortesia? Su quale supporto? Su carta, ovviamente.

Quindi da questo punto di vista non cambierà nulla. Difatti continuerete a ricevere le fatture (tipo di luce, gas, telefonia, dai vostri fornitori di fiducia, ecc.) sempre su carta.

Soggetti non interessati

Per adesso gli unici soggetti non interessati dal provvedimento sono: imprenditori in regime forfettario, medici e farmacisti. Vediamo nel dettaglio.

Imprenditori in regime forfettario: per loro non si applica l’obbligo della fatturazione elettronica, dato che chi sta in questo regime si presume faccia poche fatture e quindi fatturi poco. Ma per loro comunque scatta un obbligo “occulto”, perché se acquistano da fornitori che stanno nel regime ordinario, dovranno comunque dotarsi del codice identificativo per la ricezione delle fatture elettroniche, quindi, di fatto, saranno anch’essi destinatari del provvedimento.

Medici e farmacisti: ci si chiede “ma perché questi soggetti non saranno destinatari del provvedimento?”. Difatti suona strano, visto che – soprattutto i medici – sono i primi ad evadere il fisco e sono contribuenti molto più redditizi del negoziante sotto casa.

L’esclusione di questi soggetti è legata al fatto che il Garante della Privacy ha più volte espresso perplessità sulla tutela della Privacy nel sistema di fatturazione elettronica. Dato che con questo sistema numerosi soggetti – non sempre autorizzati – potranno leggere dati molto sensibili, allora il legislatore ha previsto, per il momento, la non applicabilità della norma per medici e farmacisti. Questa cosa lascia presagire che i nostri dati non sono al sicuro. Chi potrà leggerli? Ci sono garanzie che il sistema di interscambio e di conservazione delle fatture è al sicuro? Le software house che propongono i loro servizi di e-fatturazione e conservazione hanno titolo per leggere i nostri dati? Poiché non ci sono risposte chiare in merito, il governo ha deciso di evitare l’obbligo di fatturazione elettronica per quei soggetti che trattano dati relativi alla salute delle persone. La qual cosa, però, non è sufficiente a sciogliere i nodi circa la violazione della nostra privacy.

la fregatura della conservazione

Finora le fatture ce le conservavamo da noi. Si generava il documento, si portava dal commercialista e si conservava (sul pc o in archivi cartacei). Oggi non più. Le fatture vanno conservate da soggetti autorizzati, per almeno 10 anni. E chi sono i soggetti autorizzati? Le software house che hanno ricevuto l’autorizzazione da parte dell’Agenzia delle Entrate nonché quest’ultima.

Il costo dei servizi relativi all’invio e alla conservazione delle fatture elettroniche varia e si aggira tra i 25,00 € l’anno e i 120/130 l’anno. Almeno per adesso. Poi non sappiamo se quando il sistema andrà a regime questi soggetti ci prenderanno per il collo e proporranno la conservazione a prezzi più elevati. Non sappiamo nemmeno che fine faranno le nostre fatture se non dovessimo più rinnovare il servizio. Se le distruggeranno? E se poi successivamente l’Agenzia delle Entrate ci farà un accertamento e verrà a sapere che non abbiamo le fatture? Quali sanzioni scatteranno? Insomma, sappiamo solo che imprenditori e professionisti sono ormai presi per il collo: dovranno pagare qualsiasi cifra chiesta perché le SH possano gestire le fatture per almeno 10 anni dall’emissione.

Ma non c’è problema. C’è il servizio gratuito dell’Agenzia delle Entrate!

La conservazione delle fatture da parte dell’Agenzia delle Entrate

L’Agenzia delle Entrate ha previsto sul suo portale un servizio gratuito di conservazione delle fatture elettroniche. In altre parole l’obbligo di conservazione è assolto dall’Agenzia delle Entrate per un periodo di 15 anni. Peccato che per accedere al servizio è necessario stringere un accordo non negoziabile e che la conservazione riguardi solo le fatture, mentre il resto della contabilità non farà parte dell’accordo, con conseguente frammentazione della contabilità interna dell’Azienda.

Ma ciò che lascia perplessi è un altro fatto: a conservare le nostre fatture sarà lo stesso soggetto che fa gli accertamenti, ci sanziona e con cui si possono aprire possibili contraddittori giudiziali.

In altre parole è come se ad arbitrare una partita sia un tifoso di una delle squadre in gioco.

Insomma, la conservazione delle fatture non si può fare in proprio. Ci si dovrà rivolgere a soggetti privati o all’Agenzia delle Entrate, che però è lo stesso soggetto che conserva, controlla e accerta. Il ché non è proprio il massimo della trasparenza.

Ma anche i privati possono ingannarci. Se oggi ci chiedono – chessò – 100 euro all’anno per la conservazione, nulla esclude che tra 5 anni possano chiederci 500 euro, con la minaccia di distruggere i documenti da loro conservati e con il rischio di incorrere in pesanti sanzioni nel caso le fatture non siano accessibili. Insomma, non saremo più padroni nemmeno dei documenti da noi stessi creati ed emessi e dovremo pagare un terzo che li conserva per noi, ma senza la certezza che possa aumentare le pretese, chiudere la baracca o, peggio, farsi rubare i documenti da qualche hacker buontempone.

