Video trash. Come muore la professionalità

direttrice banca san paolo video trash

Il caso della direttrice e degli impiegati della filiale Intesa Sanpaolo di Castiglione delle Stiviere, che hanno pubblicato un video discutibile (ad esser buoni) e dai netti contorni trash è solo l’ennesimo esempio della filosofia che imperversa in rete (e anche fuori), ossia quella della mediocrità e dell’approssimazione.

Cos’è il trash?

Se cerchiamo su qualsiasi dizionario, la definizione di trash è “prodotto di comunicazione di massa televisivo, cinematografico, letterario ecc. che riflette un gusto scadente, volgare, di infima qualità”.

Ecco, appunto, scadente e di infima qualità, oltre che volgare. Sia chiaro, la volgarità nella storia ha sempre attratto. In passato, quando il senso della morale era più elevato e quando la censura oscurava anche un minimo accenno di bacio, la volgarità era relegata nel proibito, nei sogni inconsci e perversi di buona parte della popolazione. Insomma, c’era, solo non era visibile. La morale era una sorta di freno al naturale dilagare del volgare, relegato  – appunto – al vulgus, al popolare, agli strati più umili e dealfabetizzati della società. Poi è ovvio che con la libertà dei costumi, iniziata più o meno negli anni Sessanta, il senso del volgare si è attenuato, entrando pian piano nel costume collettivo e rendendo dapprima tollerabili e poi normali certi atteggiamenti. Oggi un bacio in un film ovviamente non scandalizza nessuno, come non scandalizza nemmeno un nudo o una scena di sesso più o meno velata. Poi i media, accompagnando le richieste dei propri consumatori, hanno alzato sempre di più l’asticella della tolleranza, abituandoci progressivamente al senso del volgare.

Poi è arrivato il web, con la sua filosofia della produzione di contenuti dal basso. Cosa vuoi che ti produca un utente qualunque, sia esso famoso o meno, abituato al volgare e privo di strumenti atti a produrre contenuti di qualità (seppur volgari)? Il trash, ovvio. Perché il trash, va ricordato, non solo è volgare, ma è anche di infima qualità.

I video professionali

Qualsiasi video-maker esperto o qualsiasi professionista di video-marketing ti dirà che esistono determinate regole per produrre video di qualità e che per farlo occorre investire in strumentazioni adeguate (videocamera di buona qualità, luci, fondali, software per la post produzione, ecc.). Ciò comporta che per produrre un video professionale occorre cultura in materia, esperienza e qualche piccolo investimento.

Troppa fatica.

Infatti a che serve rivolgersi a un professionista o spendere soldi e acquisire competenze quando con un semplice smartphone e la rozzezza tipica di un analfabeta funzionale qualunque si possono ottenere risultati di gran lunga più soddisfacenti in termini di visualizzazioni e condivisioni? Ecco che con il dilagare di video trashoni ogni giorno muore la professionalità dei video-maker, ogni giorno muore la possibilità di riprendere quell’asticella e alzare il livello della morale, della professionalità, della qualità.

Saluta Andonio

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Chi non conosce il ragazzino di Saluta Andonio? E’ bastato un video spontaneo, di infima qualità e – quindi – trash per ottenere milioni di visualizzazioni. Oggi si racconta che abbia un giro d’affari rilevante (prende 1.500 euro a serata nelle discoteche) e ha persino realizzato una canzone per l’estate 2017 insieme ad Angelo Jay & Jasper (dal titolo, ovviamente, Saluta Andonio) facendo anche da comparsa nell’ultima clip di Fabio Rovazzi e Gianni Morandi, Volare (manca una “g” nel titolo).

Con questi modelli un qualsiasi utente del web, giovane o adulto, istruito o meno, preferirà farsi il mazzo per acquisire professionalità oppure cercherà in tutti i modi di cadere ancora più in basso per ottenere popolarità? L’ardua sentenza non andrà ai posteri, la domanda è retorica.

Anche in banca…

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A seguito del video virale della filiale di Castiglione, il sindacato dei dipendenti ha pubblicato una nota in cui si dice “Dalle banche ci si aspetta professionalità, competenza, correttezza, sobrietà, ma evidentemente i tempi sono cambiati, e nell’era dello spettacolo e dei social si pensa che un video accattivante o una buona interpretazione possano sopperire ad altre carenze. Auspichiamo che tutti i protagonisti del grande show possano ricevere i meritati riconoscimenti artistici: alla produzione, alla regia e, perché no, all’interpretazione. Ma come Sindacato chiediamo che simili iniziative vengano abbandonate”.

Come dargli torto? Tra l’altro, fossi al posto di un cliente qualunque di quella banca, prenderei i miei soldi e li porterei in un altro Istituto. Perché chi vorrebbe far gestire i propri soldi da gente che tenta di emulare i grandi personaggi del trash e fa self-marketing con approssimazione? Non sarebbe corretto immaginare che ci mettano la stessa approssimazione anche nell’amministrare i soldi altrui? La domanda, in questo caso, non è retorica, ma un po’ si avvicina.

 

Rajoy Franco e l’autonomia Catalana

Rajoy

La questione dell’indipendenza catalana merita una breve riflessione, proprio oggi, giorno in cui in Catalogna si vota per l’indipendenza e la volontà popolare viene goffamente soppressa dal governo centrale di Madrid di Rajoy il quale ha inviato la polizia per bloccare le operazioni di voto, chiudere i seggi e impedire alla gente, con violenza, di esprimere legittimamente la propria opinione sul quesito posto dal governo catalano: vuoi o no l’indipendenza dallo Stato spagnolo?

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Un goffo tentativo mediatico di negare le violenze subite oggi dai catalani. Secondo l’autore, questo non è sangue.

Molto è stato scritto sulla questione, sia dai favorevoli all’indipendenza catalana che da quelli contrari. I favorevoli chiaramente vedono nello strumento democratico del voto la più compiuta espressione della volontà popolare, la quale prevale anche sulla costituzione e sulla volontà del Governo centrale. I contrari dicono che i catalani chiedono l’indipendenza solo per una questione economica, perché sono il territorio più ricco della Spagna e vogliono gestire autonomamente la propria ricchezza, senza dar conto allo Stato Spagnolo.

In realtà entrambe le posizioni sono giuste e sbagliate allo stesso tempo, perché se è vero che la Costituzione spagnola stabilisce che la Spagna è una e indivisibile, pur riconoscendo le autonomie locali, è anche vero che nel suo preambolo e nel testo normativo riconosce ai cittadini spagnoli l’esercizio dei propri diritti inalienabili, incluso il diritto di decidere, con strumenti democratici, le sorti del territorio in cui vivono, nel rispetto, quindi, della volontà popolare e del principio di cooperazione. Inoltre la questione economica è solo la punta dell’iceberg della complessa e antica volontà del popolo catalano di svilupparsi autonomamente dalla Spagna.

Qui non si tratta di schierarsi per l’indipendenza o per la sottomissione del territorio catalano alla monarchia repubblicana spagnola, ma si tratta di ragionare sulla storia e sul buon senso, qualità che – a quanto pare – è mancata e continua a mancare al governo spagnolo nella gestione del problema.

La Catalogna e i motivi dell’indipendenza

Le spinte indipendentiste catalane risalgono addirittura al 1714, anno in cui i Borboni conquistarono Barcellona e misero fine all’autonomia catalana, di origine medievale. I Borboni costruirono il proprio Regno su un paradigma unitario, centralizzando i processi decisionali e normativi e minando dalle fondamenta la lunga tradizione culturale e linguistica catalana. Poi, tra alterne vicende, con il regime franchista (1939-1975) le cose andarono peggio, dato che la Catalogna fu l’unico territorio ad opporsi strenuamente al regime franchista nella guerra civile e, perduta la guerra, ne subì le conseguenze. Il regime vietò persino di parlare la lingua catalana nei luoghi pubblici. Poi con la Costituzione Spagnola del 1978, si riconobbe una sorta di autonomia politica ed economica al territorio catalano, ma era ben poca cosa rispetto a quanto richiesto dal popolo catalano. Infatti, dopo lunghe trattative, solo nel 2006 si arrivò alla ratifica dell’Estatut de Catalogna, grazie al quale la Catalogna avrebbe ottenuto l’autonomia richiesta da sempre. Però nel 2010 il Tribunal Supremo di Spagna (il corrispondente della nostra Corte Costituzionale) riscrisse addirittura l’Estatut, ormai ratificato dal Parlamento, e limitò fortemente le autonomie richieste dai catalani. Poi nel 2011 venne eletto l’attuale Premier Mariano Rajoy, il quale, sin da subito, ha messo in atto la sua politica estremamente centralista, usando persino il Tribunal Supremo per limitare le leggi pro-autonomia dei territori spagnoli. Ecco perché il popolo catalano, giustamente, non si fida della propria Corte Costituzionale.

