Oggi, 29 giugno, la CNN e la trasmissione “La vita in diretta” erano a Galatina a documentare “la rievocazione storica dell’antico rito del tarantismo”. Tra scorrettezze lessicali e concettuali e impoverimenti culturali, ecco cos’è rimasto della storia, del mito e dei riti di uno dei fenomeni popolari più affascinanti e studiati da numerosi intellettuali, fin dal 1500.

Anzitutto, cos’è il tarantismo?

Il Tarantismo è un fenomeno legato alla figura del ragno; uomini o donne (in prevalenza), durante il lavoro nei campi o in altri momenti della giornata, se morsi da un ragno (lycosa o latrodectus), cadevano in uno stato di prostrazione fisica e psichica. Non esistevano cure mediche. L’unica cura erano i suoni e i canti (e altri rimedi, poi scomparsi nei secoli: acqua, drappi colorati, funi, ecc.), a volte quelli incessanti della pizzica-pizzica, altre volte quelli più neniosi (in questo caso si parlava di “taranta muta”). Dopo giorni di cure con suoni o canti la tarantata “espelleva il veleno” e guariva, salvo essere “rimorsa” l’anno successivo. A volte il rimorso continuava per anni, a volte per tutta la vita. Quello del ragno è – secondo Ernesto De Martino – un elemento simbolico e il “morso” può essere visto come un “male sociale” che ha radici profonde. Il tarantismo è stato conosciuto nel Salento, ma era diffuso anche in molte altre zone del Sud Italia, in Sardegna e persino in Spagna.

Che è successo?

Dagli anni ’80 il Salento – come altre zone del Mondo – ha vissuto un periodo di riscoperta delle tradizioni locali, grazie alle spinte anti-globalizzazione, alla consapevolezza della valorizzazione delle peculiarità locali e alla ri-scoperta del proprio Patrimonio culturale immateriale. Questi fenomeni di ri-scoperta hanno un ampio respiro, tanto che l’UNESCO, sin dal 1987, ha attuato forme di protezione e promozione delle peculiarità locali (Si V. UNESCO, Raccomandazione sulla salvaguardia della cultura e del folklore, 1989; UNESCO, Dichiarazione universale sulla diversità culturale, 2001; UNESCO, Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, 2003; UNESCO, Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali, 2005).
Peccato che poi la ri-scoperta ha incontrato il marketing e il mercato del turismo del divertimento. E’ lungo e complesso spiegare la profonda trasformazione del folk-revival e dell’etnoturismo come complessi fenomeni di scoperta delle tipicità locali passati, in pochi anni, a industria del divertimento. Vi basti sapere che il Salento ha dapprima ri-espresso le proprie tipicità e poi, dopo, sedotto dal mercato (globale) del divertimento, ha svenduto la propria identità, nel giro di un decennio.

Il tarantismo ridotto a spettacolarizzazione

E così qualche anno fa non era difficile imbattersi in gruppetti di musica popolare salentina, appena formati, che riproponevano in chiave divertentistica, il complesso fenomeno del tarantismo, ormai ridotto a mera spettacolarizzazione, solo facendo ballare, sul palco o in mezzo alla gente, una ragazzetta giovane, scosciata e perizomata, in preda a pseudo-convulsioni che si faceva passare per “tarantata”. Insomma, un fenomeno complesso e indecifrabile come quello del tarantismo, ricco di riti e miti, fino a qualche anno fa veniva rappresentato come uno pseudo fenomeno da burlesque sexy e soft-porno.
Poi però questi gruppetti hanno smesso di “rappresentare” il tarantismo da palco, anche perché le critiche erano tante e le capacità di rappresentazione erano limitate.
Poi è arrivata la “rievocazione”.

Galatina e il rito del ricordo

Va fatta una premessa. Intorno al 1700 la Chiesa cattolica ha cercato di inculturare il fenomeno del tarantismo nei meandri del cattolicesimo. Si trattava pur sempre di un fenomeno dai tratti pagani e quindi non poteva non passare inosservato. E così, pensa e ripensa, si introdusse la figura di San Paolo come “guaritore delle tarantate”. San Paolo era il protettore dei morsicati dai serpenti (per via di un morso di serpente velenoso che lo coinvolse durante una delle sue predicazioni e che non gli procurò alcun danno) e quindi ci volle poco prima di estendere la sua protezione alle “morsicate dalle tarante”. Quest’operazione studiata a tavolino dalla Chiesa creò confusione tra le tarantate, che vedevano San Paolo ora come guaritore, ora come causa del morso. Però, tutto sommato, il popolo digerì l’intromissione e ritrovò un equilibrio anche grazie ai pellegrinaggi presso la cappella di San Paolo a Galatina, luogo di ritrovo delle tarantate.