In tutti questi casi a pagare saranno i responsabili della conservazione. Chi? Loro? No, noi. Perché per legge e per contratto l’unico responsabile della conservazione è chi emette la fattura, nonostante non abbia materiale possesso dei documenti. Incredibile, vero?

Un grazie dalle software house

Se l’Agenzia delle Entrate gode perché potrà sapere i cazzi nostri, anche le Software House godono, perché avranno per le mani una gallina dalle uova d’oro, a norma di legge. E avranno la garanzia di entrate sicure per almeno un decennio. Se non leggi per bene i termini dell’accordo non saprai mai se nel corso degli anni queste SH potranno aumentare le loro pretese o impedirti di accedere alle tue fatture. Ma non è neanche detto che quest’aspetto sia presente nei termini dell’accordo. Chiaro, no?

La fattura elettronica non combatte il nero

Questa cosa va detta, ribadita e ripetuta fino allo sfinimento. La fattura elettronica non combatte il nero, anzi, lo incentiva. Le ragioni le ho esposte sopra e se oggi il nero è diffuso, con questo nuovo sistema lo sarà ancora di più, perché chi è onesto smette di esserlo a causa delle enormi pretese impositorie della burocrazia italiana e alla fine, per sopravvivere, si fa furbo. Ma è una furbizia indotta, proprio da chi dice di volerla ridurre. Lo Stato.

Anche lo scontrino elettronico è una cagata pazzesca!

Art. 7 del DL Fiscale e ASD

ASD Monviso-Venezia

In queste concitate ore la Lega ha finalmente trovato un accordo con il M5S in tema di condoni. Come ha osservato il Presidente Conte, si è trattato di un ravvedimento operoso nei confronti di una bozza di Decreto che regalava molte concessioni ad evasori fiscali e, probabilmente, anche alla criminalità organizzata. Tutto ciò fino a … Leggi tutto

La verissima storia dell’approvazione del DL Fiscale: Di Maio e la manina sullo smartphone

consiglio ministri dl fiscale manina

Leggendo le tante, tantissime notizie che riguardano la cosiddetta manina, denunciata da Luigi di Maio direttamente in televisione, a Porta a Porta, per cui – secondo lui – il testo del c.d. Decreto Fiscale è stato modificato a sua insaputa con l’aggiunta di una norma salva-evasori e corrotti, mi sono chiesto come sia andata veramente … Leggi tutto

Davvero la RAI ha dedicato più spazio al PD che al M5S?

RAI agcom

Secondo Carlo Sibilia e Gianluigi Paragone la RAI, nei propri TG, avrebbe dato più spazio al PD e a Forza Italia rispetto alle forze di Governo: M5S e Lega. Le rilevazioni, fatte dall’AGCOM, sono relative al mese di settembre 2018. 

Solo 4 ore e 44 minuti al M5S, 5 ore e 39 minuti alla Lega e ben 15 ore e 16 minuti al PD e 12 ore e 16 minuti a Forza Italia.

Dopo aver appreso la notizia mi sono subito chiesto: ma come? Se ogni volta che accendo la TV mi trovo sempre le facce di sta gente? (leghisti e grillini, ndr) E’ davvero possibile che abbiano dato così poco spazio alle forze di Governo? 

Stando al grafico pubblicato sulla pagina del Sottosegretario Sibilia, parrebbe di sì. Per non parlare del giornalista Gianluigi Paragone, le cui parole non lasciano adito a dubbi: Nel mese di settembre, fonte Agcom, il Renzusconi ha parlato a tg(rai) unificati superando di gran lunga lo spazio riservato al MoVimento 5 Stelle e alla Lega.

carlo_sibilia_post_rai
Il post di Carlo Sibilia, che si trova qui

 

Ma siccome ormai sono abituato alle loro coloratissime e graficamente accattivanti vignettucce, votate alla condivisione, con le quali denunciano o rivendicano cose, che però non mi hanno mai convinto a fondo, spesso ho provato a verificarne la veridicità, non senza fatica, dato che da semplice cittadino, privo di mezzi e con poco tempo a disposizione per curare il blog e per approfondire le fonti, spesso mi sono scontrato con l’osticità nel trovarle e con l’estrema farraginosità delle fonti stesse, per cui, per mancanza di tempo, ho sempre desistito. Ma questa volta è stato facile, dato che gli stessi autori del grafico hanno indicato la fonte, ossia l’AGCOM. Allora è stato sufficiente collegarmi al sito dell’Autorità e trovare, tra le ultime news, quella relativa all’analisi dei tempi di parola dei soggetti politici e istituzionali nei telegiornali RAI. Alla news è allegata la relazione nonché un file excel che si possono scaricare e da cui emergono tutte le statistiche.

tabella_tempo_parola_soggetti_politici_telegiornali_agcom

La prima cosa che balza all’occhio è che – effettivamente – il M5S e la Lega hanno avuto poco spazio, rispetto alle altre forze politiche, ma analizzando meglio il documento emerge che il maggior spazio è dedicato a: Presidente del Consiglio e Governo (Ministri e Sottosegretari), come si può facilmente evincere dalle righe nn. 24 e 25 del file (che, lo ripeto, si scarica da qui).