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Barcellona. Lunghe file ai seggi nonostante la repressione da parte della polizia spagnola. Foto di F. Pitrola

Indipendenza e autonomia

Se è vero che la Costituzione impone che la Spagna sia una e indivisibile, è anche vero che finora i Catalani non hanno mai chiesto indipendenza totale, ma solo maggiore autonomia. Il referendum attuale va visto sia come una provocazione politica sia come l’estremo tentativo di ottenere ciò che da secoli ormai la Catalogna chiede e non ha mai ottenuto: autonomia. Autonomia e indipendenza sono due concetti ben distinti. E’ indipendente chi ha un proprio sistema giuridico e non è vincolato dalla volontà di altri. E’ invece autonomo chi, all’interno di un sistema giuridico, si governa con leggi proprie ma dipende, più o meno fortemente, dalla volontà altrui.

La Catalogna ha sempre chiesto autonomia, non indipendenza. L’indipendenza, quindi, va vista – oggi – come l’extrema ratio di un popolo che le ha provate tutte e non ha avuto ascolto. Rajoy si è mostrato, in questi anni, un vero e proprio franchista e non si è mai aperto al dialogo con le istituzioni catalane, quindi il referendum, da questo punto di vista, dev’essere visto come uno strumento popolare giusto e legittimo, seppur stricto sensu illegale.

Del resto esistono, negli ordinamenti moderni, molte forme di federalismo, più o meno ampie, all’interno dello stesso Stato. Senza dover violare la Costituzione, attraverso il dialogo e la mediazione politica, tutte le parti in campo avrebbero ottenuto il risultato sperato: da una parte maggior autonomia e dall’altra un territorio autonomo e ancora inserito all’interno dello Stato Spagnolo. Invece oggi si rischia, quando il referendum terminerà con risultati bulgari, di arrivare a quella che il governo catalano ha definito Ley de desconexión catalana, ossia quella legge regionale che permette alla Catalogna di disconnettersi gradualmente dal territorio spagnolo e di costituire uno Stato indipendente e autonomo.

La situazione è stata affrontata male da Rajoy

Insomma, se è vero che Barcellona ha provocato è anche vero che Madrid ha risposto con violenza e non col dialogo. In queste ultime settimane abbiamo visto l’anima di Franco risorgere, con una Corte Costituzionale che dichiara illegittimo un referendum, siti web oscurati, politici e funzionari catalani arrestati e oggi con la polizia inviata in forze in Catalogna a sparare sulla gente, a bloccare i seggi e ad impedire il regolare svolgimento del referendum. I referendum, anche se illegittimi e illegali, vanno sconfessati sul piano politico e non con forza e violenza ai danni di donne, bambini, anziani.

Oggi Franco è risorto e ha questa faccia.

Rajoy

 

Legge Fiano, ovvero curare un tumore con l’aspirina

vini gadget fascisti emilia romagna

E’ passata alla Camera dei Deputati la c.d. Proposta di legge FIANO (ed altri): “Introduzione dell’articolo 293-bis del codice penale, concernente il reato di propaganda del regime fascista e nazifascista”. Scritta male e pensata peggio.

Cosa dice questa proposta di legge?

Introduce un nuovo articolo nel codice penale, il 293-bis, rubricato Propaganda del regime fascista e nazifascista.

“Chiunque propaganda le immagini o i contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco, ovvero delle relative ideologie, anche solo attraverso la produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli a essi chiaramente riferiti, ovvero ne richiama pubblicamente la simbologia o la gestualità è punito con la reclusione da sei mesi a due anni. La pena di cui al primo comma è aumentata di un terzo se il fatto è commesso attraverso strumenti telematici o informatici”.

Detto in soldoni, questa sarà (se passerà anche in Senato) una legge anti-gruppi-facebook e anti-gadget. Infatti la proposta di legge mira a punire, oltre alla diffusione di video o immagini, anche il commercio di gadget e prodotti che raffigurano personaggi o simboli dei regimi fascista e nazista.

E’ una proposta di legge fatta male. Perché?

Per varie ragioni, formali e sostanziali. Partiamo dalla ragione sostanziale, la più importante.

Come il titolo – provocatoriamente – descrive, questa proposta di legge – a differenza delle vigenti Leggi Scelba del 1952 e Mancino del 1993 (su cui ci tornerò a breve) – introduce una sorta di reato d’opinione che mal si confà in un sistema che vuol definirsi democratico. Ma, ancor peggio, mira ad eliminare le conseguenze e non le cause del problema. Infatti, esattamente come fa un qualsiasi tizio di ridotte capacità cognitive che tenta di curare un tumore con l’aspirina, così questa proposta di legge cerca di eliminare i sintomi e non il malanno.

Giusto per fare qualche esempio, il proponente, nelle sue intenzioni (leggile qui) non si pone l’obiettivo di educare e formare i giovani e i meno giovani alla cultura democratica (non antifascista. Tutti gli anti sono sempre periocolosi), non tenta di analizzare le cause del dilagare di gruppi e organizzazioni di ispirazione violenta e antidemocratica (non solo fasciste, ma anche di altro genere…), non si pone nemmeno una domanda su qual è l’humus culturale in cui si formano queste persone che inneggiano al fascismo e alla violenza. No. Punisce il commercio. Punisce chi ostenta i simboli. Punisce, insomma. Opera senza diagnosi. Cura senza anamnesi.

Secoli di giusnaturalismo vengono, con questa proposta di legge, buttati nel cesso. Fior di filosofi del diritto e giuristi illuminati hanno sempre parlato della sanzione penale come extrema ratio. Qui invece di colpo si ritorna al positivismo di cinquecentesca memoria. Il reato si confonde con il peccato, la giustizia diventa repressione, le streghe vengono bruciate e gli eretici vengono torturati e giustiziati. Solo per aver espresso opinioni discordanti da quelle del Sovrano. Il reato d’opinione è un terreno minato e prima che diventi tale occorre aver esperito tutti i tentativi – extragiuridici – per impedire di doverlo utilizzare.

Ma il problema di questa legge è anche formale. E’ scritta male anche perché assurge a termini di legge fenomeni storici come “fascismo” e “nazismo”, gettando fumo negli occhi alla gente che invece, oggi, subisce nuove e più insidiose forme di regimi mascherati. Elevare un concetto storico a forma di Legge, come fosse ontologico e universale, equivale a trattare quello legislativo come uno strumento temporaneo e preda della volontà del Sovrano, non come dovrebbe essere: lo strumento principale di uno Stato di Diritto, quello che, secondo N. Bobbio, è lo Stato dei Cittadini.

Le Leggi Scelba e Mancino basterebbero per arginare il fenomeno

La Legge Scelba (1952), ancora in vigore, vieta la riorganizzazione del disciolto partito fascista e l’apologia del fascismo. Secondo Fiano, tale legge non basta per arginare il fenomeno del “braccio teso” o del commercio di prodotti di stampo fascista.

Mi dispiace appurare che il deputato Fiano non abbia ben chiaro il concetto di interpretazione della legge, perché solo leggendo il testo della Legge Scelba, si capisce facilmente che viene punito il tentativo di riorganizzare il partito fascista, il quale ricomprende anche tutte le attività volte “alla esaltazione di esponenti, princìpi, fatti e metodi propri del predetto partito”, inclusemanifestazioni esteriori di carattere fascista” (art. 1). Più chiaro di così? A cosa serve una nuova fattispecie di reato quando quella esistente può essere applicata? Non sarebbe stato sufficiente aggiornare la Legge Scelba? No, perché non sarebbe stata mediaticamente efficace.

Inoltre, cosa di non poco conto, la Legge Scelba si pone la finalità di “far conoscere in forma obbiettiva ai cittadini e particolarmente ai giovani delle scuole, per i quali dovranno compilarsi apposite pubblicazioni da adottare per l’insegnamento, l’attività antidemocratica del fascismo” (art. 9).

Cosa che a Fiano e al PD non passa manco per l’anticamera del cervello. Formare? Informare? No, punire.

Il problema è che l’attuale classe politica soffre della sindrome da legge, per cui ogni elemento contingente dev’essere regolato da una specifica legge, senza magari curarsi di interpretare e applicare quelle esistenti che, specialmente se più vecchie, sono scritte bene e si pongono l’obiettivo di essere quanto più universali possibile.

