Laura Boldrini e l’italica ignoranza

Lo ammetto. A me Laura Boldrini non sta tanto simpatica. Ho iniziato a storcere il naso per le sue inutili battaglie linguistiche sulla declinazione al femminile di parole tradizionalmente declinate al maschile, ma di significato neutro, perché riferito ai ruoli, quindi Sindaco e non Sindaca, oppure Ministro e non Ministra o ancora Presidente e non Presidenta. 

Si può continuare con Avvocata, Architetta, ecc. Ma ho qualche dubbio su come la Boldrini declinerebbe il termine Geometra. Forse al maschile sarebbe Geometro? E che dire del Commercialista? Forse al maschile sarebbe Commercialisto?

Oddio, esiste pure un più raro ma non sgrammaticato Presidentessa, che si potrebbe usare, ma la Boldrini si è fissata con Presidenta, scomodando pure l’Accademia della Crusca che, con un lusinghiero panegirico, quasi in un’ardita arrampicata sugli specchi, ha dato ragione alla Presidenta, suscitando le comunissime e ovvie ire di Vittorio Sgarbi.

Mi sta anche antipatica per quell’altro aspetto, legato al sessismo, che ogni tanto (sci)orina nei suoi discorsi, anche istituzionali, come quella volta che ha fatto gli auguri a una deputata neo-mamma dichiarando espressamente – in Aula – che il papà, nella storia del parto, non c’entra nulla.

Poi c’è la storia dei migranti. La Boldrini, dopo una lunga esperienza presso l’Alto Commissariato per i rifugiati dell’ONU, nel 2013 venne eletta a seconda carica dello Stato, cioè divenne Presidente della Camera dei deputati. Chiaramente, vista la sua precedente carriera, ha da subito iniziato una battaglia per l’accoglienza e l’integrazione dei migranti, creando in taluni disappunto e in molti altri un crescente odio nei suoi confronti, soprattutto da parte dei tanti razzisti che si annidano sui social e che, ad ogni uscita della Presidenta, si scagliano contro di essa con commenti di inaudita violenza, volgarità e odio, molto spesso contornati da errori grammaticali che nemmeno l’audace Accademia della Crusca potrebbe approvare.

E’ vero che la Signora Boldrini non dimostra spesso di avere quel senso dello Stato tipico di chi ricopre un ruolo istituzionale così elevato né dimostra di saper distinguere quando parlare in qualità di Presidente della Camera e quando in veste di cittadina o attivista per i diritti civili, ma ciò – ovviamente – non comporta una violenza così esasperata, continua, quotidiana, feroce, illogica, meschina e spudorata nei suoi confronti.

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L’ultimo post di Laura Boldrini su Facebook in cui annuncia di voler querelare chiunque la offenda, lo trovi qui. Da notare il commento di un tizio che dice: “Dovrebbe riflettere sul perché le persone le rivolgono questi deplorevoli commenti.
 Diciamo che lei non fa nulla per farsi benvolere. La Tatcher non era benvoluta, ma cambiò il volto, ed in meglio, della Gran Bretagna.
Invece di sostenere il popolo italiano dà la parvenza di supportare chi viene da fuori, dimenticandosi gli stenti a cui questo Stato non è in grado di porre rimedio.
Lei risponderà alla Costituzione su cui ha giurato e alla sua coscienza guardandosi allo specchio”.

Premesso ciò, però va puntualizzata una cosa. E lo dico a vantaggio non degli idioti (perché tali sono) che l’hanno riempita di epiteti e volgarità inaudite, ma di tutti quelli che in questi anni hanno motivato i commenti dei suoi post o dei suoi tweet sempre con le stesse argomentazioni: tu pensi ai migranti e agli italiani, che soffrono la crisi, stanno male e bla bla bla, non ci pensi.

Questa gente, che si crede intelligente perché non offende, ma motiva il proprio odio nei confronti della Boldrini con commenti del genere, dimostra tutta la propria ignoranza in materia istituzionale e quindi vorrei soltanto ribadire un concetto banale, materia di educazione civica fatta alle elementari o alle medie, e cioè che quello del Presidente della Camera non è un ruolo politico, ma istituzionale. Insieme al Presidente del Senato è la seconda carica istituzionale, dopo il Presidente della Repubblica, e il suo ruolo è solo quello di:

  • provvedere al corretto funzionamento della Camera dei deputati, mantenendo l’ordine e dirigendo la discussione
  • garantire l’applicazione del regolamento
  • provvedere al buon andamento delle strutture amministrative della Camera
  • presiedere le riunioni del Parlamento in seduta comune e convocare le camere per l’elezione del Presidente della Repubblica

Queste, in sintesi, le funzioni del Presidente della Camera. Quello di aiutare gli italiani, far progredire l’economia, tutelare i diritti della cittadinanza o provvedere alla gestione del Paese è un ruolo politico che spetta al Presidente del Consiglio dei Ministri, ai Ministri e, in misura minore, ai Presidenti di Regione, nonché ai partiti di riferimento e ai sindacati, che sono riconosciuti dalla Costituzione. Insomma, a tutti quelli che ricoprono ruoli politici, cioè di decidere quali soluzioni adottare per risolvere determinati problemi o gestire la cosa pubblica. Capite bene che quando la si offende perché non fa nulla per gli italiani, è ovvio che sia così, non è il suo ruolo. Dunque quando leggo gente che paragona la Boldrini alla Thatcher o la offende perché pensa ai migranti e non agli italiani, mi sovviene alla mente quell’antico istituto della Grecia classica, cioè il blakennòmion, ossia, letteralmente, la tassa sugli stupidi, che si applicava a coloro che facevano ricorso ai consigli e agli oroscopi degli astrologi, perché considerati idioti. Beh, suggerisco alla Boldrini, anziché di querelare questa gente, di proporre al Parlamento una Legge che multi chi dimostra palesemente un’oggettiva ignoranza (oltre all’odio), sarebbe un modo straordinario di far cassa e risollevare l’economia italiana (chissà, magari anche di limitare questi fenomeni da baraccone). E la libertà d’opinione? Si fotta. Le opinioni sono tali quando sono sensate e informate. Il resto è solo putrida immondizia di cui possiamo farne a meno.

Fumo

Fumo

Niente. Non c’è nulla da fare. Ho provato a leggere (due volte) il libro di Allen Carr è facile smettere di fumare se sai come farlo. Alcune tra le persone che conosco hanno smesso dopo aver letto (e compreso) il libro, che – tra parentesi – ritengo molto interessante nel far leva su alcuni macigni psicologici che ci portano a sedimentare alcune abitudini (o vizi che dir si voglia). Ho provato pure con la sigaretta elettronica. Risultato: ora continuo a fumare e ci ho aggiunto pure la sigaretta elettronica nei tempi in cui prima non fumavo. Quindi, di fatto, fumo di più. Ma in fondo lo ammetto, un poco (ma poco) sono svogliato a smettere. E poi, quando scrivo fumo. E quando fumo…non scrivo, ma vabbè, volevo rendere poetica una figura che di poetico ha poco (cioè, fumare). Allora sai che faccio? Pubblico una poesia sul fumo. Non per invogliare qualcuno a farlo, ma solo perché una notte mi è venuto di scriverla. Sicché, la pubblico.

Fumo

un odore acre
si spande per la stanza
mentre i rivoli di fumo
colorano di grigio
le bianche mura
e le basse volte.
Una sigaretta
e un’altra ancora
mentre mi pento
ch’è già mattina.
Albeggia lungo le finestre
e i galli, co’ loro cantare
m’inducon a desistere
mentre la mente
nell’anima conflittuale
perenne mi chiama
a regolar sonno
e membra riposo.
Eppur son qui
a scriver inutili versi
solo per me
solo per dirmi
ch’è mattina.
Vado a dormire
non prima di scrutar
la cenere
che ultima si posa
nella creta smaltata,
ad accompagnar
altre cicche
di quotidiana memoria.

Il Sindaco di Licata e la differenza tra Legge e Giustizia

angelo cambiano sindaco licata abusivismi

Angelo Cambiano era Sindaco di Licata, in Sicilia. Fu eletto il 15 giugno 2015 con quasi il 55% di preferenze. Nel 2016 iniziò la sua lotta all’abusivismo edilizio e venne minacciato più volte (gli vennero persino incendiate due case di famiglia) quasi sicuramente perché, fino ad ora, ha fatto abbattere numerosi immobili abusivi. Pochi giorni fa è stato sfiduciato dal consiglio comunale. Ma che ha fatto di così grave? Semplicemente ha applicato la Legge, in particolare tutta una serie di ingiunzioni di demolizione da parte della Procura di Agrigento. Come lui stesso dichiara “La mia non è stata una scelta politica quella di demolire immobili. Ci sono delle sentenze della magistratura che lo hanno decretato e le sentenze vanno rispettate”.
Oddio, non possiamo certo dargli torto. La legge va rispettata e le sentenze pure. Alcune sono così vecchie da risalire persino agli inizi degli anni ’90. Quantificando, sarebbero quasi un centinaio le case da abbattere o già abbattute, ma forse sono anche di più, dato che non è facile conoscerne il numero, perché, dal 2016 ad oggi, la Procura di Agrigento, a più riprese, ha notificato al Comune di Licata molte ordinanze di abbattimento, tutte recepite e fatte eseguire. Fino al 2015, anno in cui Cambiano fu eletto, le pressioni da parte della Procura di Agrigento vennero tutte respinte al mittente, non solo dal Comune, persino dalla Sovrintendenza ai beni culturali e ambientali e dall’Ente Parco archeologico, ognuno dei quali si dichiarava non competente in materia.

Insomma, per anni, anzi, per decenni, tutte le sentenze e le ordinanze di abbattimento degli immobili abusivi sono state ignorate dal Comune e dagli altri Enti preposti. Il Sindaco Cambiano ha corretto il tiro e ha iniziato ad applicarle, ordinando gli abbattimenti, non solo di immobili per cui le sentenze sono passate in giudicato, ma anche per immobili di nuova costruzione.

Ha fatto bene? Ha sbagliato? Entrambe le cose. Cambiano non è un Eroe, perché ha applicato la Legge, ma non è nemmeno un rappresentante della sua popolazione (lo dico a vantaggio di quelli che pensano che i Sindaci sono rappresentanti del Governo. No, rappresentano i cittadini del Comune in cui vengono eletti. Solo in poche occasioni fungono da rappresentanti del Governo) perché non ha tenuto conto della realtà in cui opera.

Già. Ha fatto bene, perché ha applicato la Legge, ma ha sbagliato, perché – in molti casi – è stato ingiusto.

Che differenza c’è tra Legge e Giustizia? E’ giusto abbattere le case abusive, sì, ma è giusto abbattere solo quelle di quei poveri sfigati che non hanno approfittato dei vari condoni edilizi intervenuti in questi ultimi decenni? Dagli anni Settanta ad oggi il Governo, con vari decreti d’urgenza, ha sempre e costantemente regolamentato la materia decidendo, di volta in volta, quando consentire e quando, invece, sanare (a titolo d’esempio, basti ricordare i D.L. 28 marzo 1986, n. 76; D.L. 30 settembre 1986, n. 605; D.L. 9 dicembre 1986, n. 823; D.L. 9 marzo 1987, n. 71; D.L. 8 maggio 1987, n. 178; D.L. 9 luglio 1987, n. 264; D.L. 4 settembre 1987, n. 367; D.L. 7 novembre 1987, n. 458, tutti in materia di urbanistica e sanatoria dell’abusivismo edilizio).

Diciamoci la verità. I Governi che si sono succeduti (e spesso i Parlamenti, che hanno ratificato i Decreti o emanato leggi ad hoc) hanno regolamentato la materia come più gli ha fatto comodo: a volte concedendo, a volte impedendo, altre volte sanando. In questo marasma legislativo mettetevi nei panni di un cittadino qualsiasi che vuole costruire (del Nord o del Sud, perché l’abusivismo è trasversale, anche se spesso i media vi diranno che è preminente al Sud. Cazzate). Non ci capisce un cazzo. Legge le varie disposizioni normative e non sa quali sono valide e quali abrogate. In più, tra rimandi di legge e giuridichese, non capisce nulla. Quindi fa la cosa più ovvia: va all’Ufficio tecnico o dal Sindaco per avere informazioni e questi, con buona probabilità, gli diranno: tu costruisci, poi si vede. E fu così che dagli anni Settanta ad oggi interi Paesi sono stati costruiti in modo abusivo. Ma abusivo da cosa? Abusivo in base a leggi che dicono tutto e il contrario di tutto? Abusivo in base a piani urbanistici locali che molti Comuni non hanno ancora adottato? Abusivo in base alle dichiarazioni degli Uffici tecnici dei Comuni? In questa confusione, uno che vuole una casa in riva al mare, in campagna o nella periferia del paese, la costruisce e basta. Poi si vede. E’ così che ha funzionato finora. E’ giusto? Non è giusto? Come si fa a dirlo se le leggi venivano continuamente modificate e se le sanatorie spuntavano come funghi ogni 5 o 6 anni?