Quindi, per esempio, tenendo a riferimento il foglio 3 (il file è composto da 12 fogli e racchiude tutte le emittenti televisive, non solo RAI), che rappresenta la somma delle ore in RAI, scopriamo che, come afferma il M5S, le ore dedicate al M5S sono solo 4 e 44 minuti, mentre alla Lega vanno 5 ore e 39 minuti. Al PD invece vanno ben 15 ore e 16 minuti mentre a Forza Italia 12 ore e 15 minuti. Tuttavia al Presidente del Consiglio sono dedicate bene 14 ore e 17 minuti, mentre al Governo (Ministri e Sottosegretari) addirittura 42 ore e 34 minuti.

Ora, dato che il Governo è composto da membri del M5S e della Lega, è facile intuire che queste ore debbano sommarsi a quelle dedicate ad altri esponenti dei suddetti partiti che non fanno parte del Governo e quindi la somma corretta è: 66 ore e 34 minuti che la RAI ha dedicato a M5S e Lega.

Non va infatti sottaciuto che, seppur queste ore siano separatamente conteggiate da quelle dedicate alle forze politiche, in quanto l’AGCOM separa queste ultime dai ruoli istituzionali, i soggetti che se ne avvantaggiano, nonostante facciano parte del Governo e quindi sono soggetti istituzionali, fanno comunque parte delle forze politiche di maggioranza e dunque, durante i loro interventi in televisione, foraggiano le proprie iniziative, esattamente come fanno quei membri dei medesimi partiti che però non fanno parte del Governo. In altre parole, quando intervistano un Salvini o un Di Maio o un Sibilia, questi ultimi parlano non solo per il loro ruolo istituzionale, ma anche come membri effettivi delle rispettive forze politiche.

Questo semplice assunto è maggiormente rafforzato dalla realtà fattuale di oggi, dato che le forze di Governo sono perennemente in campagna elettorale e quindi le loro dichiarazioni sono quasi sempre poco istituzionali e molto di parte.

Allora, poiché le forze di Governo hanno avuto ben 66 ore e 34 minuti in RAI, mentre PD e Forza Italia solo 27 ore e 30 minuti, dov’è la disparità di trattamento? Suggerisco a Gianluigi Paragone e a Carlo Sibilia di mettere in pratica quello che, a parole, è il cavallo di battaglia del M5S: l’onestà.

L’onestà intellettuale di raccontare la realtà così com’è e di non piegarla per fini poco nobili, ossia sconfessare la RAI e calcare la mano sul fatto che bisogna riformarla. Quanto vogliono? il 100% dello spazio?

Autonomia Veneto, la secessione è qui (ed è pericolosa)

veneto

Breve e semplice analisi della proposta di legge per maggiori forme di autonomia della Regione Veneto.  Con una proposta di legge ordinaria, al vaglio del Parlamento già a fine ottobre, il Veneto porta a compimento la prima fase di quello che appare essere a tutti gli effetti un processo di secessione di fatto (domani chissà, … Leggi tutto

Io sto con Riace

Arrestato il Sindaco di Riace, Mimmo Lucano per un’indagine che fa acqua da tutte le parti. All’alba di stamattina è stato arrestato il Sindaco di Riace, Mimmo Lucano, l’uomo che da 20 anni a questa parte ha dimostrato con i fatti che è possibile ripopolare un paese duramente colpito dall’emigrazione, dare una speranza di lavoro … Leggi tutto

Salvini: no agli ambulanti, si alla contraffazione

salvini ambulanti

Salvini ha dichiarato guerra agli ambulanti che ogni giorno vendono mercanzia varia sulle spiagge delle località turistiche d’Italia, emanando una circolare con ad oggetto Prevenzione e contrasto dell’abusivismo commerciale e della contraffazione. “Spiagge sicure – Estate 2018”. Cosa prevede la circolare? Perché la scelta di Arci Lecce di tutelare gli ambulanti e i clienti in … Leggi tutto

Assemblea PD. Renzi e l’egemonia che si perde in 2 mesi.

Renzi Assemblea PD

Breve analisi dell’intervento di Matteo Renzi nell’Assemblea PD e di come per lui l’egemonia sia una cosa che si perde in due mesi.

Ho avuto modo di seguire buona parte degli interventi dell’Assemblea Nazionale del PD, incluso quello di Matteo Renzi.

Dalle mie parti c’è un proverbio che recita: “quannu lu ciucciu nu bole cu ‘mbie magari ca fischi!”, che, tradotto, significa: “quando l’asino non vuole bere è inutile fischiare”.

Per me rappresenta un po’ la sintesi di quanto è avvenuto in seno all’assemblea, dove sono stati tanti gli interventi critici, lucidi e ponderati, volti a riflettere sulle debolezze del partito e sulle possibili soluzioni per la sua ripresa, ma dove buona parte della platea ha accolto con freddezzadistacco le critiche e le proposte mentre ha applaudito con ovazioni da stadio l’intervento (a tratti banale ed eccessivamente egocentrico) dell’ex premier Matteo Renzi. Se il PD non vuole bere, è inutile fischiare!