La Legge Mancino (1993), poi, completa il quadro, in quanto punisce chiunque faccia propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

Le due leggi, insieme, di per sé basterebbero ad arginare il fenomeno. Ma Fiano guarda la punta del proprio naso e non vede oltre. Non vede che le due leggi sono sufficienti, che sono scritte meglio della sua proposta, che punire non è sempre la soluzione migliore e, soprattutto, che questi fenomeni vanno analizzati, compresi e curati alla radice, con terapie adeguate e non con una semplice aspirina, che magari leva i sintomi, giusto per un po’, ma la malattia è ancora lì, e avanza inesorabile.

iPhone X e le nuove frontiere del controllo sociale

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Mi chiedo se gli utenti Apple che acquisteranno il nuovo iPhone X sappiano quanto è paradossale spendere tra 1189,00 e 1359,00 € (questo è il range di prezzo imposto da Apple) per comprare un telefono che ha installato una tecnologia per il riconoscimento facciale. Detto in altri termini, davvero ci sarà gente che spenderà uno stipendio mensile (per alcuni anche lo stipendio di 2 mesi…) per dare la possibilità ai giganti dei Big Data di farsi controllare meglio?

Vediamo se così riesco a spiegarmi meglio.

Tutti ormai sappiamo che molte agenzie private o governative e quasi tutti gli hacker più talentuosi possono accedere con molta semplicità ai nostri smartphone e controllare praticamente tutto: gli accessi, i siti visitati, le app utilizzate e tutte le conversazioni fatte, la rubrica, l’agenda degli appuntamenti, le foto e i video e possono persino accedere alla nostra fotocamera e usarla come una sorta di “mezzo di intercettazione ambientale”.

Del resto le Iene, nel 2015 e nel 2016, hanno fatto quest’esperimento e hanno scoperto che è molto facile farsi “infettare” il telefono, anche tramite un messaggino innocuo (o uno script facilmente scaricabile se si visitano siti pericolosi o app non certificate) per cui il telefono può essere controllato senza che noi ce ne accorgessimo.

Sappiamo anche un’altra cosa. Se è vero che normalmente la Magistratura attua forme di intercettazione solo in caso di notizie di reato e in fase di indagini (con tutte le garanzie imposte dalla Legge) è anche vero che le agenzie di sicurezza governative non hanno questi limiti e che le Società di Big Data e gli hacker ne hanno ancor meno. Ognuno ha diverse finalità: i Governi (teoricamente) agiscono per sicurezza nazionale, le aziende di Big Data lo fanno (prevalentemente) per scopi commerciali (anche se ultimamente si stanno orientando verso forme di monitoraggio e controllo sociale…) e gli hacker? Beh, alcuni per finalità politiche, altri, invece, per vera e propria criminalità organizzata, se non peggio (il terrorismo, per esempio, oggi sta inseguendo queste nuove frontiere di controllo). Quindi è evidente che gli smartphone – quegli oggetti in cui ormai abbiamo messo tutta la nostra vita sotto forma di foto e video, contatti, applicazioni, conversazioni – rappresentano l’oro per tutti quei soggetti che – con le finalità più disparate – vogliono accedervi, controllare e, perché no, manipolare.

Ma finora c’è stato un limite. Non era possibile associare un nome e una storia (quella contenuta in ciascuno dei nostri dispositivi) ad un volto. Ora, con il nuovo iPhone X, ciò è possibile.

E’ vero che i vertici Apple hanno dichiarato che FaceId (la tecnologia per il riconoscimento facciale) non conserverà in un database i volti e che l’app, secondo Edward Snowden è robusta, ma è lo stesso Snowden che in un tweet, ha dichiarato che questa tecnologia sarà oggetto di abusi.

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Edward Snowden

Edward Snowden era tecnico della Cia e di recente ha pubblicato tutte le tecniche e i programmi di sorveglianza di massa che il governo americano e quello britannico attuavano all’insaputa di milioni di cittadini. Lui, per aver ricondotto questa tematica nell’alveo democratico, è stato costretto ad esiliare in Russia, in attesa di conoscere il proprio destino.

Sembra anche irrisorio il concetto per cui la tecnologia è robusta e non sarà preda facile di attacchi informatici. E’ scontato dire che l’informatica non è una scienza esatta né perfetta e che le falle si trovano sempre. Anche i sistemi più impenetrabili nascondono, nel proprio codice sorgente, qualche bug. Del resto l’informatica è un’attività umana e come tale non è mai esente da rischi.

Tanto non ho nulla da nascondere

Questa è la frase che sento dire più spesso quando parlo di Big Data, privacy e controllo sociale.

In effetti è vero. Queste tecnologie sono utili per finalità di sicurezza, per prevenire e contrastare i crimini o le attività terroristiche. Del resto una tecnologia simile, unita alla tecnologia di riconoscimento delle impronte digitali (e presto vedremo queste due tecnologie su tutti i dispositivi in commercio) è davvero utile per finalità di pubblica sicurezza. Ma dovremmo avere davvero il prosciutto sugli occhi se non dovessimo riconoscere che in questa materia ci sono Società gigantesche e lontane dalle regole democratiche che ne approfittano per mere finalità commerciali e per attuare esperimenti sociali di massa. E’ il caso di Facebook (qui ne ho parlato), di Google e di circa una trentina di altre Società che sfruttano i Big Data per riconoscere le persone, delineare i loro gusti e attuare pratiche commerciali volte a vendere. Ma non solo. Anche a orientare, persino manipolare.

E poi, diciamoci la verità, davvero ci fa piacere sapere che qualcuno di cui non conosciamo nemmeno l’esistenza ci spia, ci profila, ci controlla e ci manipola? Davvero siamo impassibili davanti all’ipotesi che qualcuno conosca le nostre più intime faccende e le colleghi a un volto? Non parlo solo di banali scappatelle o litigi tra amici e familiari su WhatsApp o su Messenger di Facebook, ma sul nostro stato di salute, sulle nostre conversazioni che riteniamo intime, sui nostri desideri che non confessiamo, sulle nostre inibizioni che riteniamo di custodire nella sfera privata e su tutto ciò che fa parte della nostra interiorità.

Pensa a come questa tecnologia possa rendere facile la vita a un possibile regime dispotico e antidemocratico. Pensa a quanto sarà facile monitorare, associare delle conversazioni a un nome e un volto e poi imbavagliare con i modi più disparati le opinioni diverse dalla “cultura dominante”, pensa a quanto sarà facile controllare le comunità locali che magari lottano contro le decisioni del governo per la tutela del proprio ambiente e della propria salute, pensa a quanto sarà facile egemonizzare le diversità culturali, sociali, individuali, non solo da parte dei governi, ma soprattutto della cultura globalista.

E infatti siamo così convinti che rischiando di mostrare il nostro Io tramite un dispositivo non saremo poi preda dell’omologazione delle nostre individualità? Del resto l’omologazione culturale parte proprio dalla conoscenza delle diversità sociali e individuali e dalla loro lenta erosione. L’erosione che parte proprio da quel dispositivo con cui, forse, starai leggendo quest’articolo.

Lercio e gli anti-vax

lercio vaccini

Non ho mai voluto prendere posizione sulla diatriba pro-vax / anti-vax, anche perché ritengo l’obbligo vaccinale un’imposizione eccessiva e, sotto certi versi, ingiustificata, ma la tematica è stata affrontata in modo forzoso dal Governo in una sorta di risposta di pancia alle sempre più eccessive reticenze, da parte di numerosi genitori, nell’assolvere al dovere di vaccinare i propri figli, per evitare l’insorgenza di malattie che ritenevamo superate da tempo.

Insomma, su questo tema tutti hanno torto e tutti l’hanno affrontato nel peggiore dei modi. Il Governo perché impone con legge un dovere igienico-sanitario che spetterebbe ai genitori e che, fino ad oggi, è stato assolto in modo pressoché sistematico senza grosse ripercussioni; i cosiddetti anti-vaccinisti perché, spesso preda di false notizie, complottismi da quattro soldi, pareri di pseudo-scienziati e leggende metropolitane, mettono in serio rischio la salute pubblica, evitando ai propri figli anche le vaccinazioni minime.

Pro-vax e anti-vax, in questi mesi, se le danno di santa ragione a suon di post, commenti, condivisioni, tweet e dibattiti televisivi e digitali, in una sorta di epopea in cui soprattutto i no-vax muovono accuse, allarmi, urla e insulti variopinti, prospettano oscure trame ordite tra Governo e grandi Aziende farmaceutiche per fare affari d’oro sulle spalle dei poveri italiani e propongono dissertazioni scientifiche – fatte rigorosamente sui social – basate su tanti proclami ma pochi contenuti tecnici. Del resto se un medico no-vax o pro-vax spiegasse scientificamente l’utilità o meno dei vaccini, con (doveroso) linguaggio tecnico e con grafici, dati, analisi, chi li capirebbe? Nessuno, nemmeno un medico generico forse riuscirebbe a districarsi tra i meandri di esposizioni scientifiche così complesse. Ed è per questo che – fino ad oggi – la gente tendeva a fidarsi della Scienza.