Quindi, rispondendo alla domanda di prima, un povero cristo, che si vede abbattere la sua casa costruita negli anni Settanta, così, senza un apparente motivo e dopo averci vissuto una vita, magari ereditata dal nonno (che l’ha costruita perché qualcuno gli ha detto che poteva farlo, poi si vedrà) sta subendo un’ingiustizia o l’applicazione della Legge? E la legge, nel suo caso, è giusta? Se il tizio, vedendo che in tutta Italia si abbattono case abusive, forse potrebbe farsene una ragione, ma se invece l’applicazione della Legge vale solo nel suo Comune e nel suo caso, penserà che è giusto o che è solo una carognata che lo porterà a perdere la sua casa e ad andarsene in mezzo a una strada? Come fai a spiegargli che la sua casa è abusiva quando invece quella del suo vicino – sanata qualche anno prima – è ancora in piedi e non verrà abbattuta? Ditemi se questa è giustizia o meno. Ditemi come fa quel povero cristo a capire che la sua casa è illegale, mentre quella del vicino no.

Oggi assistiamo a questo spiacevole spettacolo per cui un Sindaco, che deve applicare la Legge, viene prima minacciato e poi sfiduciato dal suo Consiglio comunale. Lui non è un eroe, è solo l’emblema di un personaggio che si trova ad operare in un sistema corrotto nei suoi meccanismi più profondi, cioè le leggi, di un modello istituzionale che non ha mai voluto prendere una decisione netta in materia urbanistica e che si è sempre mascherato dietro il gioco dell’oca di un sistema volto a vietare e poi a concedere, a bloccare e poi a sanare, ad impedire e poi a consentire. In questo sistema qual è la differenza tra Legge e Giustizia? E’ giusto consentire e poi – dopo tanti anni – distruggere? E un povero Sindaco cosa deve rispettare? La Legge o la Giustizia? Me lo chiedo e ve lo chiedo, perché è facile schierarsi contro l’abusivismo, ma è difficile capire quanto questo fenomeno sia stato foraggiato dalle stesse Istituzioni che oggi lo contrastano. Soprattutto al Sud. Ma l’Italia, sappiatelo, da questo punto di vista è unita. Unita assai.

Alcoltest. Facciamo chiarezza

alcoltest

Premesso che non sopporto chi si mette alla guida dopo essersi ubriacato, perché, come sappiamo e come la cronaca purtroppo ci racconta ormai ogni fine settimana (e durante l’estate quasi ogni giorno), sono tanti – troppi – gli incidenti provocati dalla guida in stato d’ebrezza, per cui l’alcoltest è una naturale conseguenza.

Però non possiamo sottacere nemmeno che molto spesso è facile superare il limite legale di 0,5 grammi/litro di alcool nel sangue pur essendo consapevoli di essere perfettamente lucidi. Difatti chi di noi non ha mai bevuto un paio di birre o un paio di bicchieri di buon vino rosso per poi mettersi alla guida? Sapevamo benissimo di essere in grado di guidare, ma forse non eravamo perfettamente consapevoli del fatto che quelle due birrette o quei deliziosi bicchierini di vino ci avrebbero fatto superare il limite legale, con conseguenze spesso disastrose in termini economici e di normale vita quotidiana. Già, perché vedersi comminare un verbale (spesso) molto salato o vedersi ritirare la patente pregiudica non solo l’aspetto economico, ma anche la propria autonomia.

Cosa dice la legge sull’alcoltest?

Gli articoli 186 e 186/bis del Codice della Strada stabiliscono che, in caso di superamento del tasso di alcolemia di 0,5 g/litro si può entrare nel penale, ma con sanzioni diverse in base alla quantità di alcool nel sangue:

  • Guida con tasso alcolemico tra 0,5 e 0,8 g/l: ammenda da 500 a 2000 euro e sospensione della patente da 3 a 6 mesi.
  • Guida con tasso alcolemico tra 0,8 e 1,5 g/l: ammenda da 800 a 3200 euro e arresto fino a 6 mesi. In più è prevista la sospensione della patente da 6 mesi ad 1 anno.
  • Guida con tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l: ammenda da 1500 a 6000 euro; arresto da 6 mesi ad un anno; sospensione della patente da 1 a 2 anni; sequestro preventivo del veicolo; confisca del veicolo (salvo che appartenga a persona estranea al reato).
  • In caso di recidiva biennale (cioè se la stessa persona compie più violazioni nel corso di un biennio) la patente di guida è sempre revocata. La revoca avviene anche quando il conducente, con tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l o sotto l’influenza di droghe, ha provocato un incidente.

E se il conducente si rifiuta di sottoporsi all’accertamento alcolimetrico, ossia all’alcoltest?

Anche il rifiuto di sottoporsi all’accertamento è considerato reato ed è punito con la perdita di 10 punti della patente di guida, con l’ammenda da 800 a 3200 euro e con l’arresto fino a 6 mesi. In più, anche in questo caso, è prevista la sospensione della patente da 6 mesi ad 1 anno.
Inoltre va detto che per i neopatentati (primi 3 anni dal conseguimento) e per i conducenti di età inferiore a 21 anni c’è il divieto assoluto di assumere alcolici (art. 186/bis CdS).
Inoltre, per poter riavere la patente, occorre effettuare delle visite mediche e delle analisi per dimostrare che il conducente non è un alcolista abituale. Oltre ai costi elevati delle analisi (200-300 euro), vi è anche la beffa di doversi sottoporre a visite presso la Commissione Medica provinciale, ossia i SERT, dove – a seguito di numerose visite – viene rilasciato (non in tutti i casi…) un certificato che dimostra l’idoneità a riottenere la patente di guida.

Come faccio a sapere se rientro nei limiti consentiti?

Non è facile saperlo, perché tutto dipende da molti fattori, quali sesso, peso, capacità di assorbimento dell’alcool da parte del fegato, metabolismo, eventuale presenza di patologie, ecc. Tuttavia il Ministero della Salute ha più volte emanato delle linee guida per capire – in linea di massima – qual è la capacità di assorbimento dell’alcool e, quindi, la presenza dello stesso nel sangue. Di seguito una tabella riassuntiva che, però, va ribadito, è assolutamente generica. Del resto molti locali notturni si sono attrezzati, negli anni, con test alcolemici o gratuiti o a pagamento, che possono dare risultati più precisi.

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Limiti alcolemici in Europa

In Italia, come detto, il limite è di 0,5 grammi/litro di alcool nel sangue, sostanzialmente nella media europea. I Paesi che hanno limiti più alti sono Malta e Inghilterra (0,8), mentre i Paesi meno tolleranti sono quelli dell’Est Europa (0,0) e la Svezia (0,2). La tabella seguente riassume i limiti. Nella prima colonna sono rappresentati i limiti generici, nella seconda quelli per chi esercita professionalmente l’attività di trasporto di persone o cose e nella terza quelli per i neopatentati.

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La Sentenza n. 567/17 del GdP di Reggio Calabria sulla nullità dell’alcoltest

La nullità dell’Alcoltest in caso di mancata indicazione della facoltà di farsi assistere da un legale di fiducia

Prima di commentare la recentissima Sentenza in oggetto tengo a precisare che questi non devono essere considerati degli escamotage per evitare le conseguenze dell’alcoltest, ma mere affermazioni di diritto, per cui il rispetto della Legge deve valere sia per i cittadini che per gli operatori di Pubblica Sicurezza.

La Sentenza (depositata in cancelleria il 30 giugno 2017) muove dal fatto che a un giovane reggino fu comminato nel 2016 un verbale di infrazione al CdS e ritirata la patente per presunta positività all’alcoltest. Il giovane, tramite l’avvocato Giuseppe Ravenda (che ringrazio per aver pubblicato la sentenza sul sito di Studio Cataldi) propose ricorso al GdP avverso al verbale di accertamento e al decreto prefettizio di ritiro della patente. Il Giudice, richiamando due note Sentenze della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (n. 2/2015 e n. 5396/2015) ha stabilito che la mancata indicazione al presunto trasgressore (sia a voce che sul relativo verbale) della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia comporta la nullità degli accertamenti. Quindi, dato che l’accertamento del tasso alcolemico costituisce un atto di polizia giudiziaria urgente e indifferibile, durante il suo svolgimento l’indagato ha diritto di farsi assistere da un difensore di fiducia e di essere avvisato di tale facoltà, in base all’art. 114 disp. att. cpp.

La mancanza di tale avviso, quindi, produce la nullità degli atti (verbale di accertamento e decreto prefettizio).

L’affermazione del diritto all’assistenza legale è importante perché tali accertamenti non sono da considerarsi meri atti amministrativi (come può essere un verbale per eccesso di velocità), ma sono prodromici ad un’eventuale azione penale, quindi il diritto di difesa si estende, ovviamente, al momento in cui iniziano tali atti di indagine.

Il desiderio di droga

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Ogni anno, quando parte la stagione estiva, animata da feste, concerti, discoteche stracolme di gente desiderosa di ballo&sballo, parte puntualmente la rassegna stampa, ormai quasi quotidiana, in tema di droga: sequestri di droga, arresti di spacciatori, i pericoli nell’assunzione di droghe, gli effetti devastanti delle droghe sui giovani e via discorrendo.

Allora, partiamo da un assunto semplice: l’argomento è tanto vecchio quanto di attualità. Sempre, ogni anno, almeno dagli anni Ottanta ad oggi, viene proposto e riproposto in tutte le salse e fa sempre presa (così come il sesso, la violenza o l’ammoree). Quindi mi son chiesto: ma perché non ne parlo pure io? Magari ci butto dentro un po’ di pensieri, di teorie, di considerazioni personali e contribuisco ad ampliare la già tanto abbondante letteratura sul tema. Massì, dai, facciamolo.

Però, assunto che l’argomento è vecchio, trito e ritrito, vorrei porre l’accento su due concetti tanto banali quanto spesso trascurati: non esiste la droga, semmai esistono le droghe; concetto ovvio, direte voi, ebbene provate a dirlo a chi fa le pubblicità progresso, ai genitori o – peggio – ai giornalisti che dicono sempre – banalmente – che la droga fa male, non curandosi affatto di spiegare che ogni droga nasconde diversi desideri (e questo è il secondo concetto) e quindi diverse cause che danno origine alla voglia di droga. Ma, peggio ancora, trascurano un altro aspetto ancora più ovvio: anche le droghe legali fanno male.

La droga legale e quella illegale

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Lo sappiamo tutti e sembra inutile ripeterlo, ma anche alcool e sigarette sono forme di droga, no? Entrambe hanno le caratteristiche tipiche delle droghe: alterano lo stato psico-fisico, creano dipendenza e provocano – in caso di abuso – problemi di salute e, in casi estremi, a lungo andare, anche la morte. Eppure sono droghe legali, come legali sono tante tipologie di medicinali che contengono gli stessi principi attivi di altre droghe (illegali), però socialmente sono accettabili, perché sono consentite per legge.

Quindi, riflettendo meglio, che differenza c’è tra una bottiglia di Jack scolata in una sera, 20 gocce di Lorazepam, una canna o una pasticca di Prozac? Per quanto riguarda le cause per cui si assumono, gli effetti (desiderati e non) o le conseguenze psico-fisiche, nessuna. Ma proprio nessuna. Per quanto riguarda, invece, l’accettazione sociale, quest’ultima è influenzata dalla legge, quindi dalla politica che – in nome della salute pubblica, del monopolio di Stato e della comunità scientifica internazionale – stabilisce cosa è legale e cosa no.

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E’ facilissimo procurarsi droghe legali su internet

Non esiste un concetto univoco di droga

Questa scelta arbitraria di decidere quali sono le droghe illegali e quali quelle legali è dimostrata anche da un’altra cosa: non esiste, nel nostro sistema penale, una definizione univoca di droga.

Esiste per tante altre cose (si sa, per esempio, cos’è lo sfruttamento della prostituzione, cos’è la diffamazione o cos’è un atto sessuale), ma non per la droga, per cui esiste solo un elenco di sostanze psicotrope illegali continuamente aggiornato dal Ministero della Salute. Eppure sarebbe facile, per il Legislatore, definire il concetto di droga. Non viene fatto semplicemente perché, sennò, verrebbero ricompresi anche l’alcool, il tabacco e tutti i medicinali per l’ansia, la depressione, l’insonnia, ecc.

Quindi si preferisce agire così, a tentoni, includendo di volta in volta le nuove sostanze psicotrope. Il ché, come tutti ben sappiamo, lascia ampio margine di manovra a quelli che – ogni giorno – inventano nuove smart drug, cioè droghe legali, i cui principi attivi non fanno parte dell’elenco e quindi, teoricamente, fino ai successivi aggiornamenti dell’elenco, possono essere spacciate senza alcuna conseguenza penale.

Insomma, se ci troviamo in questa situazione che ha del tragicomico (ma che è sì pericolosa, perché non sappiamo gli effetti delle nuove sostanze né con cosa vengono preparate) è solo colpa di scelte politiche che avevano senso negli anni Cinquanta, ma che oggi, per inerzia, perbenismo, lecchinaggio a Chiesa e case farmaceutiche, non vengono messe in discussione.

Il desiderio e il piacere

L’altro elemento che spesso molti trascurano è il desiderio.