Il discorso di Renzi all’Assemblea PD

Renzi, nel suo discorso, si è attribuito vaghe e indefinite responsabilità nel fallimento del suo partito, ma in sostanza ha dato la colpa ad altri aspetti: la scarsa presenza sui social da parte del PD, i toni troppo sobri in campagna elettorale, la mancanza di coraggio nel prendere decisioni sullo Ius Soli e sull’abolizione dei vitalizi nonché il non aver rinnovato la classe dirigente al Sud. Ha anche attribuito grandi responsabilità alla minoranza del partito, che, a suo dire, gli ha remato contro.
Il discorso di Renzi, sin dall’inizio, trasudava ego da tutti i pori, arrivando anche a dire che mai, nella storia, un partito come il suo è stato tanto egemone da conquistare addirittura 17 regioni su 20 e il 41% dei consensi.

“Nessun partito ha mai avuto il potere che abbiamo avuto noi in questi anni in Italia”.

Questo lo diceva con una punta d’orgoglio e con enfatico entusiasmo, come a voler dire che è grazie a lui che il PD, negli anni scorsi, è stato egemone. La realtà però è sotto gli occhi di tutti e si dev’essere davvero ingenui a pensare che l’attuale situazione in cui si trova il PD è figlia del contingente e non, invece, di una lenta erosione, che trova le sue origini in un lontano passato ma inizia ad essere percettibile proprio nel periodo in cui il PD, in preda alla crisi dei partiti e alla nascita dell’antipolitica, viveva i suoi più gravi momenti di debolezza.
Fu in quel periodo che Renzi, forte del suo processo di rottamazione (grottescamente figlio anch’esso dell’antipolitica) imponeva la sua egemonia all’interno del partito, credendo ingenuamente che la sua egemonia tra le mura del PD s’instillasse in tutta Italia e plasmasse le coscienze di quella popolazione che credeva di poter modellare con i suoi discorsi unti all’olio di oliva.

“Per quattro anni il PD è stato l’argine del populismo in Italia. E se non avessimo fatto quello che abbiamo fatto nel 2014 l’ondata populista ci avrebbe sommersi”.

Anche questa frase trasuda tracotanza, dimostrando di non aver compreso che, invece, quei quattro anni sono serviti ad alimentare la demagogia dei suoi avversari in Italia e hanno contribuito a creare lo scollamento tra la sinistra nominalistica (il PD) e la popolazione che, poi, si è palesato alle ultime elezioni. In quei quattro anni il M5S ha rafforzato la sua presenza in rete e nei territori e la Lega ha dato maggior potere e struttura alle sue sedi territoriali e maggiore visibilità al suo leader, che incessantemente ha divulgato la sua linea politica girando in lungo e in largo per l’Italia e usando sapientemente i mezzi d’informazione.

Renzi e l’egemonia persa in due mesi

“Noi l’egemonia l’abbiamo persa tra maggio e giugno 2017, dopo le primarie”.

Questa frase, secondo me, rappresenta la summa dell’inadeguatezza renziana.
Come se l’egemonia fosse un abito che s’indossa e si dismette dall’oggi al domani. L’egemonia è un sistema di comando e controllo, culturale e politico, che si costruisce nel tempo e nel tempo si perde e che ha bisogno di un riscontro reale e di una sovrastruttura ideologica, creata dalla classe politica dominante per mezzo della propaganda ma soprattutto da quelli che Gramsci definiva intellettuali organici, cioè quegli intellettuali che difendono e rafforzano il potere della classe politica dominante.
Renzi non si è ancora reso conto che il PD ha perso la sua egemonia già molto prima della sua scalata politica e che i segnali – deboli ma inequivocabili – erano palesi già da diversi anni, più o meno dagli anni della rottamazione e dello sviluppo dell’antipolitica.

Perché se n’è accorto solo ora? Perché nella sua analisi politica ha tenuto presente solo i risultati delle elezioni scorse, non considerando che in un sistema bipolare, fino all’avvento del M5S e fino alla conclusione dell’opera di rafforzamento della Lega da parte di Salvini, non esistevano alternative valide al PD.

Per lungo tempo votare il meno peggio era una sorta di costrizione ideologica da parte dell’elettorato più riflessivo, mentre s’allargava sempre più la platea dell’astensionismo.

Del resto, negli anni scorsi, con un Centro-Destra frammentato dalle beghe interne e da diverse scissioni, il PD aveva vita facile, anche se il partito fino ad allora dominante era il partito dell’astensionismo. Oggi l’astensionismo ha lasciato il passo al M5S e alla Lega.

Come dimenticare le elezioni regionali in Emilia Romagna nel 2013 dove l’affluenza fu solo del 37%? Renzi allora cantò vittoria, ma ottenere il 49% del 37% degli aventi diritto al voto non può essere considerata una vittoria. Formalmente lo è, ma politicamente è una pesantissima sconfitta.
Quindi un Renzi che ritiene che il PD abbia perso la sua egemonia in un paio di mesi è un personaggio che le analisi proprio non le sa fare, offuscato com’è dalla sua immagine (tutta personale) di grande statista e grande comunicatore.