Ma ora, soprattutto a causa del dilagare, su internet, di informazioni di basso profilo, facile comprensione e spesso di dubbia provenienza, e grazie alla nota propensione dell’italiano medio a imboccarsi qualsiasi cosa (ricordo che siamo il Paese con il primato assoluto in materia di analfabetismo funzionale), può capitare che persino un articolo web proveniente da un notissimo giornale di satira venga scambiato per vero e dia origine a centinaia di condivisioni la cui lettura è uno spasso nel delineare l’archetipo dell’analfabeta funzionale (e pure strutturale).

Tutto è iniziato con la condivisione di quest’articolo del Lercio, intitolato “La figlia di Roberto Burioni rifiutata dalla scuola: non è vaccinata”, da parte di un noto no-vax, un certo Salvatore Morelli, di professione logopedista (una specializzazione chiaramente votata alla profonda conoscenza dei vaccini), che – a suo dire – lo avrebbe condiviso per scherzo per sfottere il collega Burioni.

Qualunque sia stata la sua intenzione, il risultato è che l’articolo è stato ricondiviso da centinaia di persone, tutte che credevano alla bontà della notizia. Di seguito alcuni esempi

Ora, un paio di riflessioni.

Da quel che ne so, se uno vuol fare dell’ironia, lo lascia intendere. In questo caso il prode Morelli ha sì commentato la notizia con una frase vagamente ironica (Prof Roberto Burioni mai mi sarei aspettato questo da te, accompagnata da una faccina sorridente), ma non ha specificato la cosa essenziale: che l’articolo del Lercio era evidentemente un articolo di satira. Se lui l’avesse capito o meno non è dato saperlo, visto che il dott. Morelli non ha dimostrato di saper sottolineare l’ironia della faccenda.

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Il post del dott. Morelli

Ciò detto, va evidenziata un’altra cosa, che più mi rattrista e mi diverte allo stesso tempo.

Lercio esiste da diversi anni e tutti sanno che fa satira. Ma vabbè, facciamo conto che non tutti lo sanno.
L’articolo parte con “Epidemi (CO)“, notissimo paese in provincia di Como, gemellato con “Presiden (TA)“, paese d’origine della Boldrini (lei, chissà perché, non è stata citata dai no-vax). Ma vabbè, sta finezza non l’hanno colta tutti.
Cita un certo “Libero Di Scelta”, autore del famosissimo sito web “www.AMeNonMiFregate.it”. Ma vabbè, facciamo finta che non tutti hanno dimestichezza con nomi e domini.
Però – per dio(gene) detto il cane – sull’“analisi dell’ascendente ematoencefalico” e sulla cura “con i fiori di Bach o al limite con le palle di Mozart” poteva sorgere, tra i lettori, il seppur minimo sospetto che si tratta di satira, ma facciamo pure facile ironia o supercazzola? No, eh? Proprio nulla? Quindi questa è l’ennesima dimostrazione che la gente non capisce ciò che legge oppure condivide i contenuti e si fa un’opinione solo leggendo un titolo. E, dunque, potrei mai aderire alle teorie propugnate da questa gente? Non so, devo informarmi meglio sul tema vaccini. Quasi quasi interpello un fitopatologo vegetale, un nutrizionista o un veterinario.

Carpisa ti fa vincere uno stage aziendale!

vinci con carpisa stage aziendale

Lo ammetto, anche se le borse donna di Carpisa mi fanno cacare, ero tentato di acquistarne una solo per partecipare al grande concorso che mi avrebbe dato l’emozione di vincere nientepopodimeno che uno stage presso il loro fighissimo ufficio di Marketing&Advertising della sede di Napoli!

Wow! Non stavo nella pelle!

Poi, dopo la prima euforia mi sono un pochetto ripreso e ho iniziato a rimuginare.

“Un attimo” – ho pensato – “ma uno stage non è una forma di lavoro?”

“Eccheccapperi, certo!” – ho continuato – “è un lavoro, anche se viene spacciato per tirocinio formativo”.

“Quindi” – ho ancora continuato a pensare – “io dovrei comprare i loro prodotti per trascorrere un mese di lavoro aggratiss presso i loro uffici?”.

“Certamente”, ho nuovamente continuato a pensare, mentre l’occhio mi cadeva sul secondo punto del bando: Elabora il tuo piano di comunicazione richiesto (scopri i dettagli del progetto).

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Come fossi travolto da un insolito destino sotto il cielo settembrino nubibondo, frescuccio e odorante di mosto, ho cliccato sul link (scopri i dettagli del progetto) e ho scoperto – nei dettagli – che avrei dovuto predisporre un vero e proprio piano di comunicazione aziendale.

“Aspetta, aspetta” – ho pensato (e cacchio quanto sto pensando ultimamente! Sarà che mi fa male?) – “questi non solo mi fanno comprare una borsa brutta, mi fanno fare uno stage di un mese aggratiss, ma devo pure fare il lavoro del loro fighissimo ufficio di Marketing&Advertising perché, molto probabilmente, non c’hanno più fantasia e idee e quindi si serviranno di queste trovate markettare per infinocchiarmi, farmi lavorare aggratiss e dargli pure degli spunti di idee sotto forma di un vero e proprio piano strategico?”

Dopo tutto sto pensare mi è venuto in mente Marx e la legge dello scambio di equivalenti e ho pensato: “ok, va tutto bene, Carpisa ha solo rispettato le leggi del mercato attuale: il lavoro non conta un cazzo, devi ringraziare iddio se ti fanno entrare in azienda aggratiss, sei solo un consumatore che deve pagare pure per lavorare e le tue idee le devi regalare in cambio di acquisti di merce. Quindi compri per lavorare.

Al ché sono andato a dormire sereno, steso su una brandina sotto un cielo nubibondo rinfrescato dalle leggiadre temperature settembrine e mentre mi addormentavo pensando a quei bei tempi in cui dovevi lavorare per comprare tutto ciò che ti serviva, tutto, tranne le orrende borse donna di Carpisa.

Il Mercato degli Eventi e l’egemonia sul Folklore

Antonio Gramsci egemonia e folklore

Il Folklore (o cultura popolare) rappresenta il sapere, stratificato in migliaia di anni e trasmesso oralmente dalle classi subalterne ed è l’unico strumento che il Popolo ha per difendersi dall’egemonia culturale delle classi dominanti. E’ un Patrimonio ricco di musiche e canti, detti e racconti, saperi e tecniche, fiabe e leggende che rappresenta l’architrave del Patrimonio immateriale dell’Italia de le molte genti. E’ talmente importante e delicato che personaggi come Antonio Gramsci, Ernesto de Martino, Alberto Mario Cirese, Gianni Bosio, Rina Durante e tanti altri hanno dedicato una vita per ridargli dignità e studiarlo con metodologie scientifiche in modo da comprenderne l’importanza nella costruzione di una cultura europea e nella consapevolezza del rifiuto della pretesa di ricondurre le diversità culturali a una matrice unitaria, nella negazione dell’esistenza di valori assoluti comuni a tutte le culture e nel rifiuto dell’etnocentrismo in quanto attribuzione illegittima di un valore privilegiato a una cultura particolare.

Lo sforzo compiuto da questi intellettuali è stato immane, perché per secoli – e in parte ancora oggi – la cultura popolare è stata vista come un aspetto pittoresco proveniente da una sub-cultura povera, frutto di concezioni parziali e incolte del mondo e retrograda perché espressa da strati sociali privi di istruzione. Gramsci invece capovolge completamente questa concezione e rinviene, nella cultura popolare, il leit-motiv per riattribuire al Popolo quella dignità perduta, per ridare importanza a quella filosofia spontanea che, come scrive lo stesso Gramsci, si rinviene nel linguaggio stesso, che è un insieme di nozioni e di concetti determinati e non già e solo di parole grammaticalmente vuote di contenuto; nel senso comune e buon senso; nella religione popolare e anche quindi in tutto il sistema di credenze, superstizioni,opinioni, modi di vedere e di operare che si affacciano in quello che generalmente si chiama “folklore”.

Antonio Gramsci fu quindi il primo intellettuale a occuparsi del folklore in modo scientifico e a trattare la Cultura popolare come un elemento critico e alternativo alla cultura dominante, non in chiave conservativa, come mera teca da museo, ma in chiave progressista, come elemento essenziale per la comprensione del Popolo e per la sua rappresentatività socio-culturale, infatti nelle sue osservazioni sul folklore, scriveva che quest’ultimo non dev’essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio. In altre parole Gramsci studiò la Cultura popolare, tra cui i canti, le musiche, la poesia vernacolare, il linguaggio e tutti gli altri aspetti che compongono il folklore e lo riannesse all’interno della Società, spostandolo da un terreno estetico-letterario a uno socio-culturale, oppure etno-antropologico, quindi contestualizzando la Cultura popolare in chiave storicistica e sociale. La sua operazione di attribuzione della dignità alla cultura popolare fu innovativa e aprì numerosi scenari alla scienza antropologica negli anni a venire.