Desiderio è una bella parola, ma che nasconde una forte dose d’inquietudine. Già, deriva dal latino de-sidus, cioè mancanza di stelle. Chi desidera, quindi, è insaziabile, perché brama qualcosa che non potrà mai avere e allora cerca di riempire la mancanza, ma non riempie nulla.

A questo concetto, prima dei latini, ci era arrivato Platone, con la metafora dei pivieri (charadriói), uccelli famosi perché si nutrono e defecano simultaneamente, quindi devono riempire un vuoto continuo, o dei morti dell’Ade, costretti a versare acqua in una giara forata, consapevoli che mai si riempirà.

Beh, in fondo anche ubriacarsi tutte le sere o prendere qualche goccia di valium è una forma di riempimento infinito di una giara bucata e drogarsi è quindi la stessa cosa: è desiderio, è voler riempire un vuoto che sarà pure sociale, individuale, causato dalla perdita dei valori, quello che è, fatto sta che è un vuoto incolmabile.

Lo sballo non è altro che una forma di alienazione dalla realtà, quindi un voler fuggire – per qualche ora – da quella vita normale fatta di noia, assenza di regole primarie (famiglia e scuola, in questo senso, hanno fallito miseramente) e di prospettive, difficoltà ad interagire nel mondo reale, isolamento, individualismo sfrenato, nichilismo dei valori e dell’affermazione del proprio sé sociale.

Il desiderio è sotteso al nulla, ad una mancanza

E con cosa colmi, almeno apparentemente e per poco tempo, quella mancanza? Con qualcosa di bello, di buono, di piacevole. Già, perché quasi tutti trascurano un aspetto essenziale nel comprendere il fenomeno, cioè che la droga è piacevole: le canne ti rimbambiscono e ti rilassano, l’ecstasy ti rende euforico e ti fa ballare tutta la notte, la cocaina ti eccita e ti stimola, l’eroina ti anestetizza e ti sottrae, per un po’ di tempo, alla fatica di vivere.

Se le droghe non fossero piacevoli non avrebbero senso di esistere e se è difficile uscirne non è perché ti rendono assuefatto (ciò vale forse per alcune droghe, non per tutte), ma perché non hai altri mezzi per riempire quel vuoto incolmabile e quella giara sempre più lesionata. Ma ad ogni droga corrisponde un desiderio e, in fondo, anche una funzione.

Le tipologie di droga e le funzioni sociali

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Hashish e Marijuana, le droghe leggere dei centri sociali

Le canne (o spinelli, anche se è una locuzione antica) sono tra le più diffuse droghe leggere in Italia e storicamente si attribuiscono a quegli ambienti alternativi, radicali, di sinistra, che molti identificano nei centri sociali.

Sia chiaro, le canne sono diffuse in modo capillare in tutti gli strati sociali, ma effettivamente si possono ricondurre a quella filosofia pacifista e non violenta tipica dei no-global alternativi, altromondisti e vagamente di sinistra. Perché? Primo perché si fumano quasi esclusivamente in compagnia (quindi è una droga socializzante) e poi perché le canne rilassano, rincoglioniscono e amplificano quel concetto del non ho voglia di fare un cazzo, molto diffuso in certi ambienti.

Si trova a costi bassi (da qui la capillare diffusione, anche tra gli strati sociali a basso reddito) ormai dappertutto, in particolare in eventi o locali alternativi (a cosa, non si sa più…).

Per il fatto che vengono annoverate tra le droghe leggere, si parla spesso di legalizzarle. L’argomento legalizzazione delle droghe leggere merita un approfondimento a sé e non mi pare il caso di trattarlo in questa sede, anche perché sull’argomento c’è molta confusione e un’abbondante letteratura, persino una proposta di legge.

L’ecstasy, la droga che toglie fatica e paura

E’ la droga più pericolosa per la salute ma la più diffusa nelle discoteche di tutta Italia. Ci sarà un perché? Se vogliamo sintetizzare gli effetti piacevoli dell’ecstasy, sono due: elimina la fatica fisica e riduce paure e tensioni sociali.

Insomma, chi assume questa droga può ballare tutta la notte, anche in modo esagerato, e non sentire fatica (da qui i numerosi casi di collasso cardiaco, perché il fisico, quando è stanco, ci lancia segnali che, invece, l’ecstasy nasconde), ma soprattutto perde quell’inibizione sociale che, spesso, è la prima causa delle frustrazioni nei primi approcci con una persona con cui si vorrebbe interagire.

Insomma, è una droga che nasconde due fatiche: la fatica fisica e la fatica d’intessere rapporti. E’ per questo che è la più diffusa tra giovani e giovanissimi, perché sono i primi a subire gli effetti dell’incapacità di allacciare relazioni reali e sono i primi ad aver perso quel concetto di trasgressione tipico degli assuntori di droga.

L’ecstasy, quindi, non è una droga, è solo un qualcosa che sciogli in un cocktail e che ti fa ballare, ti fa divertire, ti fa conoscere quella tipa che balla accanto a te e con cui, in condizioni normali, non ti sogneresti mai di provarci. Non capire questa sottile trasformazione della percezione dell’ecstasy significa fallire qualsiasi campagna di sensibilizzazione e qualsiasi tentativo di repressione del fenomeno.

La cocaina, la droga dell’efficientismo

In una società sempre più evoluta, che ti spinge a dare sempre il massimo di te, che ti induce a prestazioni che vanno oltre la tua tolleranza soggettiva, che ti oggettivizza e ti parametra ad altri (migliori di te), che ti dice o raggiungi il massimo o sei fuori, tu non hai più legami con il tuo corpo, le tue sensazioni, la tua soglia di fatica, i tuoi limiti soggettivi; ti senti inadeguato, non perché lo sei, ma perché gli altri ti dicono che devi andare oltre. Oltre a cosa? Oltre agli altri.

Devi alzare la tua asticella sempre un centimetro sopra gli altri, sennò non vali, sei superato, fuori, qualcun altro, più efficiente di te, ti sostituirà. E poi, oltre dove? Oltre in tutto: nello sport, nel lavoro, nei rapporti sociali, in tutto. E quindi la cocaina è quella droga che ti stimola, ti fa sentire meno la fatica, ti rende più efficiente.

Peccato che, finito l’effetto, torni a competere con la tua inefficienza, che altro non è se non la pura e semplice normalità. La coca, quindi, è anti-umana, è la negazione dei limiti soggettivi e la risposta ad un vuoto interiore provocato da richieste di performance sempre più pressanti e competitive.

E’ vero che la coca è una droga socialmente snob (dato l’alto costo) e accettata, assunta, diffusa da personaggi d’alto rango, politici, imprenditori e gente che conta, ma un’inchiesta del 2008 di Loris Campetti intitolata “quanto tira la classe operaia” mise in luce l’uso eccessivo di coca tra la classe operaia, appunto per poter competere con i ritmi incessanti dell’efficientismo moderno.

Tra l’altro, negli attuali tempi della crisi economica, anche il costo della coca è sceso ed è appannaggio non solo degli snob, ma anche di ampi strati sociali.

L’eroina e il buco che torna

L’eroina è una droga sporca, la più condannata socialmente, dai media e dai benpensanti, ma la più diffusa tra gli anni ’70 e ’90. Nell’immaginario collettivo è la droga dei tossici, degli ultimi, di quelli che ciondolano per strada, con la faccia smunta e gli occhi ormai persi nel vuoto, per raccattare qualche spicciolo e comprarsi un’altra dose.

Pensavamo che fosse finita, ma in realtà oggi s’insidia tra i giovani e meno giovani e si apre ad ampi strati sociali, a causa anche del bassissimo costo a cui si trova. L’eroina è la droga sporca per via del fatto che bucandosi con la stessa siringa si rischia la diffusione di malattie infettive e pericolose, ma è la droga di chi cerca l’anestesia totale dal mondo, di chi vuol sentire quel piacere che non è sballo, ma è abbandono, è morte apparente, è un viaggio fuori dalla realtà.

Se la coca costa tanto, le canne si fumano in compagnia, l’ecstasy è la droga del sabato sera, l’eroina è l’infame compagna della quotidiana solitudine, dell’inadeguatezza di stare al mondo, quel mondo da cui fuggi per non sentirne il dolore.

Le campagne di sensibilizzazione sbagliate e la cultura dell’anti droga

Ogni droga, quindi, ha bisogno di diverse cure, di diverse campagne di sensibilizzazione. Dire la droga fa male oppure crea dipendenza è banale, inutile e fuorviante. Una vera campagna informativa contro le droghe (e non la droga) dovrebbe avere target differenti (come si dice nel gergo dei marchettari) e parlare linguaggi differenti, dovrebbe stuzzicare i destinatari sulle cause, non sulle conseguenze, ma soprattutto dovrebbe smettere di puntare l’attenzione sulle dipendenze.

L’assuefazione fisica e psichica è l’ultimo dei problemi, lo è nelle droghe come lo è nel fumo di sigaretta. Peccato che a leggere il sito del Ministero della Salute, troviamo molta ignoranza in materia, addirittura si afferma che la dipendenza psichica è una dipendenza che non passa mai del tutto. Chiaramente con questa rappresentazione meccanicistica del problema non si arriverà mai ad una soluzione.  

Sono le cause e il contesto sociale in cui si sviluppano queste forme patologiche ad essere il fulcro del problema

Bene fanno le comunità terapeutiche ad indagare il vissuto di ogni persona che le frequenta (tossicodipendente è un’espressione che non amo usare, troppo brutta e inesatta), ma sappiamo che anche questa metodologia lascia il tempo che trova.

Perché nel momento in cui hai disintossicato con i farmaci la persona e hai creato, in comunità, uno scudo sociale, lo hai effettivamente aiutato, ma quando tornerà nel suo ambiente originario, gli scudi si romperanno e la voglia di riprendere tornerà inesorabilmente. Un po’ come accade a Mark Renton in Trainspotting: smette di bucarsi, con grande impegno, poi ritrova i suoi vecchi amici eroinomani e torna a bucarsi, così tutti i suoi sforzi si vanificano nel giro di pochi minuti.

Come con il fumo di sigaretta, così con la droga non basta un semplice cartello “vietato fumare” per far smettere improvvisamente alla gente di fumare, occorre creare una vera cultura dell’antidroga. Quindi, così come se oggi accendo una sigaretta e il gestore del locale o gli avventori mi si palesano ostili e mi offendono, così in discoteca potrebbe accadere la stessa cosa, se il ruolo della scuola, della famiglia, dei gestori dei locali e degli avventori fosse proattivo e non passivo.

Sembra facile a dirsi, e in effetti lo è

Non è un processo che si svolge dall’oggi al domani, ma occorre avere consapevolezza che per ridurre un fenomeno bisogna conoscerne le cause, non solo gli effetti. Quindi una campagna di sensibilizzazione che punta sul fatto che la droga uccide e la vita è più importante, è completamente fuori strada, perché è proprio la vita che porta tanta gente a drogarsi. Anzi, non la vita in sé ma la malavoglia di vivere, quindi se vai a dire ad un ragazzo che la vita è importante e la droga fa male, lo convinci ancora di più a provare tutte le droghe possibili!

Allora proviamo un attimo a capire le cause del fenomeno, sempre tenendo a mente che ad ogni droga corrisponde un malessere di fondo ben diverso, come diverso è il contesto sociale o il beneficio che si vuole trarne, smettiamo di parlare di dipendenze (nessuno è dipendente e le droghe non creano nessun fenomeno irreversibile né fisico né psicologico) e soprattutto smettiamo di considerare le droghe come elementi trasgressivi. Non lo sono più, ormai fanno parte della normale fuga dalla normalità.

La trasgressione, da quando abbiamo tolto i paletti morali, non esiste più e quindi le droghe non sono trasgressive, perché, anche se vietate, sono facilmente reperibili. E poi, per favore, smettiamola con queste insulse campagne di sensibilizzazione che parlano di quanto è bello vivere e quanto è cattivo drogarsi. Dopo aver visto questo video mi vien voglia di farmi un cocktail a base di cicuta.

Mannaggia agli ambulanti del Salento!

ambulanti cacciati spiaggia salve

Ogni giorno, passeggiando per le vie del mio paesello, per fare compere e commissioni, lo vedo sempre lì, nello stesso angolo, col suo carretto, a vendere mercanzia varia: lampadari, orologi, oggetti tecnologici degli anni ’80 (ma che ancora, con ostinazione, continua a vendere), accendini, bracciali e altri oggetti che ormai non riconosco più, persi tra la polvere e le plastiche che li avvolgono ormai ingiallite dal tempo. Lui è ancora lì, nel freddo gelido dell’inverno o sotto al sole caldo (mai come quest’anno) di agosto.

E’ un marocchino. Anzi, è IL marocchino.

Quando ero piccolo, tutti i venditori ambulanti, siano stati essi senegalesi, tunisini, turchi o di chissà di quale parte del mondo, dalle mie parti venivano chiamati i marocchini. Il termine “marocchino”, quindi, non indicava la provenienza geografica, ma la professione: eri un ambulante? Eri, quindi, un marocchino. Ma quello del mio paese è per davvero un marocchino, quindi ne deduco che siano stati i primi a venire nel Salento e a svolgere la nobile professione dell’ambulante. Poi, col tempo, altra gente, di altre etnie e provenienze, hanno arricchito i nostri paesi e le nostre spiagge svolgendo lo stesso lavoro, ma per noi erano sempre li marucchini.