Il M5S

A proposito di analisi, vorrei soffermarmi un attimo su un altro punto del suo discorso, cioè quello in cui considera il M5S “la vecchia destra” (con tanto di applausi) e, addirittura, “una corrente della Lega”.
Ora vorrei fare un’ovvia considerazione, ossia che il M5S, attualmente, non rappresenta ideologicamente né una destra né una sinistra ma è interclassista esattamente come la popolazione che rappresenta.

Nel momento in cui si ricostruirà un fondo di coscienza tra i poveri, i precari e gli sfruttati in genere (che in Italia sono la maggior parte, più di quanto l’ISTAT evidenzia) nonché un terreno culturale in cui far crescere la propria consapevolezza e, soprattutto, quando si porrà un freno al dilagare di quell’analfabetismo funzionale che, invece, è il terreno ideale in cui proliferano i nazionalismi e le demagogie più becere, forse solo allora si potrà tornare a parlare di sinistra e, di conseguenza, di destra come antitesi ai valori dell’equità e della giustizia sociale.
Questa è un’operazione che spetterebbe a quegli intellettuali organici che, invece, oggi sono tutti preda del radicalismo fricchettone qualunquista, per cui si riempiono la bocca di concetti come umanità e accoglienza nei confronti dei fenomeni migratori (senza curarsi di interrogarsi sulle cause e gli effetti) e ignorano volutamente l’opinione pubblica bollandola come ignorante, xenofoba e razzista. Insomma, gli intellettuali di oggi non fanno altro che alimentare il nazionalismo e allontanare la gente comune dalla ragionevolezza politica.

Quindi da un lato gli intellettuali hanno smarrito la propria funzione e dall’altro lato uno come Renzi liquida subito il fenomeno 5 Stelle come un movimento di destra, senza curarsi di ragionare sulla sua composizione così multiforme, liquida e orizzontale e sulle cause che hanno spinto un movimento così scoordinato e di recente costituzione a diventare la prima forza politica in Italia.
In altre parole, invece che scusarsi davanti alla platea per aver fatto perdere al PD la sua egemonia culturale (che, però, come detto, in realtà hanno perso da molto tempo) e per non essere stato capace di gestire il malessere di una popolazione che ha dato la responsabilità ai fenomeni migratori (quando, invece, la responsabilità è di un sistema economico-finanziario malato e volto a creare disuguaglianze), ha liquidato subito il consenso del M5S come qualcosa di destra.

Mai un cenno al fatto che la gente guarda al PD come al partito delle banche e quindi, di fatto, colpevole di essere uno strumento nelle mani del capitalismo finanziario globale; mai una critica ad un partito la cui linea politica è centralizzata e in mano a poche persone e in cui le periferie non contano granché. Niente. Nessuna critica, solo pura esaltazione contornata da vaghe ammissioni di responsabilità senza però alcun concreto effetto sulla futura linea di governo del partito. Del resto la riconferma di Martina a Segretario ne è la prova più evidente.

Le critiche

Andando a vedere gli altri interventi s’intravedono, infatti, alcune precise critiche nei confronti di un partito ormai congelato e incapace di analizzare la realtà socio-economica e di intraprendere il giusto percorso per correggere le storture di un capitalismo finanziario che sta producendo gravi danni alle economie e alla tenuta sociale degli Stati in cui ha avuto libero accesso e legittimazione politica. Altre critiche più puntuali hanno messo in luce lo scarso coinvolgimento della base da parte del partito e, soprattutto, il fatto che i circoli del PD non hanno alcun ruolo nel definirne la linea politica. Ragionamenti puntuali che mettono in rilievo il distacco del partito dai territori che, invece, dovrebbero rappresentarne la linfa vitale e il termometro politico.

Eppure queste critiche sono state accolte dalla platea con freddezza e un certo distacco.

Già, perché l’Assemblea PD è il prolungamento del suo vertice e ne rappresenta solo il contorno scenografico grazie al quale dimostrare davanti all’opinione pubblica che il PD è un partito democratico, in cui si discute e si detta insieme la linea politica. Nella realtà, però, non è così. La discussione c’è, ma l’egemonia di Renzi e del vertice (Martina, Orfini, ecc.) è tale che la discussione assume solo un ruolo formale. Le decisioni vengono prese da pochi e il resto del partito non conta.
Conterà solo alle primarie, quando si deciderà chi sarà il nuovo Segretario. Nemmeno il Congresso conterà molto. E poi la decisione di fare il Congresso e le primarie a ridosso delle elezioni europee del 2019 fa capire che alla Segreteria del PD non interessa conoscere l’opinione dei suoi iscritti e rimettere in piedi il partito, ma solo assicurarsi una riconferma dell’attuale vertice in prossimità delle elezioni europee. Il tempo sarà così breve che, giocoforza, si riconfermeranno le stesse persone.

E’ ovvio che con questi presupposti il PD non vedrà alcuna risalita e, anzi, continuerà a perdere consensi. Perché il consenso è figlio dell’egemonia, quella cosa che non si perde né si acquista in un paio di mesi o in congressi-farsa a ridosso delle elezioni.

Xylella. E’ una bufala o un problema?