Insomma, il folklore è importante perché rappresenta una diversa concezione del Mondo, spontanea e lontana da quella cultura egemonica che viene imposta e che il popolo non sente come propria, ma subisce l’inculturazione attraverso l’istruzione scolastica (il ché sarebbe il male minore), i media, le mode e l’appiattimento culturale globale studiato a tavolino al fine di attuare politiche commerciali di massa.

Il folklore ha appunto, secondo Gramsci, questa funzione di contrapposizione: grazie ad esso gli «strati inferiori» della piramide sociale si rendono parzialmente in grado di resistere alle influenze delle filosofie «superiori» e di formularne una critica «rozza». Attraverso il folklore si esprime ciò che potremmo chiamare una pre-coscienza o una coscienza «diffusa» degli elementi incolti della società, costituita da strati sovrapposti formatisi nel corso della storia e dalla giustapposizione di elementi di attualità (ogni strato è una resistenza che viene opposta alle diverse filosofie che si sono succedute nel corso dello sviluppo storico). Di qui, la fisionomia spuria, arcaica e incoerente con cui il folklore si presenta e con la quale gli studiosi si scontrano.

Del resto anche Carlo Levi e Ignazio Silone scrissero che la storia ufficiale, quella cultura dominante che impone ai contadini e ai cafoni regole incomprensibili e lontane da quelle regole della Natura e della Storia tipiche della Cultura popolare, sono storie altrui, che nulla c’entrano con la millenaria storia di popoli vissuti da sempre – e per sempre – seguendo regole cicliche e naturali, rispettando le leggi di una tradizione persa nel tempo e ragionevole e comprensibile, perché immutabile e naturale. Come si può comprendere ciò che non si conosce, ciò che rispetta regole opposte? I cafoni osservano da tempo regole che i cittadini non sentono proprie, perché lontani dallo scorrere regolare delle stagioni, dagli asti dovuti al naturale susseguirsi degli eventi, così come i cittadini osservano leggi positive, che comprendono perché ragionevoli in base a ciò che i sovrani – o gli stati, le dittature o le democrazie rappresentative – impongono e diffondono. Sono due culture inconciliabili, ma non per questo una è superiore all’altra.

L’UNESCO e la tutela del Patrimonio Culturale Immateriale

UNESCO_logo

Gramsci non ha vissuto l’epoca della globalizzazione, ma il suo pensiero è ancora attuale e si adatta anche alla concezione del local inteso come contrapposizione al modello globalista ed espressione viva delle identità locali, quindi, in ultima analisi, quale espressione culturale subalterna al pensiero dominante, a quel pensiero che appiattisce le diversità e impone le uguaglianze. La stessa operazione – appunto per salvaguardare le diversità – è stata fatta, per decenni, dall’UNESCO, che, sin dal 1989, con la Raccomandazione sulla salvaguardia della cultura e del folklore, ha espresso preoccupazione per la progressiva scomparsa del Patrimonio Culturale immateriale – cioè il folklore, e ha chiesto agli Stati firmatari di porre in essere tutte le misure idonee e necessarie al fine di salvaguardare le espressioni culturali folkloriche perché fanno parte del patrimonio universale dell’umanità e che sono un potente mezzo di riavvicinamento dei diversi popoli e gruppi sociali e di affermazione della loro identità culturale.

Poi, a partire dal 1997 l’UNESCO è andato sviluppando una particolare attenzione per il patrimonio culturale immateriale (Intangible Cultural Heritage), per il quale ha costituito, all’interno della Divisione del patrimonio culturale, una sezione appositamente dedicata (Section of Intangible Heritage). A partire dal 1998 l’UNESCO ha intrapreso una serie di azioni concrete in questo settore con il progetto Preserving and revitalizing our Intangible Heritage, articolato in diverse azioni: Masteripieces of Oral and Intangible Heritage of Humanity riguarda i patrimoni orali e immateriali dell’umanità meritevoli di riconoscimento; Living Human Treasures promuove i depositari di saperi e tecniche trasmesse oralmente (artigiani, artisti, etc.); Endangered Languages pone l’attenzione sulle lingue a rischio di estinzione; Traditional Music of the World pubblica i dischi dedicati alle culture musicali mondiali.

Nel novembre 2001, inoltre, l’UNESCO ha adottato la Dichiarazione universale sulla diversità culturale, affermando che la diversità culturale è essenziale per l’umanità come lo è la biodiversità per la natura. Anche in questo caso, l’UNESCO ha ribadito la necessità di approntare gli strumenti più adeguati, da parte degli Stati aderenti, per la conservazione e lo sviluppo del patrimonio culturale, sia materiale che orale, nonché il rispetto e la protezione dei saperi tradizionali.
Nel 2003, poi, l’UNESCO ha emanato la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale in cui ha consacrato la necessità di salvaguardare le espressioni culturali immateriali popolari in modo più maturo e preciso, definendo patrimonio culturale immateriale “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana (…)”.

E’ evidente, da questa sommaria analisi, l’importanza che assume il Patrimonio Culturale immateriale del folklore per lo sviluppo delle Culture mondiali (il plurale è d’obbligo) e per il naturale svolgersi delle formazioni sociali in cui le personalità individuali si dipanano e trasmettono alle generazioni future quel know-how ricco di storia stratificata e di conoscenze naturali ma sempre a un passo dall’estinzione, schiacciato com’è dalla cultura egemonica, mondialista e globalista, cultura foraggiata e sostenuta dai media e dal mercato globale.

Gli anni d’oro del folklore

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Rina Durante, intellettuale salentina, ricercatrice e fondatrice di uno dei pochi gruppi oggi rappresentativi della concezione folklorica di gramsciana memoria: il Canzoniere Grecanico Salentino (attivo dal 1975)

E’ evidente che in un secolo di attività etno-antropologica la cultura popolare è riemersa e gli è stata attribuita quella giusta dignità come elemento non solo di memoria del passato, ma anche di espressione viva del presente in antitesi alla cultura dominante e piatta tipica del modello global.

Sin dagli anni Cinquanta, mentre si sviluppava la Questione Meridionale, numerosi antropologi, etnomusicologi ed intellettuali ponevano le basi per la creazione di una coscienza popolare attraverso il riaffiorare di musiche e canti, in chiave anti-sistema o, per meglio dirla, in chiave pro-diversità. Erano gli anni in cui, attraverso la musica, si creava una coscienza di classe, una coscienza popolare, un modo come un altro per attribuire al Popolo quella dignità perduta e nascosta sotto le ceneri di una cultura dominante che beffeggiava gli ignoranti, i cafoni, i contadini, quella fetta di popolo priva di cultura accademica ma ricca di cultura del vivere. In quegli anni si cercò di rimettere in vita quella filosofia spontanea di gramsciana memoria. E ci riuscirono. Difatti per tutti gli anni Sessanta e Settanta intellettuali come Gianni Bosio, Caterina Bueno, Giovanna Marini, Diego Carpitella ripresero i canti popolari italiani e gli attribuirono quella dose di culturalità che avevano smarrito negli anni precedenti.

Il canto

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I Cantori di Carpino

Il canto rappresenta la più alta forma di espressione culturale immateriale. E’ il modo più veloce e compiuto di diffondere concetti, storie, notizie, una coscienza collettiva e un fare comunità che nessun’altra forma immateriale può esprimere.

Se torniamo a Gramsci, possiamo capire esattamente cos’è il canto popolare. A scanso di equivoci, soprattutto per coloro che ritengono che popolare (o folk) è solo il canto creato dal popolo per il popolo o quello che si completa solo nelle musiche locali, va invece detto che il canto popolare è quello in cui il popolo stesso si riconosce, al di là della lingua utilizzata (dialetto o lingua nazionale) o della melodia (non importa se locale o classica o, ancora, priva di accompagnamento musicale). Secondo Gramsci, seguendo una divisione o distinzione dei canti popolari formulata da Ermolao Rubieri, troviamo questi canti:

  • i canti composti dal popolo e per il popolo;
  • quelli composti per il popolo ma non dal popolo;
  • quelli scritti né dal popolo né per il popolo, ma da questo adottati perché conformi alla sua maniera di pensare e di sentire.