Eccolo lì. Lo vedo mentre, con la macchina e sotto l’afa micidiale di un caldo anomalo (che mi fa sudare peggio che in Marocco), percorro quella stessa via per andare prima alle poste e poi al forno, a prendere un po’ di pane. E’ sempre lì, con il suo carretto, fermo all’ombra a contemplare il nulla e a salutare con impercettibili segni del capo gli automobilisti che strombazzano con il clacson mentre gli passano accanto. Tanto tutti lo conoscono e lui conosce tutti.

Mi sono sempre chiesto a cosa pensasse durante le lunghe ore che passa seduto sul ciglio di quella strada. A me sembra, dallo sguardo e da quel sorriso tenero e sornione, che contemplasse l’infinito svolgersi di una vita ciclica e finita, fatta di abitudini e facce note, di auto che cambiano e volti che invecchiano. Del resto lui è sempre lì, in quell’angolo di strada, da ché ne ricordi.

E poi l’estate, al mare. Anche lì, passeggiando sul lungomare o sdraiati sulla spiaggia a prendere il sole, trovi li marucchini. Non so se tra di loro ci fosse anche lui, ma so che – sin da piccolo – per me rappresentavano quel complesso folklorico che contribuiva ad arricchire la spiaggia e le lunghe giornate di mare. Li vedevi passare con quei carretti, pieni di vestiti o di salvagenti, canotti, braccioli, lettini, carichi come muli, fermarsi ogni tanto per prendere respiro e poi continuare la lunga passeggiata tra i bagnanti, per poi fermarsi quando qualcuno – con un cenno della mano o un fischio – attirava la loro attenzione perché interessati ad acquistare (o forse solo ad informarsi) un materassino, un paio di braccioli o una paperella per i propri figli.

Gli ambulanti senegalesi

Poi, quasi senza accorgermene, intorno agli anni ’90, sono arrivati i senegalesi, con i sorrisi stampati in faccia e gli occhiali da sole, bracciali, treccine (da fare lì, sul momento, soprattutto ad opera di corpulente donne senegalesi) o altra merce varia. Ogni tanto li vedevi sbucare e fermarsi a chiacchierare. In quel periodo della mia prima adolescenza, frequentavamo sempre la stessa spiaggia di Porto Cesareo, sul confine tra gli scogli e la sabbia. Ai miei piacevano gli scogli, mentre io propendevo più per la sabbia, anche se mi divertivo un mondo a dar la caccia ai granchi e a saltare da uno scoglio all’altro per dimostrare ai miei le mie doti funamboliche. Però, in fondo, preferivo la comodità della sabbia e le belle signorine che la popolavano. Fatto sta che in quel periodo passava da lì ogni giorno un ragazzo senegalese, fisico atletico, alto come un giocatore di basket, nero come la pece e simpaticissimo, che aveva preso l’abitudine di fermarsi a chiacchierare con noi. Non per venderci qualcosa, ma così, giusto per parlare. Mia madre si prodigava ad offrirgli qualcosa di fresco da bere e lui si vedeva che era commosso da quest’affetto, tanto che, dopo un po’ di giorni, iniziò a raccontarci la sua vita, le sue tribolazioni e il motivo che l’aveva spinto ad abbandonare il suo paese per venire a fare l’ambulante in Italia. L’appuntamento con lui era ormai fisso e, solo ogni tanto compravamo qualche braccialetto. Non per carità, nemmeno perché obbligati o tanto meno perché indotti. Semplicemente per tenerezza e simpatia. Poi, si sa, l’estate finisce, ti fai grande, cambi spiaggia, esci con gli amici e…beh, di quel senegalese ho perso le tracce e non so che fine abbia fatto.

Gli ambulanti e la tecnologia

Poi vabbè, appunto, cambi spiaggia, vai al mare con gli amici e, tra un bagno e una partita a tressette, ti trovi l’immancabile senegalese che vende varia mercanzia sulla spiaggia. Siamo negli anni 2000 e questa volta la merce è più cool: radioline bluetooth con lettori di schede SD a 7,00 € (che ho pure comprato qualche anno fa), laser a led, occhiali da sole a specchio (brrr…) e persino tatuaggi temporanei o massaggi. Gli ambulanti sono aumentati e ognuno, pur di vendere, usa tecniche diverse e fantasiose, come quel senegalese che, sulla spiaggia più affollata di Porto Cesareo, gridava caccia li sordi ca li teni, con un dialetto perfetto e un’intonazione che ti faceva sorridere e ti faceva allibire davanti a tecniche di marketing così semplici ed efficaci.

Il tutto, va sottolineato, nel rispetto delle persone. Cioè, mai nessun ambulante ha cacato il cazzo alla gente che stazionava sulla spiaggia. Sia chiaro.

Poi si sa come sono andate le cose. Oggi ci troviamo ad assistere ad un’escalation di presenze di extracomunitari che, chiaramente, sono invadenti, ma sono spesso oggetto di forme di schiavismo da parte di negrieri (è il caso di dirlo) tutti nostrani, che si accaparrano sti poveri cristi, appena sbarcati in Italia, gli mettono in mano un po’ di merce e gli dicono: andate e vendete e se a fine serata non mi portate almeno X euro, col cazzo che mangiate. E appena fate XX euro, vi restituisco il passaporto. Questi benefattori, che danno un lavoro ai poveri ambulanti extracomunitari, sono, ovviamente, nostri compaesani, vicini di casa, ferventi cattolici, grandi frequentatori di chiese o circoli di partito, professionisti stimati e amici di tutti. Gli extracomunitari, senegalesi, tunisini o marocchini che dir si voglia, invece sono poveri cristi che non conoscono nessuno e nessuno s’incula, che si fanno i km sulle spiagge, spesso carichi come muli, si beccano le bestemmie, le parolacce o i “no grazie” (quando gli va bene) e oggi pure le beffe razziste.

Scusate, ma che è successo?

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Eh, ne sono successe tante. A Torre Chianca (marina leccese) che, detto tra di noi, vi invito ad evitare per svariati motivi, uno tra i tanti ambulanti, un ragazzino di 17 anni ha quasi perso la vita, tra l’indifferenza generale di una marina stracolma di gente, il tutto a causa dell’arroganza di un paio di tizi che non mi esimo a definire due coglioni. Qui i fatti. Se non vi va di leggerli, è successo che un ambulante di appena 17 anni fu aggredito, nel 2015, solo perché un ragazzo, sedicente cliente, rubò un paio di occhiali dall’ambulante e, dopo le proteste di costui, accorsero gli adulti che, invece di deprecare l’ignobile gesto, di tutto punto presero l’ambulante e tentarono di affogarlo in acqua. Il tutto sotto gli occhi di tanti bagnanti, rimasti fermi ad osservare la simpatica scena. Qualcuno avvisò la polizia e, quando arrivarono i poliziotti, vennero accerchiati e gli venne impedito di salvare il povero ragazzo.

Mentre l’ultima (in ordine di tempo) è successa in quella spiaggia che viene definita Le Maldive del Salento (paesaggisticamente carina, non bella, che vi invito ad evitare per quello che appresso dirò), dove un accorto gestore di un lido ha fatto di tutto per eliminare gli ambulanti che – a detta sua – rovinano la bellezza del paesaggio. Nel suo accorato post, il tizio (persona è termine troppo civile da essergli attribuito) spiega che gli ambulanti “da anni rendono impossibile il riposo sulla nostra spiaggia e il godimento del panorama”, e infine – probo e onesto – aggiunge che “non meno grave (…) è l’aspetto fiscale tanto pesante per …. noi italiani !”. Ora, a parte che al tizio occorrono urgentemente lezioni di grammatica e di punteggiatura, va evidenziato che il proverbio salentino “lu ‘mboe chiama curnutu lu ciucciu” (il bue chiama cornuto l’asino) è da attribuirsi a gente come lui che – con stragrande probabilità – fiscalmente ha più scheletri nell’armadio di tanti poveri ambulanti. Ma non solo. Come una buona capra (o webete, per dirlo alla Mentana), non sta mica ad interrogarsi sul perché, chi o come ha messo lì quei disgraziati. No, chiama i carabinieri di Salve, di Tricase, di Gagliano del Capo, insieme al Comune di Salve (e giacché perché non i Marò?) per fare cosa? Rimuovere un povero Marocchino e sequestragli la merce. E, come un buon analfabeta funzionale (ma forte della sua posizione di egemonia economica sul territorio delle Maldive, del Salento, però) si fregia della sua operazione di pulizia razziale sui parchi lidi del basso Salento, così finalmente i suoi avventori potranno dormire sonni sereni sotto al solleone agostano, privi di venditori abusivi ma adagiati su lettini posizionati da autoctoni salentini magari pagati a voucher e serviti da baristi con contratti a termine, di cui, chissà, un tanto in regola e un tanto in nero, che magari ti vendono un caffè in ghiaccio a 2 euro, perché sai, nei lidi vale tanto e il personale costa assai…

E mentre il gestore del lido bestemmia contro la casta, impotente dinanzi all’ineluttabilità del destino, si scaglia contro l’unica categoria con cui può prendersela: uno più povero di lui. Perché in Italia – anche nell’Italia del Sud – povera tra i poveri, figlia della società contadina e fiera allieva del disagio e della cultura della fratellanza (o del cumpà, stamu sulla stessa barca), c’è chi ripete il clichet banale di farsi lupo con le pecore e pecora tra i lupi. Insomma, nulla di nuovo sotto al sole. Di nuovo, però, c’è che nei lidi gestiti da lupi non ci metto piede.

Uscite dai Social!

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Ovvero, la truffa dei Social Network che ci controllano, influenzano e decidono su di noi con oscure linee guida.

I social, si sa, sono nati per far interagire le persone, mantenerle in contatto, creare nuove relazioni, condividere ricordi, esperienze, pensieri, far conoscere prodotti o servizi, per vendere sé stessi e per far conoscere e diffondere battaglie sociali o ambientali.

Insomma, sono una cosa buona, almeno per come sono stati pensati all’inizio. Però dal 2006 ad oggi (anno in cui Facebook, il primo Social Network, ha iniziato a diffondersi in Italia) molto è cambiato, in particolare nella gestione delle relazioni da parte di una sempre più spudorata filosofia del controllo e delle influenze sociali, non tanto quella di Orwelliana memoria (che ha ispirato la concezione del Grande Fratello e che trova le sue radici nel Panopticon di Jeremy Bentham), ma più semplicemente e meschinamente quella della pianificazione strategica degli obiettivi aziendali.

Secondo tale visione gli utenti sono considerati dei meri prodotti da cui trarre ogni informazione possibile finalizzata a vendere prodotti e servizi cuciti su misura, ma, dato che la frammentazione è difficile da gestire, finalizzata soprattutto a influenzare gusti e tendenze per poter, al fine, attuare pratiche commerciali di massa precedute da esperimenti sociali di massa.

E’ evidente che in questo contesto la politica internazionale, di stampo capitalista, è attratta da questi modelli come una mosca è attratta dalla cacca, per cui entra con tutti e due i piedi nella gestione dei Social, favorisce e influenza le linee guida per la moderazione dei contenuti, decidendo cosa è conveniente diffondere e cosa, invece, va relegato nell’oblio delle relazioni sociali virtuali o, peggio, va deriso, annichilito, strumentalizzato.

Detto in altri termini, molto più sintetici, i Social sono nient’altro che prodotti per calmierare il mercato delle relazioni sociali e per controllare, gestire e razionalizzare la massa (a)critica di contenuti teoricamente liberi ma influenzati, mentre quelli potenzialmente dannosi per la tenuta del sistema sociale vengono marginalizzati, derisi (anche e soprattutto dagli stessi utenti) e, al limite, oscurati. Nemmeno così è chiaro? Allora ti rubo solo 2 minuti per spiegare meglio il concetto. Ma, come mi piace fare sempre, parto dagli inizi.

La genesi di Facebook

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Mark Zuckerberg, l’uomo da un miliardo di dollari l’anno

Tra il 2003 e il 2004 un giovanissimo Mark Zuckerberg creò un portale finalizzato a rendere interattivo sul Web il classico faccia-libro dei college americani (da qui il nome) che raccoglieva foto, nome e corsi frequentati da ogni studente.

Dato il massiccio successo del Social, questo si diffuse rapidamente anche fuori dai campus universitari, trasformandosi da un Social per studenti a un Social per chiunque. Non più solo studenti, ma tutte le persone potevano entrare in contatto: parenti, amici, ex compagni di scuola, colleghi di lavoro, ecc.

L’idea era buona e, di lì a poco, portò alla nascita di una nuova concezione del web: non più perso nell’anonimato di nick e avatar, ma popolato da persone reali, cioè da persone che – volontariamente – inserivano sul social i propri dati personali: nome, cognome, luogo e data di nascita, foto personali, ecc., il tutto nel nome dell’allaccio dei rapporti.