Si torna a parlare di Xylella fastidiosa dopo che un articolo apparso sul blog di Beppe Grillo ha fatto scalpore e ha provocato le reazioni di molti giornalisti, politici, intellettuali e anche dei suoi stessi sotenitori. A dire il vero, nonostante il titolo dell’articolo firmato dalla giornalista Petra Reski sia acchiappaclick (la bufalite della Xylella), … Leggi tutto

Che fine ha fatto la cultura popolare?

cultura popolare

Breve excursus sulle varie fasi che hanno portato allo studio e all’emersione della cultura popolare e di come oggi sia una mera teca da museo senza più appigli con la realtà che dovrebbe produrla.

Il folklore, inteso come rappresentazione culturale delle tradizioni popolari (cioè gli usi, i costumi, le musiche, la cucina, le tecniche, i saperi, i racconti, le fiabe, ecc.), è stato oggetto di interesse da parte del movimento romanticista, a partire dal 1700, per poi fiorire nel 1800. E’ in questo periodo che nasce, in un certo senso, l’antropologia come studio delle culture popolari.

Il Volksgeist, lo Spirito del popolo era, nell’intenzione dei Romantici, l’elevazione della volontà della Nazione quale legge fondamentale del suo sviluppo sociale, contrapposto al giusnaturalismo, che vedeva come fondamento la legge naturale. Lo Spirito, ossia l’individuo universale, concetto largamente usato da Hegel, corrispondeva, nell’idea dei Romantici, all’Individuo-Popolo o all’Individuo-Nazione che trovava le sue radici nella cultura popolare, la quale venne utilizzata sia per differenziarsi da altri Individui-Nazione sia per accentuare le proprie peculiarità. E’ vero che buone parti del pensiero dei Romantici furono utilizzate per giustificare i nazionalismi e per dare una connotazione filosofico-culturale al regime nazista, ma è anche vero che questa filosofia diede il via all’analisi antropologica, che avrebbe, nel tempo, cambiato per sempre il concetto di Cultura.

La cultura popolare in Italia nell’Ottocento e primi del Novecento

In Italia il primo a porre l’attenzione sulle culture popolari fu Niccolò Tommaseo che, nel suo incontro con la poetessa pastora Beatrice di Pian degli Ontani, nel 1832 scrisse:

Feci venire di Pian degli Ontani una Beatrice, moglie d’un pastore, donna di circa trent’anni che non sa leggere e che improvvisa ottave con facilità, senza sgarar verso quasi mai: con un volger d’occhi ispirato, quale non l’aveva di certo madama De Sade […] Donna sempre mirabile; meno però, quando si pensa che il verseggiare è quasi istinto ne’ tagliatori e ne’ carbonai di que’ monti“.

Quel quasi istinto lasciò germogliare l’idea, tra numerosi intellettuali, che i contadini, i pastori, gli strati più umili della popolazione, avessero spontaneamente e forse inconsapevolmente l’istinto alla poesia, ai versi. Un istinto millenario, capace di produrre versi, musiche, canti, tecniche e saperi che furono oggetto di indagine, ma in chiave positivista, ossia, detta in altri termini, in chiave estetico-letteraria secondo un approccio assolutistico: c’è una cultura superiore, frutto dell’evoluzione degli studi e una cultura inferiore, frutto dell’ignoranza e di disgregate conoscenze delle cose. In quest’ottica il folklore venne sì studiato, ma come espressione pittoresca del popolo delle campagne. E’ con quest’ottica che, per tutto fine Ottocento e fino alla prima metà del Novecento, il folklore veniva catalogato tra le belle cose d’Italia, ma senza mai rientrare degnamente nel concetto di cultura (o di culture, per usare un’espressione del relativismo antropologico).

Gramsci e De Martino

Antonio Gramsci
Antonio Gramsci

Ma fu proprio un Intellettuale, Antonio Gramsci, che, nelle sue Osservazioni sul Folklore (Quaderni dal Carcere), individuò un nuovo approccio alla cultura popolare: non più un popolo indistinto che produce aspetti pittoreschi e folklorici, frutto dell’arretratezza e dell’ignoranza (com’era nell’approccio positivista), ma l’espressione alternativa di una cultura frutto di classi oppresse dalla cultura dominante. Gramsci, quindi, inserisce la produzione culturale popolare in un contesto sociale, la storicizza e la rende un’alternativa alla cultura dominante.

Il suo approccio sarà poi adottato da studiosi come Ernesto De Martino e Gianni Bosio, che condurranno le loro ricerche consapevoli che l’emersione della produzione culturale popolare favorirà una presa di coscienza delle classi subalterne in chiave anti-borghese.

Senza l’apporto di Intellettuali come Gramsci, De Martino, Bosio e tanti altri, le culture popolari non avrebbero avuto quella dignità tale da essere poi considerate, nei decenni successivi, alla stregua di un Patrimonio intangibile degno di tutela istituzionale (nel bene e nel male), tant’è che le varie Convenzioni UNESCO, sin dal 1989, sono state volte a dare salvaguardia e valorizzazione al folklore, nei suoi aspetti materiali e immateriali. Il loro apporto è stato, quindi, fondamentale, non tanto e non solo nello spostare l’indagine sulle culture popolari da un terreno estetico a uno sociologico-antropologico, ma anche nel capovolgere l’azione dell’Intellettuale, il quale non si pone come docente, dall’alto del suo sapere, ma come allievo nei confronti dei portatori di saperi folklorici.