“Mi pare che tutti i canti popolari, aggiunge Gramsci, si possano e si debbano ridurre a questa terza categoria, poiché ciò che contraddistingue il canto popolare, nel quadro di una nazione e della sua cultura, non è il fatto artistico, né l’origine storica, ma il suo modo di concepire il mondo e la vita, in contrasto colla società ufficiale: in ciò e solo in ciò è da ricercare la «collettività» del canto popolare, e del popolo stesso. Da ciò conseguono altri criteri di ricerca del folklore: che il popolo stesso non è una collettività omogenea di cultura, ma presenta delle stratificazioni culturali numerose, variamente combinate, che nella loro purezza non sempre possono essere identificate in determinate collettività popolari storiche: certo però il grado maggiore o minore di «isolamento» storico di queste collettività dà la possibilità di una certa identificazione”.

Grazie alle chiarificazioni concettuali espresse da Gramsci e allo sviluppo della scienza antropologica, numerosi intellettuali iniziarono una raccolta metodologica di tutti i canti popolari, indipendentemente dal valore artistico-musicale, che poi, negli anni, diffusero nel mondo musicale italiano. Erano gli anni d’oro perché cantautori come Fabrizio De Andrè, Francesco De Gregori, Francesco Guccini, Giovanna Marini, Caterina Bueno e tanti altri aderirono a tale concezione e costruirono un’intellighenzia basata sulla diffusione del canto popolare e sullo studio metodologico delle musiche, tonalità, tecniche corali, ossia un’impressionante mole di diversità musicali che persino personaggi come Tito Schipa, già prima di loro, vollero approfondire perché i canoni musicali popolari erano lontanissimi da quelli canonici e ufficiali. Nei decenni a venire – e siamo già negli anni Ottanta e Novanta – la musica popolare si strutturò nel Meridione, precipuamente nel Salento, dove trovò terreno fertile grazie a intellettuali come Rina Durante che, sin dagli anni Settanta, s’impegnò nella riemersione del canto popolare. Quelli erano anche anni in cui – in tutta Italia – iniziava l’interesse, da parte del mercato culturale, verso gli eventi folk. Non a caso nel 1986 nacque il festival di musica popolare di Forlimpopoli, nel 1991 l’Isola Folk di Bergamo e nel 1998 la Notte della Taranta.

La Notte della Taranta nel 1998. Che differenza c’è rispetto a quella attuale?

Fino alla fine degli anni Novanta il folk revival (così fu definito da numerosi intellettuali) si sviluppò al punto tale da stuzzicare l’interesse di numerosi antropologi e studiosi di tutto il Mondo che – attratti dall’imponente rinascita del folklore locale – iniziarono una fiorente letteratura sul tema, tanto che, fino ai primi anni Duemila, si scrisse tanto e si discusse tanto sui motivi per cui – soprattutto nel Meridione – la musica popolare riscosse tanto successo non solo tra gli operatori del settore, ma anche nel grande pubblico. I motivi erano al contempo complessi e banali: la riscoperta delle origini, del Patrimonio sepolto, dei saperi antichi andavano di pari passo con la prepotente espansione del modello globalista, quasi in una sorta di antitesi e resistenza popolare al dilagare di una cultura che il popolo non sentiva propria e che, indagando nella propria storia, si riconosceva in ciò che il territorio, per secoli, ha trasmesso e ha lasciato in eredità: storie, tecniche, saperi, racconti, proverbi, cucina, ma soprattutto musiche e canti.

Il modello globalista ed egemonico del mercato degli eventi e del turismo di massa

Nell’ultimo decennio, però, qualcosa è cambiato. Il mercato degli eventi ha incontrato la musica popolare e, sotto gli occhi distratti degli appassionati e dei riscopritori, ha iniziato un lento ma inesorabile processo di disgregazione del Patrimonio culturale immateriale. Ad accorgersi di ciò, com’è prevedibile, sono stati gli intellettuali che, sin da subito, hanno lanciato allarmi circa l’importanza di procedere alla tutela del Patrimonio immateriale per evitare che possa estinguersi sotto i colpi del crescente turismo di massa e del sempre più pressante mercato degli eventi.

In effetti ciò che, fino a pochi anni prima, veniva definito turismo etnico o culturale, fatto di gente che si recava nei luoghi vivi della tradizione al fine di assistere a manifestazioni pulsanti di musiche e canti popolari, in pochi anni si è tramutato in turismo di massa, fatto di gente a cui non interessa affatto l’aspetto culturale, ma solo il divertimento quotidiano e feroce e che – per passione, moda o diletto – pretendeva di assistere quotidianamente a manifestazioni musicali divertenti e ballerecce. Le comunità locali, da un lato impreparate all’invasione e dall’altro poco propense a strutturare l’offerta turistica perché frammentate e storicamente tendenti ad approfittare del momento in ottica epicurea e poco lungimirante, si divisero tra chi (pochi) non accettava la svendita del Patrimonio Culturale e chi (i più), invece, propendeva per facili guadagni con pochi investimenti. Del resto il mercato globale degli eventi è ben capace di raggirare chi non ha il giusto humus culturale per potervi resistere.

E infatti negli anni si sono moltiplicati gruppi di riproposta, corsi improvvisati di musiche e balli popolari in tutta Italia, ballerini, nonché sagre e festival, spesso nati dal nulla e spacciati come tradizionali, tutto al fine di accontentare il mercato turistico di massa. La presenza di numerosissimi musicanti e insegnanti di musiche e balli (spesso improvvisati e senza formazione culturale) ha chiaramente aumentato la curva dell’offerta con conseguente riduzione del valore, portando quindi ad una forte concorrenza basata su bassi compensi e alta presenza di musiche e canti ballabili.

Le conseguenze sono state numerose, tra cui:

  • la progressiva inumazione dei canti tipicamente popolari, ossia di quei canti che il popolo riconosce nella propria concezione del mondo e dell’attualità, quindi scomparsa di canti di denuncia, di storie e racconti attuali, di canti di lavoro, di protesta, di canti volti a diffondere una coscienza sociale. Non è un caso – faccio una breve digressione, poi ne parlerò più diffusamente avanti – che spettacoli come la Notte della Taranta non diano voce alle pressanti richieste del territorio di denunciare gli scempi ambientali e di raccontare la realtà attuale;
  • l’aumento eccessivo di ballatori (non ballerini) e musicanti (non musicisti) che, basandosi non sulla memoria, ma su arrangiamenti che funzionano e che vendono, propongono cover ormai prive di senso di canti e musiche ballabili, fatte da altri gruppi di riproposta, come una fotocopia di una fotocopia di una fotocopia dell’originale (sempre se si possa parlare di originalità nella cultura popolare);
  • l’aumento eccessivo di ritrovi e feste popolari, secondo lo schema imitativo di grandi eventi che funzionano e che attraggono gente, quindi sagre o feste inventate di sana pianta che spesso si accavallano a quelle tradizionali (quelle che, ricordo, secondo l’UNESCO devono essere tutelate) e che ne disgregano la funzione e il contenuto;
  • la concezione per cui la musica popolare non è un bene comune, ma un elemento commerciale come qualsiasi altro, da sfruttare. In base a tale concezione si verificano, poi, casi come quello per cui diversi musicanti e ballatori snobbano le feste tradizionali, vive (che necessitano di tutte le energie possibili per restare tali) per suonare in contesti avulsi, sotto spinte commerciali.
  • l’evidente aumento di suonatori spontanei (causati da corsi di musicanti improvvisati) che, in eventi orizzontali (cioè senza palchi), ossia l’anima pulsante delle musiche popolari, ne rovinano l’esecuzione impoverendone gli stili e le tecniche.

Tale fenomeno ha schiacciato in qualche modo le poche feste e i pochi ritrovi rimasti vivi, tanto da suscitare l’indignazione e l’accorato appello alla tutela dei ritrovi musicali tradizionali.

Così scrive Roberta Tucci, in Come salvaguardare il patrimonio immateriale? Il caso della scherma di Torrepaduli: “A Montemarano i suonatori della tarantella non permettono a chiunque di unirsi a suonare con loro durante il carnevale: se mai, concedono tale “onore” solo a persone scelte da loro stessi, con le quali hanno da tempo costruito un rapporto personale e di cui si fidano sul piano musicale. Del resto, a chi verrebbe in mente di inserirsi, con il proprio strumento musicale o con la propria voce o con il proprio corpo, in un contesto culturale “ufficiale”, quale può essere un concerto (di un’orchestra, di una banda, di un gruppo rock), o uno spettacolo di danza e di teatro? Perché, invece, gli spazi della cultura “popolare” possono venire tranquillamente occupati, senza neanche chiedere il permesso?” 

Il caso del Salento ha quindi allarmato gli operatori del settore in quanto la crescente attenzione turistica non solo ha rovinato la tradizione viva, congelandola e impedendone la naturale evoluzione, ma ha creato modelli intimamente globalisti imitati anche da altri territori, con conseguente depauperamento delle espressioni folkloriche locali. E’ il caso di alcune zone della Sicilia, dove – per imitare festival come la Notte della Taranta – si oscura il ricco patrimonio musicale locale.