Una vera rivoluzione digitale, insomma. Non che il web sia cambiato da quel momento, attenzione, perché ancora oggi, a distanza di 13 anni, sopravvivono forum, blog o chat popolati da pseudonimi e nick, ma è innegabile che Facebook abbia contribuito alla identificazione degli utenti del web.

Ma il sistema non funzionava…

Però il “sistema”, dopo pochissimo tempo, iniziò a scricchiolare, perché in effetti la gente gradiva la possibilità di interagire con persone conosciute o di riallacciare i rapporti con persone perse nell’oblio dei ricordi e magari residenti in altre parti del mondo (tanto che, per anni, è sopravvissuta la moda di creare gruppi di gente con lo stesso cognome, per ritrovare radici comuni), ma non gradiva affatto il confronto di idee diametralmente opposte alle proprie.

Insomma, molte persone, restie al confronto e al dibattito, cominciavano a disaffezionarsi allo strumento perché sgradivano la presenza, sulla propria home, di contenuti dissimili dalle proprie convinzioni.

L’algoritmo che ti fa sentire a tuo agio

Zuckerberg, che non è fesso e che spesso ha usato gli strumenti statistici di gradimento del proprio social (abusandone a volte) per capire le tendenze dei propri utenti, ha corretto il tiro creando un algoritmo che si chiama EdgeRank, il quale sceglie i contenuti da far vedere agli utenti in base ai contenuti che essi gradiscono tramite like, commenti e condivisioni.

Oddio, l’algoritmo cattivo è nato “ufficialmente” per gestire l’enorme mole di contenuti pubblicata sul social (quindi sarebbe impossibile mostrare tutto ciò che viene pubblicato dai propri contatti), ma di fatto apre a un nuovo interessante scenario sociale: l’utente viene inserito in una sorta di area di confort, in cui vede solo ed esclusivamente i contenuti di persone con cui interagisce maggiormente e che, quindi, apprezza.

Quello che i cervelloni della Silicon Valley cercano di fare è di trattenere quanto più possibile i propri utenti sul Social, mostrando loro cose che apprezzano. E’ evidente che questo sistema da un lato evita il confronto (o lo scontro) di visioni opposte, ma dall’altro rimbambisce le coscienze perché contribuisce a creare una visione (seppur virtuale) di un mondo conforme alle proprie credenze, illusioni e aspirazioni.

Un modello vincente

E’ inutile dire che il successo di questo “modello” è stato mutuato da altri Social, come Twitter, You Tube e Google Plus ed è stato attenzionato dalla politica globale.

Già, perché Zuckerberg, Larry Page, Sergey Brin e oggi il nuovo CEO Sundar Pichai (vertici di Google) si incontrano regolarmente con la Casa Bianca e persino con il Pentagono per questioni di sicurezza nazionale, ma soprattutto per definire le politiche dell’informazione globale.

Eggià. E’ recente la notizia per cui i vertici di Facebook e di Google hanno siglato un accordo volto a ridurre le bufale e le fake-news su internet. Come? Attraverso potenti algoritmi in grado di riconoscere le notizie false e relegarle nell’oblio della rete (in settima o ottava pagina su Google o in fondo alla home su Facebook), perché al giorno d’oggi le notizie scomode (o false, chissà) non si cancellano più (altrimenti si griderebbe allo scandalo e alla censura) ma semplicemente si relegano in fondo, dove solo gli utenti più certosini arrivano, ma dove la massa di utenti non arriva.

L’Italia finalmente ha una scusa per regolamentare la rete

parlamento

Pare ovvio dire che questo rimedio è stato invocato dalla classe politica e dai media nostrani come un toccasana per l’informazione “vera” (leggasi: di regime), perché, con la scusa della lotta alle bufale e alle fake-news, finalmente si ha una scusa valida per regolamentare un settore delicato e oggetto – da quasi 20 anni ormai – di disegni di legge sempre discussi ma mai approvati.

Ora, invece, la proposta attuale prevede l’istituzione di un’Autority pubblica e indipendente (anche dal sistema giudiziario) che, attraverso le segnalazioni, provveda a far cancellare i contenuti falsi e diffamatori in modo rapido e autonomo, cioè senza il preventivo passaggio da un organo giudiziale che – data la lentezza delle procedure – non permetterebbe di rimuovere in tempo contenuti potenzialmente diffamatori o pericolosi.

Le intenzioni sono corrette, sì, ma senza un contraddittorio saremo certi che i contenuti siano effettivamente bufale, fake-news, diffamazioni o non invece articoli scomodi al sistema di potere? Se è vero che le Autority sono organismi indipendenti, è anche vero che sono – di fatto e immancabilmente – sbilanciati verso chi li ha nominati (o li controlla o semplicemente ne conosce componenti e dinamiche interne…) piuttosto che verso il semplice cittadino.

Del resto in Italia siamo abituati al fatto che ogni legge liberticida è lastricata di buone intenzioni.

Ma questo sistema che si vuole introdurre in Italia, è già di fatto applicato dai gestori dei Social e tutti quanti ne conosciamo l’uso e le finalità: le cosiddette “linee guida”.

Le linee guida per la moderazione e l’arma della segnalazione

segnalazione contenuti social facebook

A chi non è mai capitato di segnalare a Facebook o a Twitter un contenuto ritenuto offensivo? Si tratti di pornografia, odio o violenza, offese o insulti, più o meno a tutti quanti è capitato di segnalare contenuti sgraditi.

E quante volte Facebook ci ha risposto che i contenuti non sono stati rimossi perché non violano le linee guida? Capita soprattutto quando si segnalano gruppi estremisti che inneggiano all’odio razziale, al fascismo o alla violenza.

Rispettano le linee guida, sì.

Ma l’immagine di un quadro, come il Cupido di Caravaggio, viene immediatamente censurata perché non rispetta le linee guida. Ciò accade da anni ed è successo per un quadro di Modigliani, il Nudo di Courbet e per tantissime altre opere d’arte che contengono pure un accenno di seno! E quindi? Che criteri usa Facebook per stabilire cosa è conforme e cosa no? Per non appesantire la lettura, vi rimando a quest’ottima inchiesta del Guardian.

La realtà è che i Social hanno regole tutte loro per decidere cosa è sconveniente e cosa no, regole che – ovviamente – non sono né democratiche né socialmente condivise da chi usufruisce del servizio, semplicemente sono imposte e decise dagli sviluppatori e dai CEO dei Social, in combutta con la politica e, chiaramente, con i finanziatori.

E’ qui che casca l’asino.

Il caso Tartaglia

Ricordate il caso Tartaglia? L’assalitore di Berlusconi? Successe nel 2009. Dopo il fatto, nacquero diversi gruppi su Facebook, che inneggiavano all’assalitore. Nessuna segnalazione fu sufficiente a rimuoverli, ma bastò una telefonata dell’ex Ministro Maroni al CEO di Facebook per far rimuovere i contenuti.

Ecco, questa è la summa della democrazia sui social. E attenzione, badate bene, non è un problema di poco conto. Qualcuno risponderebbe che i vertici dell’Azienda possono decidere liberamente cosa far pubblicare e cosa no, perché in fondo il Social è casa loro e noi siamo “ospiti”. Ma oggi non è più così.

I social sono una cosa pubblica

I Social influenzano pesantemente ogni singolo aspetto della vita di una persona, persino della vita di un’Azienda o di una formazione politica, sono entrati così capillarmente nelle nostre vite e nelle nostre scelte quotidiane da esserne ormai parte integrante, quindi una discussione sulla democratizzazione dei Social sarebbe più che opportuna.

Andrebbe fatta almeno per riflettere su cosa sia davvero preminente per la tenuta sociale e democratica di un Paese, cioè se contano più le Costituzioni e le Leggi o il capriccio di un CEO che vive dall’altra parte del Mondo e decide le sorti di persone, gruppi, partiti o Aziende, così, magari di testa sua oppure influenzato da finanziatori e potenziali avversari delle sopracitate.

Il problema, come vedete, non è banale e comprende molti aspetti politici e giuridici: dalla gestione dei dati personali alla privacy degli utenti, all’educazione dei figli (come crescerà un figlio se sui social ha accesso libero a contenuti di odio e violenza?), alla diffusione di ideologie e concetti distorti, all’alfabetizzazione emotiva e, non ultimo, alla governance del web.

Gli esperimenti social

Social

Una cosa di non poco conto (se non vi bastassero quelle appena raccontate) è che Facebook ci usa costantemente per esperimenti sociali di vario tipo.

Per esempio, nel 2012 ha controllato quanti utenti iniziassero a digitare uno status che superava i 5 caratteri e che non veniva pubblicato entro 10 minuti dalla composizione. Ciò per capire cosa avrebbero scritto e cosa ha spinto gli utenti a non pubblicare il proprio aggiornamento. Ma non solo.

Le foto profilo con l’arcobaleno (per appoggiare i diritti dei gay) o con la bandiera francese (in segno di vicinanza ai francesi, colpiti dagli attacchi terroristici) non sono altro che esperimenti su cavie di laboratorio (cioè gli utenti che l’hanno fatto…) per capire quante persone si adeguano agli atteggiamenti collettivi e, quindi, sono facilmente influenzabili dalla viralità dei contenuti.

Tra l’altro la sempre più invasiva diffusione di contenuti di bassa qualità, per non parlare delle fake news, alza sempre più l’asticella dell’analfabetismo funzionale, che già in Italia ha raggiunto livelli allarmanti.

Gli esperimenti più nascosti riguardano i gusti e le tendenze commerciali

Quindi ogni volta che partecipi a un test tipo “cosa farò da grande” o “quale personaggio storico sarei” o, ancora, “chi ero in una vita precedente”, sappi che Facebook o aziende controllate, stanno studiando i tuoi comportamenti, i tuoi gusti e le tue tendenze. Perché? Per capire chi sei, cosa fai, cosa ti piace, per chi voteresti (esperimento già fatto nel 2010, con successo, e per cui le influenze sono state significative negli USA…), che gusti sessuali hai, come ti poni con la gente, ecc. Tutto nel nome del “sano divertimento social”, che per te è inoffensivo, certo, ma per loro rappresenta una forma di guadagno, di controllo e di influenza, commerciale e soprattutto politica.

Quindi se ti dichiari antisistema, ma poi partecipi a questi test (inconsapevolmente, ovvio), sappi che sei ben integrato nel sistema e ne esci fuori solo in un modo.

Uscite dai social!

facebook social exit

Uscite dai social non è un’esortazione, perché so benissimo che – almeno nel breve e medio periodo – ciò non accadrà e che ormai siamo tutti assuefatti dalla droga sociale e dal nostro alterego virtuale che ci consente di buttare sui Social tutte le nostre inadeguatezze reali e di crearci un personaggio, più o meno credibile e famoso.

Io, per esempio, non ci sto più. Sopravvivo solo su twitter, consapevole che, purtroppo, è un modo per far conoscere i miei quattro articoli ai miei quattro lettori.

Tra l’altro sappiamo tutti benissimo che la fama sui Social non corrisponde né alla fama reale né ad un nostro appagamento spirituale (né tanto meno materiale…), però anche questo fa parte della pia illusione – tutta moderna – che l’apparire virtuale conta più dell’essere reale.

Uscire è l’unico modo per salvarci

Uscite dai Social non è un’esortazione, è solo la lucida consapevolezza che è l’unico modo per salvarci, per smettere di essere cavie, per finirla di essere influenzati, per tornare ad essere persone e non prodotti e, per l’effetto, per ripristinare – questo sì nel lungo periodo – quel minimo di socialità e senso critico che ci consentirà, un giorno, di riprendere in mano le sorti del nostro Paese e di tornare a leggere, informarci e discutere faccia a faccia, magari arrabbiandoci a voce alta (e non pigiando con forza sulla tastiera e reprimendo quella rabbia annebbiata dalla luce del pc o del telefono).

Insomma, di tornare a quella vita reale fatta di scelte consapevoli che i cosiddetti nativi digitali non riescono nemmeno ad immaginare. Ma ciò non vuol dire abbandonare internet, semplicemente vuol dire abbandonare i Social, che di sociale – francamente – hanno un bel nulla e che ci stanno facendo dimenticare – a poco a poco – la vera socialità, quella fatta di sguardi, parole, toni e gesti che rappresentano la vita vera.

Quella vera, non quella che passiamo rincoglioniti davanti ad uno schermo, illudendoci di essere connessi col mondo ma in cui siamo solo prodotti marci, da svendere al primo inserzionista di turno, per venderci cazzate che non ci servono o per estorcerci (volontariamente, ma in modo indotto) voti e consensi, modificando, senza che noi ce ne accorgessimo, pensieri, ragionamenti, sogni e illusioni.

Il tutto mentre clicchiamo sull’ennesimo like o postiamo il buongiorno caffè? a un contatto, amico e compaesano, che non sa nemmeno chi cazzo siamo. Lui non lo sa, ma un tizio, dall’altra parte del Mondo, lo sa benissimo. E si sfrega le mani.