Tuttavia questi intellettuali, che hanno avuto il pregio di dare rilievo al folklore, hanno vissuto in un’epoca in cui il dualismo cultura egemonica / cultura subalterna si sostanziava in modo netto: da un lato c’era, quindi, il popolo sottomesso e dall’altro lato la borghesia; da un lato la Civiltà contadina, dall’altro la civiltà cittadina. Insomma, netta era la distanza tra i due poli.

Gli anni Sessanta e Settanta

Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini

A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, però, qualcosa è cambiato. Le emigrazioni di massa, l’industrializzazione, l’emersione della società dei consumi, la diffusione di mezzi di comunicazione di massa come la TV e, in generale, un nuovo modello sociale, basato sul benessere e sull’urbanizzazione, hanno contribuito alla scomparsa della Civiltà contadina e delle sue produzioni immateriali: storie, saperi, musiche e canti vennero travolti da modelli culturali più appetibili e diffusi. Del resto la cultura popolare veniva vista come un’espressione di un cattivo passato da dimenticare, fatto di miseria e fame, mentre la nuova cultura egemonica predicava benessere ed era incompatibile con il vivere povero delle campagne, ormai svuotate a favore del più remunerativo lavoro nelle industrie nascenti.

E’ in questo periodo che molti intellettuali hanno ripreso gli studi di Gramsci e De Martino sul folklore non più e non solo in chiave anti-borghese, ma anche in chiave anti-capitalista, anti-egemonica e, successivamente, anti-globalista e localista, dove il dualismo egemonia/subalternità non rappresenta più la lotta di classe tra chi vive in mondi diversi e in contrapposizione, ma una frammentazione sociale inserita nel contesto dell’interclassismo.

Se è vero che il povero, ormai privo del suo terreno di riferimento, sogna di essere ricco e sogna, come modello del benessere, la Seicento, la casa al mare e uno stipendio sicuro, il suo volersi elevare a borghese (o piccolo-borghese) è l’esempio di una stratificazione sociale frammentata e fittamente segmentata, dove non vi è più una (potenziale e possibile) lotta di classe, ma una lotta a senso unico, volta all’illusorio raggiungimento del sogno del benessere. In questo quadro mutano i c.d. folkways, ossia le abitudini dell’individuo e i costumi della società che sorgono da sforzi intesi a soddisfare i bisogni (William Sunmer, Costumi di gruppo, 1906), non sono più nettamente trasmessi dal gruppo di riferimento, ma si confondono con quei bisogni, indotti o spontanei, propri della civiltà cittadina attraverso le influenze della società dei consumi.

Insomma, la cultura popolare inurbata e rimodellata nei ceti operai di periferia, nell’incontro-scontro tra operai e piccola borghesia, nel mescolamento tra vecchi modelli e nuovi bisogni, produce, tra gli intellettuali di sinistra degli anni Settanta, un nuovo approccio, che è quello dell’analisi demologica non più di matrice gramsciana, ma volta a studiare le culture subalterne e suburbane. Quel poco che resta della Civiltà contadina è oggetto di incessanti studi e ricerche, che oggi rappresentano l’architrave della conoscenza che possiamo avere di ciò che in quel periodo restava ancora autentico. Dico autentico non perché nelle culture popolari possa essere ammesso un termine del genere, ma perché oggi quelle ricerche etnografiche vengono cristallizzate nel concetto di tradizione e fatte passare per espressione di identità culturale, quando altro non sono che un aspetto mutevole di una realtà che di lì a poco sarebbe totalmente scomparsa.

L’opera degli Intellettuali di quel periodo fu quindi di ri-scoperta e ri-proposta contro la massificazione industriale, la produzione egemonica musicale, insomma, il consumismo, l’omologazione e l’industrializzazione che, nel corso degli anni, avrebbe profondamente mutato le matrici culturali e, di conseguenza, le espressioni stesse.

L’intellettuale che più ha messo l’accento sulla disgregazione della cultura popolare ad opera della società dei consumi fu Pier Paolo Pasolini, il quale s’interrogava su come la cultura popolare potesse rimodellarsi all’interno di una struttura sociale ormai profondamente mutata.

Accanto a lui, Alberto Mario Cirese (Cultura egemonica e culture subalterne, 1973) gettò le basi per una riflessione sul rapporto tra egemonia e subalternità non più in chiave gramsciana ma secondo un’indagine che tenesse conto anche della reciproca influenza tra la cultura egemonica e quelle subalterne nonché della circolarità del rapporto tra esse, nell’ottica per cui il folklore si pone come un’espressione di cultura alternativa e implicitamente contestativa che però si rimodella ogniqualvolta i suoi portatori si trovano a cavallo tra l’egemonia e una subalternità che però non è cementificata, ma è inserita in un corpo estraneo ad essa e rimodellabile continuamente.

Del resto è storia recente che la cultura popolare è diventata sempre più appannaggio della massa e di quegli intellettuali piccolo-borghesi inurbati che trovano in essa uno sfogo nei confronti della nevrosi prodotta da modelli omologanti di matrice globale. Ma non solo! E’ anche un pretesto per riaffermare presunte identità locali che, però, non avevano alcun senso nella Civiltà contadina. Il concetto di identità è stato introdotto, anzi, nella riemersione della cultura popolare, come riaffermazione di presunti valori territoriali contrapposti al modello global.