Caso emblematico: il folklore e La Notte della Taranta

Notte della Taranta e folklore

Quando il Festival della Notte della Taranta compì i primi passi volti a diffondere la musica popolare salentina nell’incontro con musiche altre, si progettò – accanto al festival – la creazione dell’Istituto Diego Carpitella, il quale aveva il compito di raccogliere, tutelare e valorizzare il complesso Patrimonio folklorico locale. Inutile dire che ha funzionato solo negli anni d’oro (pochi, a cavallo tra la fine del Novanta e i primi del Duemila). Anche con l’istituzione della Fondazione Notte della Taranta, le finalità di salvaguardia furono ribadite solo a parole, ma ad oggi non si conoscono le finalità culturali della Fondazione se si escludono pochi studi fatti in collaborazione con alcune Università, non sull’aspetto culturale ma sull’aspetto economico del Festival (è sufficiente dare un’occhiata al sito web, dove di cultura non v’è menzione), tant’è che, dopo numerose richieste sempre inascoltate, l’antropologo Eugenio Imbriani lasciò la Fondazione.

Ad ogni modo il merito della NdT è stato quello di diffondere globalmente la musica popolare salentina (per lo più quella ballabile, trascurando il resto), ma ha contribuito – in apparenza paradossalmente – all’appiattimento culturale del Patrimonio folklorico, incanalando le espressioni musicali folkloriche nel mercato globale degli eventi. In altre parole, tutti gli sforzi compiuti in un secolo di scienza antropologica volta a riattribuire al popolo la propria musica, in chiave antisistema e identitaria, sono stati sconfessati da grandi festival (la NdT in primis) che invece hanno, a piè pari, consegnato alla cultura egemonica le diversità musicali, impoverendole e congelandole in teche da museo, anzi, in disco-teche.

L’importanza che assumono i gruppi di riproposta nella salvaguardia, valorizzazione e promozione del Patrimonio del folklore locale

La colpa (se di colpe si può parlare) però, non è solo della NdT, la quale deve necessariamente rispondere a logiche commerciali e fare numeri, per potersi inserire nel mercato globale degli eventi; la colpa è anche degli operatori del settore, ossia di gruppi di riproposta, appassionati e intellettuali che – oggi – non sono in grado di riannodare i fili col passato e riprendere, con coraggio e consapevolezza, il ricco patrimonio culturale, facendolo proprio ed evolvendolo. A parte poche eccezioni, molti operatori del settore diventano così inconsapevoli schiavi del sistema degli eventi, quindi schiavi della cultura egemonica e, per pochi soldi, acconsentono a svendere il proprio patrimonio musicale.

Sia chiaro, non è un problema di cachet. Ogni musicista può scegliere di farsi pagare come vuole, è un problema di paternità. La cultura popolare è la cultura del Popolo, è la conoscenza trasmessa dai nostri avi e che bisogna custodire e tramandare, non appartiene a chi la suona. Chi la suona ne è custode e non proprietario. Ed è per questo motivo che i primi responsabili dell’affossamento delle culture popolari e della consegna del popolo alla cultura dominante e globalista sono gli stessi che suonano inconsapevolmente sui palchi, per quattro spicci, tradendo così la propria storia.

Parafrasando R. Tucci, bene fanno coloro i quali sono gelosi custodi del proprio Patrimonio, bene fa quella popolazione che impedisce a chiunque di inserirsi in contesti musicali, se privo di consapevolezza o se sconosciuto, per rovinarne l’esecuzione e soprattutto bene fa quella popolazione che acconsente di suonare sui palchi la musica popolare se non col contagocce, se non dopo un percorso di presa di coscienza dell’importanza di tali musiche. Il punto, attenzione, non è se sia bene o meno suonare sui palchi (anche se la musica popolare è in antitesi con tale concezione), ma come lo si fa, con quale spirito e con quale livello di conoscenza, ma soprattutto con quale intenzione di raccontare, spiegare e diffondere il significato di tali musiche e canti.

Le questioni sociali e la musica popolare

Quello che Gramsci ha messo maggiormente in evidenza nei suoi studi sul folklore è la funzione del racconto popolare, soprattutto attraverso il canto. Nel canto si raccontano storie e si trasmette, criticamente, la propria concezione del mondo, in modo da partecipare attivamente alla storia del mondo, essere guida di se stessi e non già accettare passivamente e supinamente dall’esterno l’impronta alla propria personalità. Dunque la funzione del canto è di trasmettere storie, informazioni e creare una coscienza popolare.

A ben vedere, tutti i canti popolari hanno avuto, in passato, questa funzione che Gramsci ha lucidamente riconosciuto e ha fatto riemergere al fine di costituire una cultura sub-alterna contrapposta a quella dominante. Ma negli ultimi anni pochissimi sono stati gli esempi di musicisti (o meri appassionati) che hanno riscritto la musica popolare e adattata ai tempi attuali. Il caso del Salento – ancora una volta – è emblematico di questa dicotomia tra memoria stantia e adattamento concettuale di musiche e canti popolari. Molti – forti dell’esempio della NdT – hanno concentrato la propria attenzione sul rinnovamento degli arrangiamenti, in modo da adattare la musica del folklore locale ad altri stili musicali, quasi in una sorta di complesso di inferiorità per cui la musica popolare, di per sé, alla lunga può stancare. E infatti stanca a tal punto che è sopravvissuta – evolvendosi – per migliaia di anni.

Altri artisti hanno invece, con fatica, adattato l’impianto musicale tradizionale ad esigenze nuove, in forma di denuncia, riscatto, racconto di storie attuali, ma gli viene impedito, in grandi eventi, di professare le proprie idee. E infatti non si può sottacere che – ormai da diversi anni – manifestazioni come la Notte della Taranta, accanto a molti organizzatori di eventi, osteggiano quei gruppi sociali che vorrebbero ottenere voce da eventi mediatici così importanti per porre all’attenzione del grande pubblico tematiche sociali attuali e scottanti, quali lo scempio ambientale, denunciando opere impattanti sul territorio quali il gasdotto TAP, l’avvelenamento delle falde acquifere, la presenza di petrolchimici, acciaierie e centrali elettriche che deturpano l’ambiente e danneggiano la salute pubblica e tante altre tematiche che – secondo una legge naturale e storicistica – sarebbero proprie delle culture popolari e che ne rappresentano l’intima essenza.

Se Gramsci fosse vivo oggi direbbe che il folklore è regredito di nuovo a mera spettacolarizzazione pittoresca di fantasmi del passato ormai morti e privi di senso, che la cultura dominante ha sotterrato la cultura popolare, piantando il proprio vessillo sulle ceneri fumanti di memorie ormai stantie e prive del loro significato più vivo e che la tradizione, così com’è ora, è solo mero servilismo a logiche egemoniche, nell’illusione per cui la tradizione è l’espressione di un’identità locale ma dominata da un’unica cultura globale.

Forse Gramsci non userebbe parole così banali, ma il concetto resta: la tradizione e le espressioni musicali del folklore attuale non rappresentano più alcuna concezione del ruolo del popolo nella storia e nell’attualità. Il popolo, oggi, si è asservito alla cultura egemonica e chi canta sui palchi nemmeno se n’è accorto.

Emigrante

emigrante

Una poesia sull’emigrazione. Da Sud a Nord. Perché si è sempre più meridionali di qualcuno.

Emigrante

Valigia di cartone

e sguardo ramingo

tu poni le tue speranze

in terre nuove,

ricche di sogni

e di lavoro,

in americhe ostili

o fredda Europa.

Come quel nero africano

che, da Sud

sbarca su meridionali,

italici, lidi

alla ricerca di futuro

e dignità

tu volgi a Nord

la tua fiduciosa vista

e guardi con disprezzo

chi

più meridionale di te

solca sabbia

dalla tua giovinezza

calpestata

che tu, indifferente e grave,

lasciasti all’avverso destino.

Il Nord sognato e mai visto

ti si palesò ostile

tra strade ignote

e ignari soccorsi.

E mentre sguardi glaciali

e biondi capelli

ti schivano, schifati

tu, schiavo tra i servi,

in anni dominio,

di servitù vessato

al tuo loco tornato

tessi affrettati

e ingiusti giudizi

su chi, come te,

lasciò domestici lidi

per avventurarsi

in terre ostili

vagheggiando di lavoro

e dignità.

Madonna, la pizzica e il servilismo

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Il 15 agosto Madonna ha compiuto 59 anni e ha deciso di trascorrere le vacanze e festeggiare il suo compleanno nello splendido scenario di Borgo Egnazia a Fasano, dove già c’era stata l’anno scorso e dove, a quanto pare, molti vip internazionali hanno fatto tappa in questi anni. Per il suo compleanno ha selezionato una dozzina di suonatori di tamburello al fine di intrattenere gli ospiti e festeggiare in modo tradizionale, ballando la pizzica-pizzica. E’ inutile dire che il video della sua performance ha fatto il giro del mondo e ha ottenuto numerosi plausi e anche qualche fischio.