La guerra calda tra Usa e Russia

putin assad trump Usa e Russia

Il Congresso USA approva nuove sanzioni contro la Russia, Putin risponde cacciando via 755 diplomatici e impiegati dell’ambasciata americana in Russia (su 1210), mettendosi così in pari con gli USA (455 sono i diplomatici e impiegati russi negli USA) e gli inizi di un agosto così rovente sul piano climatico e geo-politico ci regalano l’ennesimo teatro della guerra calda tra Usa e Russia. Calda come il sole d’agosto al mare, che ti scotta, ti arrossisce e ti spella. Ebbene, sul piatto della bilancia abbiamo diversi attori, tutti protagonisti di una fiction che, secondo alcuni, potrebbe condurci verso una guerra cruenta con la Russia da un lato e l’Europa (quasi) tutta schierata con gli USA dall’altro.

Ma andiamo con ordine e vediamo che è successo.

Gli USA sanzionano la Russia

Pochi giorni fa il Congresso degli Stati Uniti d’America ha votato, quasi all’unanimità, una mozione per inasprire le sanzioni economiche verso la Russia, introdotte dopo l’annessione della Crimea del 2014, ciò per 3 motivi: il primo è perché, secondo loro, il Cremlino avrebbe interferito nelle elezioni politiche del 2016 (quelle che hanno portato alla vittoria di Trump); il secondo per l’annessione della Crimea alla Russia (cosa che agli USA non è mai scesa); il terzo per la guerra in Siria. Mo’ vediamo tutto con ordine. Sta di fatto che Trump tra pochissimo sarà costretto a firmare perché è vero che è fesso, ma sa che se non firma, può dire addio alla Casa Bianca, così, di colpo. In realtà Trump non sa che fare, fosse per lui porrebbe un veto nei confronti del Congresso, ma non può, altrimenti sarebbe tacciato di russiafilia (e gli contesterebbero di nuovo il russiagate), mentre gli USA – si sa – sono russiafobici e quindi ogni scusa è buona per inasprire i rapporti con la seconda superpotenza del Mondo. Ma vediamo i tre motivi che hanno spinto il Congresso a questa scelta.

Il russiagate

Secondo loro le elezioni statunitensi sono state influenzate dalla Russia, da qui è nato il nome russiagate (interferenze russe nelle ultime presidenziali statunitensi). Peccato che si tratti solo di enormi cazzate. Nessuno, finora, è stato in grado di fornire uno straccio di prova che dimostri le interferenze russe nella scelta del Presidente degli USA. Insomma, è solo fantasia statunitense, la stessa che ha portato a innumerevoli guerre (insensate) nella storia.

Crimea e Ucraina

La Crimea è una Regione dell’Ucraina. Dopo la rivoluzione arancione, a seguito del proliferare di gruppi neo-fascisti, pronti ad entrare in Europa, il popolo della Crimea, con referendum, ha scelto di essere annesso alla Russia e, quindi, di staccarsi dall’Ucraina. Né la NATO né l’UE hanno legittimato il referendum (cioè uno strumento democratico che legittima una scelta popolare) e quindi la Russia è andata in soccorso alla Crimea schierando le proprie forze armate. Quest’atteggiamento dispotico non è sceso alla comunità internazionale (in particolare ad USA, Francia e Inghilterra…), che hanno contestato le decisioni del Cremlino, chiedendo, quindi, di apporre pesanti sanzioni alla Russia. In poche parole è come se in una famiglia di divorziati una bambina, molestata dal padre, decidesse di andare a vivere con la madre e il giudice l’ammonisse dicendo che la sua scelta è scorretta e che deve continuare a vivere con il padre molestatore!

La guerra in Siria

Il discorso qui è semplice, anche se spesso viene incasinato dai media. La guerra in Siria inizia nel 2011, con la maledetta Primavera Araba, un movimento spontaneo (seh, seh, proprio…) con l’obiettivo di capovolgere i regimi, ma di fatto pilotato e finanziato dalla NATO. Da allora ad oggi la Siria è stato teatro di guerre cruente tra la popolazione, i terroristi e le due superpotenze: USA e Russia. Entrambe dicevano di voler sconfiggere l’ISIS, ma di fatto gli USA volevano sbarazzarsi di Assad, mentre la Russia lo difendeva. Assad, proprio come Saddam Hussein e Gheddafi, è un dittatore. Ma, a quanto ne sappiamo, è sempre stato un dittatore che ha saputo gestire il proprio paese. Certo, è un dittatore, ma non è molto diverso dai Presidenti USA che si alzano un giorno la mattina e iniziano a far guerre nel mondo…

Sta di fatto che gli USA sono convinti che Assad abbia le famigerate armi chimiche (madò! che scusa del cazzo, non avete proprio fantasia…) e che le abbia usate per attaccare Khan Sheikhoun. La Russia, alleata con Assad (perché in Siria ha diversi interessi economici) dice di no. Gli USA e la NATO dicono di si. E qui scoppia il casino. Putin difende Assad, che dice di non avere armi chimiche, mentre Trump dice di sì. Però possiamo fidarci degli USA? Ecco le ultime cazzate sparate dagli USA per giustificare le proprie guerre:

Numero 1. La guerra in Iraq. Correva l’anno 2003. L’allora Segretario di Stato Colin Powell, presso l’Onu, agitava una fialetta contenente, secondo lui, un veleno militare potentissimo in possesso degli iracheni. Nonostante i dubbi da tutto il mondo, il 20 marzo 2003 gli americani, con Francia e Inghilterra, attaccavano l’Iraq. Poi si scoprirà, dopo l’uccisione di Saddam (con un processo farsa sommario e vergognoso) che l’Iraq non ha armi chimiche manco per il cazzo e infatti, nel 2016, Blair, dopo un lungo processo, si scuserà perché non esistevano prove della presenza di armi chimiche in Iraq. Eh? Ma siamo impazziti? Te ne esci così, bello bello? Una comunità internazionale seria ti avrebbe già sbattuto in galera, tu e quel criminale di Bush.

Numero 2. La guerra in Libia. Correva l’anno 2011. Secondo una fonte poi rivelatasi inattendibile e sempre a causa della stra-maledetta Primavera Araba, Gheddafi stava facendo mattanza delle popolazioni di Tripoli e Bengasi. La realtà è che Francia, Inghilterra e USA volevano trovare un pretesto per accaparrarsi i giacimenti di petrolio e gas naturale della Libia, ma non sapevano come fare. E quindi convincevano la NATO che bisognava intervenire. Faranno solo un gran casino, quel casino che noi italiani ora stiamo vivendo con il dramma degli sbarchi e che i poveri libici vivono quotidianamente con le guerre tribali (che Gheddafi seppe gestire egregiamente). Le notizie si riveleranno false. Non c’è stato mai alcun attacco da parte di Gheddafi. Il risultato: un paese in lotta, con due governi, migliaia di morti innocenti e centinaia di migliaia di profughi che passano da quel Paese e che vengono trattati come schiavi. Però ora il risultato è che Macron può gestire la Libia come meglio gli pare.

La situazione attuale

Quindi come possiamo ora credere agli USA? Come possiamo credere che Assad stia facendo mattanza di civili usando armi chimiche? Putin lo sa ed è per questo che lo difende a spada tratta. Certo, se Assad stesse mentendo, Putin ci farebbe una figura di merda, ma – dati i precedenti – è molto più probabile che a mentire (e a fare future figure di merda, mai però sanzionate) siano gli americani, la NATO e, come sempre, Francia e Inghilterra.

E quindi siamo a oggi. Oggi che Putin, per rispondere alle insensate sanzioni statunitensi, caccia via i diplomatici americani dal territorio russo. Dovranno andar via entro i primi di settembre, a meno che Trump non si metta contro il Congresso e non avvii tentativi diplomatici con il Cremlino.

Una cosa però è certa: da queste tensioni diplomatiche non ne scaturirà una nuova guerra, almeno non una guerra fatta di bombe, armi chimiche, morte e distruzione. La guerra tra gli USA e la Russia è sì calda, ma non calda di bombe, è calda di rapporti diplomatici. Sia Putin che Trump sanno benissimo che – qualsiasi cosa accadrà – nessun missile colpirà il territorio nemico, perché altrimenti si aprirebbe il vaso di Pandora e gli altri nemici dei due Paesi – dichiarati o nascosti – si sentirebbero legittimati a partecipare, ma soprattutto perché gli interessi economici sono preminenti rispetto a quelli bellici. Nessuno dei due Paesi vuole una guerra vera e diretta, semmai il territorio dello scontro tra i due sarà il Medioriente, in particolare la Siria, che rappresenta un boccone geo-politico troppo importante nello scontro tra le due superpotenze, almeno finché Assad resterà fermamente alleato della Russia. Poi si vedrà. Peccato che è quasi impossibile fare previsioni, perché se è vero che la Russia lascia intendere le sue mosse, l’America, con un Trump ballerino e schiavo del Congresso, non ci fa capire le sue intenzioni. Ma forse non le conosce nemmeno lui.

Università, tagli e scioperi. Tutti hanno torto e ragione.

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Le università rappresentano il primo volano di crescita di un Paese, perché trasmettono cultura e, grazie alla ricerca, permettono ad un Paese di progredire. Attenzione, quando si parla di ricerca non s’intende solo la ricerca scientifico-tecnologica, quella è utile, sì, ma non è sufficiente. Il tecnismo, da solo, non basta a rendere un Paese culturalmente e socialmente maturo, anzi, se lasciato da solo rappresenta un pericolo. La ricerca è essenziale in tutti i campi, da quello giuridico-economico a quello filosofico e letterario, a quello politico, sociologico e antropologico. Insomma, tutti i campi del sapere hanno bisogno di ricerca.

Peccato che negli ultimi decenni, a partire dalla riforma Berlinguer, voluta dal centro-sinistra (Ministro Luigi Berlinguer, sotto i governi Prodi e D’Alema, da non confondere con il cugino Enrico, come spesso – oddio – mi è capitato di sentire…) e poi con la riforma Moratti (governo Berlusconi) e i successivi correttivi, le Università siano state considerate come meri istituti professionalizzanti, però dotati di autonomia. Ciò ha comportato l’abbassamento generale della qualità della didattica (pensiamo, per esempio, al sistema dei crediti formativi legato al numero di ore di lezione e al numero di pagine dei manuali) e ad una corsa sfrenata all’acchiappamatricole, con offerte formative spesso discutibili (corsi di laurea triennali inutili, corsi interfacoltà superflui) e slegati dal mondo del lavoro (molti corsi triennali non formavano figure appetibili alle Aziende). Se l’intento delle riforme era quello di legare Università e Lavoro, hanno fallito miseramente (come fallirà – e ciò merita un articolo a parte – l’alternanza scuola-lavoro voluta dal governo Renzi).

I fondi sempre più esigui alle Università

Il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), che è quel fondo destinato a finanziare le Università da parte dello Stato, è in rotta di collisione ormai da quasi 20 anni. Con le varie riforme e soprattutto a partire dagli anni della crisi economica il fondo è drasticamente calato, il ché ha comportato un notevole abbassamento della qualità formativa universitaria e il fuggi fuggi generale dalle Università del Sud (maggiormente colpite dai tagli) a favore di quelle del Centro-Nord. Basti pensare che l’art. 64 comma 13 della legge n. 133/2008 riduceva il FFO “di 63,5 milioni di euro per l’anno 2009, di 190 milioni di euro per l’anno 2010, di 316 milioni di euro per l’anno 2011, di 417 milioni di euro per l’anno 2012 e di 455 milioni di euro a decorrere dall’anno 2013”. Le manovre correttive successive hanno ridotto i tagli al FFO, però non hanno concesso fondi “a pioggia”, bensì sulla base di criteri premiali stabiliti dall’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR). E’ qui che casca l’asino. Vi chiedo giusto 20 secondi per leggere il paragrafo successivo e per capire come funziona l’attuale sistema di finanziamento alle Università.

l’ANVUR

Venne istituito nel 2006, con legge 286/2006, sotto il Governo Prodi, con Ministro dell’Istruzione Fabio Mussi (DS). L’Agenzia ha il compito di valutare le Università e la Ricerca con criteri piuttosto discutibili sul piano democratico, ossia i criteri non vengono elaborati da una discussione democratica (da un Parlamento o da un organo di raccordo tra Ministero e Università), ma da un’Agenzia che risulta formalmente autonoma, ma vigilata dal Ministero dell’Istruzione, tant’è che ultimamente le attività dell’ANVUR sono state oggetto di contenzioso giudiziale e la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha bacchettato l’ANVUR in merito ai criteri sulla valutazione delle riviste.

Già, è qui il punto focale della questione. L’ANVUR valuta le Università e l’operato del corpo docente soprattutto in base al numero di pubblicazioni fatte in certe riviste, da essi stessi indicate, e su cui il docente deve pubblicare, pena la decurtazione del finanziamento all’Università in cui opera. Quindi, per fare un esempio, se la rivista “il commento giuridico” (nome di fantasia) è accreditata dall’ANVUR e il docente pubblica tre articoli, di cui due con un semplice “errata corrige” (cioè una correzione formale, che nulla aggiunge al contenuto dello scritto), riceverà una buona valutazione (e quindi maggiori finanziamenti) rispetto ad un collega che pubblicherà 20 ottimi articoli su una rivista autorevole, internazionale e riconosciuta dalla comunità scientifica, ma non accreditata dall’ANVUR. Ciò comporta come corollario che il docente dovrà “farsi amico” l’editore e, molto probabilmente, seguire la sua linea editoriale, con buona pace della libertà della ricerca.