Gli anni Ottanta e Novanta

Difatti gli anni Ottanta e Novanta hanno rappresentato, per la cultura popolare, un periodo sì di rivitalizzazione (frutto anche della conseguente attenzione globale nei confronti delle diversità culturali, come l’es. dell’UNESCO), ma anche di profondo mutamento. Se da un lato si moltiplicavano le attenzioni rivolte alle espressioni culturali e rinasceva l’interesse nei confronti delle loro rappresentazioni (cucina tipica, musiche e canti, in particolare), soprattutto in chiave di promozione del territorio nei confronti del sempre crescente fenomeno turistico, dall’altro si sentiva sempre più pressante l’intrusione del mercato del folklore di matrice, appunto, egemonica. E l’appropriazione del concetto di Patrimonio Culturale da parte delle Istituzioni (si pensi alla creazione di apposite Fondazioni per la sua promozione) unito alla sempre maggiore attività del mercato degli eventi ha di fatto consegnato la cultura popolare, nello specifico musiche e canti, nelle mani della cultura egemonica, la quale, chiaramente, ha tutto l’interesse a spezzettare e sminuzzare le espressioni folkloriche selezionandone gli aspetti più appetibili sul mercato degli eventi e trascurando, di fatto, quelli meno vendibili. Quest’operazione, squisitamente egemonica e omologante, da un lato ha privato di ogni valore la cultura nella sua complessità e dall’altro ha sottratto ai suoi portatori il diritto di usarla e ricontestualizzarla.

Ma, ad ogni modo, ormai questo diritto non c’è più proprio perché non c’è più quel sub-strato culturale che produce espressioni culturali sue proprie. Insomma, ciò di cui si è appropriata la cultura egemonica non è tanto la cultura popolare in sé (quella si è liquefatta e si mescola e confonde nell’interclassismo) quanto l’oggetto dell’indagine etno-demografica di quarant’anni fa, in altre parole un oggetto museale, però immateriale.

Oggi che succede?

Raymond Geuss
Raymond Geuss

Raymond Geuss, classe 1946 e professore emerito all’Università di Cambridge, scrive “la filosofia è morta: i segni vitali prodotti una quarantina di anni fa, l’eccitazione, la creatività, l’inventiva sono sostituite, ormai, da tediose recite e rievocazioni storiche” (qui trovi l’articolo originale). Mi permetto di citarlo perché, in fondo, è essenzialmente ciò che è accaduto alla cultura popolare.

E’ morta sotto la scure della società dei consumi, che ha fatto delle espressioni culturali popolari vive una merce da dare ad uso e consumo di stakeholders, turisti e massa indistinta e indiscriminata che non si riconosce né produce espressioni culturali nuove in quanto non le appartengono.

In altre parole, come ben dice Geuss, la creatività e l’inventiva sono sostituite da rievocazioni storiche, dall’ossessiva ripetizione della tradizione, che però non è rivitalizzata, ricontestualizzata e utilizzata in chiave anti-egemonica, ma ridotta a mera spettacolarizzazione, a ricordo quasi bucolico di un passato che non c’è più e che si ripropone come teca da museo.

In questo quadro la ricerca demologica si è interrotta ed è incapace di scandagliare le rappresentazioni dei sub-strati culturali ormai liquefatti e confusi tra ceti marginali e ceti borghesi. Non c’è più un anti- da proporre (anti-sistema, anti-capitalismo, anti-borghesia, anti-globalizzazione, ecc.) perché la critica che ha sempre sorretto la cultura popolare è scomparsa e il nemico da combattere oggi è talmente invisibile da non esistere.

Insomma, oggi il folklore è più simile a quello guardato con gli occhi del Positivismo ma in chiave moderna, ossia spettacolarizzazione estetico-letteraria di espressioni d’identità locale, mentre però i suoi portatori non esprimono una cultura, ma un ricordo, tenuto vivo solo dal mercato. E’ per questo che ormai da molti anni quei pochi portatori sani, ancora vivi, della Civiltà contadina, hanno abbandonato il campo della ri-proposta, in quanto non gli appartiene più, mentre sul campo sono rimasti quelli che non esprimono più alcunché, se non ciò che il mercato (o la moda del momento) gli impone di esprimere. Una sorta di servilismo che, però, soggiace alla legge del ribasso. Ne ho parlato, in riferimento alla musica, in quest’articolo.

Tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale diceva Hegel, a voler significare che Ragione e reale sono la stessa cosa. Questo la cultura popolare, nell’illetteralità dei suoi portatori, l’aveva intuito, come Gramsci aveva intuito che da questa filosofia spontanea potessero trarsi le basi per riaffermare la dignità delle classi popolari, mentre oggi il Razionale s’identifica con altro, che la demologia ancora non ha saputo (o voluto) individuare e gli Intellettuali si tengono ben lontani dal comprenderlo, mentre il reale è solo uno stantio ricordo del passato, che si manifesta nell’inconsapevole servilismo di chi, quella cultura popolare, pretende di esternarla senza sapere che, in realtà, sta solo perpetrando le istanze del potere egemonico.