Già, sono tanti quelli che l’hanno osannata (del resto è la regina mondiale del pop), ma anche molti l’hanno criticata. Perché? Perché non sa ballare la pizzica. E sti cazzi no? E’ ovvio che non la sa ballare e che – per festeggiare il suo compleanno – ha improvvisato qualche passo e si è lasciata andare in modo spontaneo.

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Il punto, però, è un altro.

Madonna è una star internazionale e su questo non ci piove. Per lei hanno persino aperto la scalinata che conduce al campanile del Duomo di Lecce, chiusa da decenni per motivi di sicurezza, ma si sa che la notorietà ovvia a qualsiasi ordinanza di sicurezza, con ciò dimostrando che gli italiani – e in particolare i salentini – possono trascendere qualsiasi motivo pur di accontentare lo straniero, per di più se famoso.

Ma con la storia della pizzica suonata a Fasano, in occasione del compleanno della star, si è dimostrato tutto il servilismo e il lecchinaggio tipico di tanti abitanti del Sud del Sud d’Italia che, con un colpo di lingua, hanno affossato qualsiasi tentativo (vano, finora) di riattribuire alla musica popolare quella dignità perduta con la scomparsa della civiltà contadina e ripresa (a fatica) negli anni ’70 grazie a personaggi come Giovanna Marini o Rina Durante che hanno faticosamente (va ribadito) ripreso la musica popolare e riadattata in chiave anti-sistema. Gli sforzi di tanti intellettuali nostrani o stranieri di dare dignità alla musica popolare salentina si sono sciolti come neve al sole, in questi anni, grazie alla mercificazione, a buon prezzo, della pizzica (accostata alla taranta, come se fossero due generi, e nemmeno i suonatori sanno che la taranta non è un genere, ma solo un ragno. Epperbacco, studiate però!), svenduta in tutta Italia (e anche fuori) grazie a gruppi musicali improvvisati, corsi di dubbio gusto, passi di ballo inventati, musiche arrangiate come fossero cloni della Notte della Taranta e una generale disinformazione sulle radici di tali musiche e balli. Insomma, il mercato chiama e il salentino, improvvisato suonatore, si svende. Quanto chiede un gruppo? 400 euro? E io ne chiedo 300 pur di suonare alla sagra del melone di Roccaforzata. Questo è il quadro in cui opera il suonatore salentino medio.

Quindi, cosa c’entra tutto ciò con Madonna? I salentini si svendono e svendono la propria cultura, ma che c’entra Madonna?

Madonna (o chi per lei) ha fatto ciò che fanno tutti gli organizzatori di eventi: chiamare un gruppo per suonare. Non so a quanto ammonti il rimborso spese per il carburante (dipende se i mezzi con cui viaggiavano i suonatori andavano a gasolio, benzina o GPL/metano), ma simbolicamente quei quattro suonatori non solo si sono svenduti per un rimborso spese (e per un “io c’ero” da postare sui social, con il petto gonfio d’orgoglio), ma hanno tradito le proprie origini.

Lasciate che vi racconti (brevemente) una storia. La pizzica, in Salento, in passato veniva suonata di rado e solo in occasioni particolari: il santo patrono, qualche matrimonio o festa privata, e poi in due – importanti – feste: San Paolo a Galatina e San Rocco a Torrepaduli. La prima si festeggia il 28 e 29 giugno e suonare lì, accanto alla cappella di San Paolo, era un modo per mantenere vivo il ricordo del tarantismo e della sofferenza/guarigione che San Paolo provocava e creava nelle tarantate. La seconda si svolge il 15 agosto a Torrepaduli, frazione di Ruffano ed è forse la festa più importante del Salento tra i suonatori di musica popolare, perché ogni anno – in modo orizzontale e senza palchi – si ripropone la pizzica e la pizzica-scherma (un ballo tra uomini, retaggio di antichi balli/sfide rom), insomma, è la più importante testimonianza viva della musica popolare salentina, tant’è che per anni è stata non solo il ritrovo ma anche la palestra viva di tanti suonatori che oggi si esibiscono sui palchi. Se oggi la pizzica è viva lo dobbiamo (quasi) esclusivamente a ritrovi come questo.

E invece che ti fa questa dozzina di suonatori tradizionali? Snobba la festa di San Rocco per andare a suonare – vestiti come bamboccioni (con abiti che non c’entrano assolutamente nulla con la tradizione…) – al compleanno di Madonna. Dietro rimborso spese, s’intende.

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I bamboccioni vestiti in modo tradizionale. Ma di tradizione non c’è ombra.

Se questa gente avesse un orgoglio direbbe a Madonna: vuoi che ti suoniamo la pizzica? Vuoi vedere la tradizione viva? Vuoi ballarla? Fanculo, vieni tu da noi, vieni a San Rocco, vieni in qualsiasi sagra, vieni qui ad ascoltarla, noi non ci svendiamo né ci spostiamo. E invece questa gente ha snobbato i propri padri, il tessuto vivo che li ha resi suonatori, la festa simbolo della tradizione pulsante per andare in un contesto avulso ed eseguire – come qualsiasi altra cover band – qualche canto morto, privo di significato, banale e inutile perché privo del suo substrato culturale che gli dà vita. Con ciò non voglio dire che la musica popolare non debba oltrepassare i confini territoriali, sia chiaro, ma che qualsiasi operazione di de-radicazione dev’essere ovviamente forzata (è ovvio che non si può pretendere che il mondo venga in Salento, per questo si porta la musica fuori) e accompagnata dalla consapevolezza di ciò che si esegue e che proporre non vuol dire svendersi o essere servile davanti all’offerta di lauti rimborsi spese. Insomma, Madonna non si trovava a New York, ma a Fasano e se davvero voleva sentire la pizzica avrebbe dovuto recarsi lei nel territorio dove si suona. Non siete d’accordo? Chi se ne fotte. Penso a quanto i calabresi o i campani siano gelosi della propria cultura musicale e di quanto rari siano i corsi o i concerti di tali musiche fuori dal proprio contesto. Penso anche che se vado in una rota (o ronda o cerchio di suonatori) calabrese, non mi fanno suonare se non mi conoscono. In Salento invece si, entra chiunque, anche il neofita o l’esaltato che rovina l’armonia musicale. Essere democratici è bello, ma essere troppo permissivi è un male. Con Madonna il permissivismo e il servilismo ha raggiunto vette altissime. Finché non prenderemo coscienza che il patrimonio culturale immateriale è fragile e di valore, talmente di valore da essere inestimabile, continueremo a svenderci e a dare il culo per quattro denari, quando invece dovremmo essere orgogliosi di ciò che abbiamo e offrirlo col contagocce, come fosse merce rara destinata solo a chi sa davvero apprezzare. Ma in ciò abbiamo l’esempio negativo di eventi obrobriosi come La Notte della Taranta, che vende il culo pur di ottenere 150.000 presenze ogni anno e vantarsi fin quando non arriva fine agosto, periodo in cui tutti se ne dimenticheranno fino agli inizi dell’agosto dell’anno successivo. A me ste cose, onestamente, fanno tristezza.

Quindi perdonatemi se perculo quelli che hanno suonato per Madonna. Non hanno colpe, certo, ma l’unica loro colpa è di essere talmente rozzi e ignoranti da non capire l’oro che hanno nelle mani e venderlo in cambio di due cucuzze ammaccate. Non è colpa loro, la colpa è di chi non gli ha spiegato l’elementare differenza tra costo e valore: tra il costo del carburante e il valore della mano che suona sul tamburo.

Fragile

Nastro Fragile

Flusso di coscienza, parole che escono così, senza un senso apparente. Fragile, come quel nastro che avvolge i pacchi di cartone, destinati a persone che – forse – non troveranno altro che cocci. Fragile, come quel nastro che nessuno legge, ma è lì, a dirci di fare attenzione. Però, sai, nessuno lo legge quel nastro.

Fragile

come quel nastro adesivo

che avvolge l’ondulato cartone

contenente fragili adorni

dai corrieri trascurato

ormai privo

del suo significato.

Ho scritto “fragile”

sulla mia vita

ma nessuno se ne cura

e, noncurante, tra tanti pacchi

nei camion della vita

io viaggio.

Sballonzolo su per le strade

allibite e crepate

mentre il mio contenuto

pian piano s’affligge

e si crepa

rompendosi talvolta

e chi mi aprirà

troverà cocci

di una vita passata

di un viaggio malconcio

e chiederà rimborsi

per non aver goduto

del mio essere in viaggio,

del mio fragile, avverso destino.