Dunque è facile immaginare che, nell’opacità dei criteri di valutazione e nelle scelte dell’ANVUR di finanziare in modo pressoché discrezionale le Università, si annidano le scelte politiche del Ministero che – controllando l’ANVUR – controlla di fatto il sistema universitario e ne lede l’autonomia, scegliendo chi finanziare e chi no, in un quadro in cui il FFO è misero e la vita dell’Università si gioca sul solo fondo premiale. Quindi, in buona sostanza, i docenti non sono più liberi di pubblicare sulle riviste universalmente riconosciute dalla comunità accademica internazionale, ma su quelle volute – in ultima analisi – dal Ministro e non sono nemmeno più propensi a fare ricerca, bensì a pubblicare anche roba trita e ritrita, l’importante è farlo dove vuole l’ANVUR!

Il baronato nell’università

Certo la colpa dello stato in cui versa l’Università non è solo della politica, anche i docenti hanno le loro colpe. Il sistema universitario italiano – nessuno escluso – è colpito dalle logiche baronali, per cui l’accesso alla carriera universitaria (dottorati, assegnisti, ricercatori) è appannaggio del docente politicamente più forte e autorevole nelle mura dell’Ateneo.

Non è certo un mistero che i concorsi per accedere al dottorato (a maggior ragione con borsa) siano truccati e cuciti su misura del candidato prescelto e che la logica di accesso allo status di assegnista o ricercatore è basata sull’obbedienza al docente e non sul merito. Ovviamente per mantenere quel misero assegno di ricerca, bisogna non infastidire né il docente né i suoi amici, anzi, a volte occorre sacrificare la propria dignità per rispettare le regole imposte dal docente o dal dipartimento da lui (o loro) controllato.

La denuncia della ricercatrice dell’Università di Pisa, salita recentemente alla ribalta nazionale, non stupisce nessuno di quelli che nelle università ci hanno studiato o combattono ogni giorno con il precariato e il nepotismo, fenomeni che colpiscono spesso, rispettivamente, chi vale e chi invece ha rapporti di parentela o amicizia con il docente, a discapito del merito. A Bari, per esempio, un intero corridoio di un dipartimento era l’estensione del nucleo familiare del docente. Ciò non giustifica le scelte ministeriali, ma è un chiaro indicatore che l’Università non brilla in meritocrazia e quindi eticamente non potrebbe fare la voce grossa con la politica, che non incentiva la meritocrazia. Tutto ciò è l’emblema dell’evangelico “Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio di tuo fratello”.

Lo sciopero dei docenti dell’università

In questo desolante quadro i docenti, ormai stanchi di subire i tagli ai finanziamenti e i blocchi agli stipendi, hanno deciso di farsi sentire indicendo uno sciopero proclamato dal Movimento per la dignità della docenza universitaria. Lo sciopero nasce dopo anni di vertenze e numerosi – infruttuosi – incontri con il Ministero per lo sblocco degli scatti stipendiali, fermi al 2011. I tagli al FFO, massicci al Sud, gli stipendi bloccati e il carico di lavoro dei docenti, che si pagano l’acquisto di libri e materiale didattico con i propri soldi, insieme al progressivo depauperamento del sistema universitario, hanno portato i docenti a scioperare, per far conoscere alla popolazione lo stato in cui versa l’Università. Se da un lato mi sento di dargli ragione, dall’altro, però, penso che questa situazione sia stata anche voluta da loro. Non da tutti, è chiaro. Ma conosco (anche personalmente) numerosi docenti che, negli anni, hanno militato nei partiti, hanno ricoperto posizioni apicali (penso a Luciano Modica, ex rettore dell’Università di Pisa, che ha contribuito all’istituzione dell’ANVUR) e – come detto in precedenza – hanno approfittato dell’autonomia per fare i propri comodi e regalare posti di lavoro o di ricerca a parenti e pupilli.

Lo sciopero però, in fondo, è giusto e la speranza resta. La speranza di mettere al centro del dibattito politico un tema vitale per la cultura, l’economia e il progresso (materiale e spirituale) di questo Paese, in modo da correggere gradualmente le storture prodotte da ambo le parti, dalla politica nel ridurre alla fame l’unico vero strumento di determinazione culturale del popolo italiano e dal baronato nell’aver ridotto le Università a parentopoli e amicopoli. Mi auguro che ognuno tolga la trave dall’occhio dell’altro.

Il concetto di Cultura

Cultura

Cos’è la cultura? Quante definizioni ha? A cosa ci serve? Perché è importante riprendere la discussione sul tema? Con questo articolo cerco di dare tutte le definizioni possibili del concetto di “cultura” e di focalizzare l’attenzione su un tema di fondamentale importanza nei decenni a venire.

Il termine cultura ha trovato, nel corso della storia, una sovrabbondanza di significati tanto da risultare quasi impossibile una classificazione. Abraham Moles, nel 1967, faceva riferimento all’esistenza di più di 250 definizioni di cultura. Gli antropologi Kroeber e Kluckhohn tentarono di impostare una definizione di cultura di validità universale, ma registrarono circa 150 concezioni differenti.
Solo per fare qualche esempio, al giorno d’oggi si può utilizzare il termine in questione per una svariata cerchia di contesti:

”Ci sono enormi differenze culturali tra Oriente e Occidente”
”Umberto Eco è una persona di grande cultura”
”La musica pop è usata dai gruppi giovanili per affermare la loro identità culturale”
”La cultura di massa ha un effetto di omologazione”
”Le telenovela sono espressione della cultura sudamericana”
”La cucina italiana è parte della tradizione culturale del nostro Paese”
”Il dialogo tra le culture è necessario, ma difficile”

Ecco che possiamo trovare, in questi esempi, diverse concezioni di cultura. A grandi linee si può affermare che esiste un significato quantitativo (ossia il complesso di nozioni e conoscenze che un individuo possiede) o un significato sociologico, per cui in un gruppo sociale assumono una notevole importanza le rappresentazioni collettive, cioè gli insiemi di norme e credenze che il gruppo possiede. Esiste una concezione antropologica (che, del resto, ha fortemente influenzato quella sociologica), per cui la cultura rappresenta un insieme di norme, di credenze, di abitudini quotidiane più o meno accettati da tutti in una determinata comunità.
Ma procediamo con ordine. Per chiarire la portata di tali significati occorre soffermarsi sulle concezioni di cultura che, dalla civiltà Greca e Latina ad oggi, hanno caratterizzato tale termine, rendendolo un concetto diversamente interpretabile e altamente indeterminato, considerando lo sviluppo che tale termine ha avuto nelle diverse epoche storiche.

Cultura come processo di coltivazione

Il termine, di origine latina, deriva dal verbo colere, che significa “coltivare” e veniva dunque impiegato per indicare qualsiasi manipolazione della natura ad opera dell’uomo. Ma anche oggi si intende come l’insieme dei sensi operativi, legati al lavoro agricolo ed ai suoi risultati o all’allevamento di microrganismi (la cultura o coltura dei virus, della vite, dell’olivo, etc.).

I latini utilizzavano questo termine, però, non solo per indicare tale rapporto tra la natura e l’uomo, ma anche, insieme al termine anima, per indicare il processo di coltivazione, ossia di educazione, della propria anima, così come si coltiva la terra, quindi la cultura indica un processo di coltivazione dell’uomo attraverso tutta una serie di procedimenti e di processi di apprendimento (cultura animi). Inoltre l’aggettivo cultus (l’etimologia è analoga) stava a designare tutto ciò che si rivela curato, lavorato, coltivato e s’oppone quindi agli aggettivi silvester o neglectus. Da qui il termine culto, che viene utilizzato per tutte quelle situazioni che richiedono una cura assidua, una cura verso gli dei o una cura verso l’essere umano.

In tale prospettiva, il concetto di cultura è apparentato a quello di coltivazione, ossia ad un intervento mirante a sviluppare qualcosa che se non fosse curato, perirebbe o non nascerebbe affatto. Cultura, insomma, come agri-coltura o, anche, come cultura fisica o culturismo, che denota una pratica ginnica tendente a rafforzare il volume e la potenza della muscolatura.

Il termine cultura, nel significato appena illustrato, nonostante sia stato, in un certo senso, superato dalle interpretazioni successive, possiede una intrinseca caratteristica che lo rende attuale e rappresenta comunque il punto di partenza per una comprensione complessiva del termine. Sia perché, ad ogni modo, indica sempre un processo di crescita, sia perché dalla concezione di cultura come cultus (ossia “coltivazione degli esseri umani” o meglio, la loro educazione) deriva il valore di cultura nel suo senso moderno: il complesso di conoscenze (tradizioni e saperi) che ogni popolo considera fondamentali e degni di essere trasmessi alle generazioni successive.

E’ interessante notare che Jesús Prieto de Pedro, nella ricostruzione definitoria del termine cultura, segnala come il significato moderno del lemma sia acquisizione linguistica relativamente recente, infatti nel Dictionnaire Universel di Antoine Futière del 1690, il termine viene usato nel suo senso originario.

Cultura come attività intellettuale superiore

Cultura può essere interpretata in una diversa accezione: “complesso delle conoscenze intellettuali e delle nozioni che contribuisce alla formazione della personalità”. In altre parole indica l’insieme dei sensi intellettualistici, valutativi, per cui cultura connota attività per così dire superiori, intellettualmente qualificate, non esecutive, ed i prodotti di esse. Ma occorre ancora distinguere, all’interno di questa definizione, tra cultura come giudizio di valore e cultura come concetto descrittivo. Nella prima definizione cultura si contrappone ad ignoranza; in un altro senso essa indica “l’insieme delle cognizioni, e delle disposizioni così mentali come sociali, al cui acquisto è necessaria, quantunque non sufficiente, una vasta e varia lettura”.

La seconda definizione apre, per così dire, la strada verso la nozione antropologica del termine. Ossia la cultura identifica un ordine di fenomeni esclusivamente umani (gli animali non hanno in senso proprio una cultura, ma semmai un modo di vita) a carattere sociale.

Il termine cultura come giudizio di valore indica lo specifico patrimonio di conoscenze di cui una persona si è impadronita (è uno dei significati correnti del termine cultura) e può essere accostato al termine greco paidéia e al latino humanitas: il primo indicava il modello educativo in vigore nell’Atene classica e prevedeva che l’istruzione dei giovani si articolasse secondo due rami paralleli: la paideia fisica, comprendente la cura del corpo e il suo rafforzamento, e la paideia psichica, volta a garantire una socializzazione armonica dell’individuo nella polis, ossia all’interiorizzazione di quei valori universali che costituivano l’ethos del popolo. Mentre con il secondo si intende una concezione etica basata sull’ideale di un’umanità positiva, fiduciosa nelle proprie capacità, sensibile e attenta ai valori interpersonali e ai sentimenti. Ciò che conta è che questo ideale è valido per tutti gli uomini, senza distinzioni etniche, sessuali o sociali. Terenzio scriveva appunto: “homo sum: humani nihil a me alienum puto”, ovvero: “sono un uomo, e perciò nulla di ciò che è umano mi è estraneo”.

Queste nozioni arrivarono sino al medioevo dove, seppur mutate le condizioni a causa dell’affermarsi del modello cristiano, resistettero le concezioni di cultura come realizzazione dell’umanità degli uomini liberi. Un passo di un’opera di dante può rappresentare la concezione della cultura in quel tempo:

“(…) l’operazione specifica del genere umano preso nella sua totalità è quella di attuare sempre tutta la potenza dell’intelletto possibile, prima mediante l’attività speculativa e poi, in forza e per estensione di questa, mediante l’attività pratica. Siccome nell’uomo singolo avviene che, vivendo in condizioni di calma e di tranquillità, si perfezioni in saggezza e in sapienza, è chiaro che — secondo il detto che ciò che vale per la parte vale per il tutto — anche il genere umano, vivendo nella quiete, cioè nella tranquillità della pace, può compiere, nel modo più libero e facile, la sua attività specifica che è quasi divina, secondo il detto: “Lo facesti di poco inferiore agli angeli”.

Nonostante il Poeta auspicasse una pace universale, dalle parole si può dedurre che “quiete e tranquillità della pace” sono caratteristiche che solo gli uomini liberi potevano possedere e che cultura indica sempre uno sviluppo delle qualità interiori umane.
Nel ‘400 cultura si identifica ancora con il termine humanitas, mentre nel sei-settecento il termine viene ripreso da filosofi come Bacone, Pufendorf e poi Leibniz e Kant allo scopo di designare il processo di formazione della personalità umana e la sua capacità di progredire.

Gli sviluppi successivi

L’affermarsi dell’Illuminismo ha portato – com’è noto – ad una rottura politico-sociale con il passato, esaltando le idee laiche e principi razionali e scientifici e coinvolgendo, nel profondo mutamento ideologico del tempo, anche il concetto di cultura: la ragione è lo strumento dell’educazione, e poiché ogni uomo è dotato di ragione la cultura può divenire patrimonio universale anziché riservato ai dotti.

Ma fu in questo momento storico (a cavallo tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento) che la concezione francese di cultura trovò un destino diverso da quella tedesca. La Germania stava attraversando un forte mutamento culturale che l’avrebbe portata, successivamente, dall’illuminismo al clima intellettuale romantico. Fu in questo momento che avvenne il trapasso dal significato “soggettivo” al significato “oggettivo” del termine cultura, ossia al passaggio da una determinazione in termini individuali a una determinazione in termini storico-sociali della cultura. Il primo esempio di impiego su larga scala del concetto di cultura in questa nuova accezione si ritrova nelle opere di J.G. Herder, in cui pone una forte contrapposizione tra cultura e civiltà.

Cultura e Civiltà

Fino all’illuminismo la cultura è legata alle facoltà superiori dell’uomo, alla sua natura razionale e morale, e quindi alla cultura può accedere in fondo soltanto una élite, una élite sociale o meglio una élite di tipo intellettuale.

Mentre Civiltà (dal latino civilitas, termine che si introduce nel latino abbastanza tardi, nel I secolo d.C., come traduzione del greco πολιτεία [politéia]) indica l’appartenenza alla civitas, ossia alla struttura politica della città, come anche ai modi di vita che sono propri della città, ai modi di vita urbani in contrapposizione ai modi di vita della popolazione rurale. Il termine è stato utilizzato spesso dall’illuminismo francese, infatti il concetto di civilisation era servito soprattutto a designare un livello di vita associata che si colloca al di là dell’esistenza asociale dei popoli selvaggi e dell’esistenza sociale, ma ancor priva di un’organizzazione razionale, dei popoli barbari. In questo modo la tripartizione tra stato selvaggio, barbarie e civiltà veniva ad indicare le grandi fasi successive dello sviluppo dell’umanità nel suo avanzamento verso uno stato finale caratterizzato dall’acquisizione dell’autonomia razionale da parte dell’uomo e dalla diffusione crescente dei “lumi”. Infatti l’illuminismo critica aspramente l’ideale aristocratico di cultura. Nel francese del sec. XVIII, però, il termine civilisation, che indicava nel secolo precedente il “buon gusto” e le “buone maniere”, acquistò il significato illuministico di cultura come potenziale patrimonio di tutta l’umanità, e quindi in lingua francese l’opposizione ideologica tra cultura illuministica e cultura aristocratico–formale non si tradusse nella contrapposizione di due parole.

Inoltre Cultura e civiltà hanno avuto, nel panorama intellettuale del Novecento, un destino assai diseguale. Il concetto di civiltà si è dimostrato più tenacemente refrattario a una definizione scientifica. Più che un concetto suscettibile di essere formulato in regole precise, la civiltà si è rivelata un’idea, talvolta addirittura un modello ideale. Anche lasciando da parte troppo scoperte esaltazioni di stampo etnocentrico della civiltà contro la barbarie, o della civiltà occidentale nei confronti di altre civiltà, le varie teorie storico-filosofiche della civiltà son servite, di solito, a discriminare in termini di valore le diverse forme di organizzazione sociale, cioè ad individuare nello sviluppo dell’umanità un livello di vita considerato “superiore”.

Il concetto di cultura è stato invece oggetto di una lunga elaborazione che ha fatto di esso un concetto-chiave delle scienze sociali. Il romanticismo tedesco ha dato il via, in un certo senso, allo studio antropologico del termine cultura. Gustav Friedrich Klemm, con le sue opere inserite nel filone che risale a Herder e in un clima in cui il Volksgeist, ossia la volontà di una nazione che rappresentava la legge fondamentale del suo sviluppo sociale, aveva alimentato una simile concezione della cultura, riconosceva l’importanza del patrimonio culturale di ogni popolo.
Anche se l’uso del termine cultura come attività intellettuale superiore è tuttora largamente diffuso, il concetto di cultura ha assunto per altro verso una veste scientifica, conquistando un posto di rilievo non solo nella storiografia o nella discussione filosofica, ma anche in discipline come l’antropologia, la sociologia, la psicanalisi e l’etologia.

Il contributo di Sigmund Freud ed altri illustri autori sia di formazione psicologica che sociologica, lo svilupparsi della riflessione filosofica tedesca, l’ascesa della scienza antropologica e l’avanzare di altre scienze vicine ad essa, come l’etnologia e la demologia, lo studio sul campo, come pratica “applicata” della scienza antropologica, il diverso destino che hanno avuto i termini cultura e civiltà, hanno contribuito al superamento (seppur non totale) del termine cultura come attività intellettuale superiore e all’introduzione di un nuovo e diverso concetto: la cultura è l’insieme delle conoscenze di un soggetto in quanto membro di una società.

La nozione antropologica di Cultura

In realtà non esiste una nozione antropologica di cultura. Ne esistono molteplici.

Nell’ultimo periodo dell’Ottocento si assiste a due fenomeni: l’antropologia si costituisce come scienza autonoma e inizia gli studi sull’origine e l’evoluzione della cultura.

Secondo la primissima teoria c.d. evoluzionistica, tutti i popoli hanno percorso, e sono destinati a percorrere, le medesime tappe: ciò che li differenzia è la durata della permanenza in ognuna di esse, la quale fornisce la chiave per comprendere il motivo del loro diverso grado di sviluppo culturale. Questa impostazione ha consentito, tra l’altro, di istituire uno stretto parallelismo tra la società antica e la struttura sociale dei popoli ancora allo stato primitivo, ritrovando in questi ultimi l’equivalente del passato preistorico del mondo europeo. Tutto ciò adottando il metodo comparativo come strumento di ricostruzione delle varie fasi del processo evolutivo della cultura.

Questa impostazione è stata oggetto di critica da parte della scienza antropologica successiva, che intende dimostrare l’infondatezza del presupposto di una evoluzione unilaterale.

Boas, nella sua opera The mind of primitive man (1911), sostiene che la cultura è oggetto d’apprendimento.

“La cultura – a parere dell’Autore – non è determinata dall’ambiente geografico, tant’è vero che forme di cultura differenti possono sorgere in ambienti simili e forme di cultura analoghe si presentano in ambienti quanto mai diversi”.

Da una diversa prospettiva parte, invece, Freud per delineare i tratti caratteristici della cultura. A parere dell’autore la cultura ha basi psichiche, per cui all’origine della cultura si trova una situazione traumatica corrispondente a quella che genera la nevrosi.

Ma le teorie antropologiche sulla cultura che più hanno avuto credito nel corso della storia contemporanea sono quelle che vedono la cultura non come un fenomeno evolutivo (o di origine psichica), bensì come fenomeni culturali individuali, ognuno dei quali nasce autonomamente e ha tratti di differenza o di analogia con le altre culture.

All’affermazione dell’autonomia della cultura si accompagna, in The mind of primitive man di Boas la considerazione delle varie culture come strutture sorte storicamente e comprensibili soltanto in base al loro particolare processo storico. Di conseguenza, l’antropologia assume a proprio oggetto non già la cultura, bensì le singole culture e i loro rapporti, lo sviluppo di ogni singola cultura e il complesso di relazioni che la lega con un determinato ambiente e con altre culture.

Il riconoscimento della pluralità delle culture rivela anche implicazioni importanti di ordine filosofico: il rifiuto della pretesa di ricondurre le diversità culturali a una matrice unitaria, la negazione dell’esistenza di valori assoluti comuni a tutte le culture, il rifiuto dell’etnocentrismo in quanto attribuzione illegittima di un valore privilegiato a una cultura particolare.

Tutto ciò ha rappresentato la base del relativismo culturale, inteso come affermazione dell’eguaglianza assiologica della varie culture e, al limite, della loro incomparabilità. W.G. Summer e A. Keller considerano lo sviluppo culturale come un processo di adattamento dei diversi gruppi sociali al loro ambiente specifico, che conduce ad adottare certe forme di comportamento e a escluderne altre, dando così luogo a una varietà di costumi tra loro irriducibili e parimenti legittimi. M.J. Herskovits, in chiave polemica afferma che tra le diverse culture non si possono stabilire giudizi di superiorità o di inferiorità tra le loro manifestazioni.

Questi ultimi autori appartengono ad un orientamento che possiede una nozione diversa e più complessa di antropologia culturale; il distacco dall’antropologia evoluzionistica e le diverse teorie che si sono succedute nel tempo hanno contribuito ad una nuova interpretazione di cultura. Si pensi all’importante contributo di Claude Lévi-Strauss, il quale ha applicato le teorie strutturalistiche alla scienza antropologica. Nella pratica dello strutturalismo, così come l’intende Lévi-Strauss, possono essere isolati due principi fondamentali:

  1. Una struttura che fa parte del reale, ma non delle relazioni visibili. Ogni realtà etnica è quindi formata da strutture che bisogna ben distinguere dalle singole relazioni sociali osservabili empiricamente; tali strutture elementari costituiscono un livello reale ma non percepibile direttamente.
  2. Lo studio scientifico delle realtà etniche deve essere diretto alla determinazione di queste strutture e al loro funzionamento: è lo studio sincronico di esse che rende conto dello sviluppo storico della società e non l’esame diacronico del loro sviluppo a offrire una spiegazione delle strutture presenti nelle realtà etniche. In poche parole Strauss adotta un sistema schematico per studiare le varie culture, dividendo in un asse immaginario le popolazioni secondo certe caratteristiche (uomini/donne; giovani/anziani; etc.) e, sulla base di queste “strutture”, analizza lo sviluppo della cultura.

Oggi la scienza antropologica è pressoché concorde nel considerare la cultura come un concetto relativo, come un complesso di conoscenze e di valori che ogni gruppo sociale, grande o piccolo, possiede e trasmette alle generazioni future. La nozione di cultura è legata infatti alla memoria: la cultura non è innata, ma continua a riprodursi attraverso la trasmissione dei c.d. folkways, che ne assicurano la sopravvivenza nonostante la transitorietà degli individui. Questo processo viene definito inculturazione (tipica prassi della Chiesa cattolica nei luoghi in cui esprime la propria evangelizzazione), e presenta spiccate analogie con quello di coltivazione il quale copre, come già abbiamo visto, uno dei livelli semantici della nozione di cultura.

A tal proposito occorre soffermarsi un attimo sul concetto di memoria. Il sociologo Franco Cassano, riprendendo alcuni concetti espressi da Agnes Heller, sostiene, all’interno di un’ampia riflessione sull’assolutizzazione della velocità nella società contemporanea, che l’accelerazione

“crea una perdita di sapere intergenerazionale e di apertura alla complessità del mondo che da questa menomazione deriva. La centralità dell’utile erode la memoria, perché l’interesse ha bisogno solo di una memoria a breve termine, non di una a lungo termine, e tanto meno di una memoria culturale; esso non crede nella ripetizione, è anticerimoniale. Laddove tutto può essere continuamente rinegoziato non c’è più spazio per la memoria, che diventa un impedimento, un ingombro, un limite alla libertà di movimento, che ha bisogno, se vuole essere assoluta, di dissolvere come un vincolo arcaico tutti i “cum”, sia nel tempo che nello spazio”.

La memoria, dunque, come sguardo critico verso il presente, mediante le esperienze del passato, ma non solo.

Memoria anche come un processo “metabolico” di trasformazione, in continuo divenire, attraverso il quale creare una identità collettiva in grado di rinnovarsi, senza perdere il contatto con la propria storia. l’identità può essere pensata come una “costruzione simbolica che per sussistere deve fondarsi principalmente sulla memoria” (U. Fabietti e V. Matera), perché identità e memoria sono intrinsecamente legate e si nutrono vicendevolmente in una catena infinita.

In conclusione

Quello di cultura è un concetto poliforme, racchiude numerosi significati e coinvolge diverse discipline. Dopo decenni di cultura di Stato, che ha imposto il concetto di cultura quale nozionismo stantio e volto a costituire nuove e inconsapevoli leve lavorative, e dopo la continua e costante disgregazione delle espressioni culturali individuali e collettive, soprattutto ad opera della cultura capitalistica, che ha fatto regredire le espressioni del folklore, ampiamente studiate da Gramsci, nei decenni a venire la discussione intorno alle espressioni culturali rappresenterà il primo e fondamentale tema volto al ripristino della coesione sociale e del rifondamento nazionale ed europeo.

E’ giocoforza prevedere che la tenuta socio-economica attuale non è più sostenibile e che presto occorrerà riprendere la discussione sulla Cultura come volano di ripristino e sviluppo di una società ormai allo sbando. Mi auguro che questo contributo possa in qualche modo servire a porre in essere una riflessione sul concetto di cultura e, soprattutto, sulla distinzione tra “cultura di Stato” e “Stato culturale”, una distinzione macroscopica, che rappresenta la differenza tra regime e autodeterminazione, soprattutto in una Nazione come l’Italia, in cui la Cultura – in passato – ha rappresentato un faro per la civilizzazione dei popoli europei e che oggi rappresenta una colonia di popoli che, fino a pochi secoli fa, erano considerati barbari e incolti.