Lo stesso De Martino rilevò che l’inculturazione da parte della Chiesa cattolica contribuì a regredire il fenomeno e a renderlo “confuso”, tanto che ne presagì la scomparsa. Era il 1959 ed ebbe ragione. Da lì a poco il fenomeno e tutti i riti curativi sarebbero scomparsi. Poi è arrivato il folk-revival e la riscoperta del Patrimonio culturale immateriale. Dapprima si iniziò un faticoso percorso di rilettura del tarantismo e delle culture popolari locali, poi arrivò il mercato turistico e l’industria del divertimento e ora ciò che resta dello sterminato Patrimonio culturale immateriale è solo un vago ricordo.

E siamo ai giorni nostri

Ricordo che fino a 20 anni fa, quando ero un giovincello, il 28 giugno era una data importante. Ci si radunava davanti alla cappella di San Paolo a Galatina – luogo di ritrovo delle tarantate sin dal 1700 – per suonare e ricordare in qualche modo la sofferenza e il lungo rituale di guarigione. Infatti le tarantate si radunavano il 28 giugno, sin dalla notte per chiedere la grazia al Santo e il 29 mattina la cappella era sempre piena di donne che – tra isterie e furori – ora invocavano la grazia, ora cercavano sollievo tra le mura della cappella.
E’ giocoforza pensare che il “rito” di ritrovarsi dinanzi alla cappella fosse un modo per perpetrare il ricordo, per rispettare una tradizione, per rievocare un fenomeno complesso quanto affascinante quanto ricolmo di sofferenze e speranze. Insomma, si tratta pur sempre di ricordare e riannodare i fili con il passato.
Ora non è più così. Sono anni che osservo il lento e inesorabile disfacimento di una cultura e di una memoria ormai interrotta dai ludici e sornioni risuoni del divertimento, dello sballo, della moda di suonare i tamburelli (a ritmi volgari e tipici da discoteca) non come ricordo, ma come sberleffo, inconsapevole e irrispettoso verso una sofferenza – quella del tarantismo – che i ragazzi che suonano poco conoscono o non conoscono affatto. Il “rito” di suonare davanti alla cappella di San Paolo – per ricordare il tarantismo – si è tramutato da ricordo a sballo, da rievocazione a mera riproposizione di un disagio collettivo che ritrova nel tamburello lo sfogo sociale di frustrazioni sì simili a quelle delle tarantate, ma di cui non si conserva né il ricordo né la consapevolezza della propria memoria. E così – tra sballi e sberleffi – Santu Paulu viene ignorato mentre si protrae un rito senza nessun senso né alcun ricordo. E’ solo mera conservazione di un qualcosa che si deve fare – nello sballo – ma che non si sa bene perché.

La rievocazione

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E’ in questo quadro che poi, da qualche anno a questa parte, si protrae una simil-rievocazione del “rito del tarantismo” che non ha senso di esistere, se non davanti a inconsapevoli telecamere fameliche nel raccontare riti che ormai non ci sono più e di cui nessuno sa spiegarne il senso.
La CNN e la trasmissione “La vita in diretta” hanno raccontato l’evento di oggi, che si protrae da anni: “la rievocazione storica dell’antico rito del tarantismo”.
Che tristezza. Anzitutto nel termine.
Ciò che si dovrebbe “rievocare” non è l’antico rito del tarantismo, ma il rituale di guarigione dal tarantismo. Il tarantismo non è un rito, ma è un male. E’ il metodo di guarigione ad essere un rituale, non il male in sé. Quindi è già semantica l’ignoranza del fenomeno. La pochezza culturale sta già nel titolo. L’ignoranza sta già in poche parole che descrivono la vuotezza intellettuale e culturale di gente che si fregia – davanti alle telecamere – di saper protrarre una tradizione centenaria.
Poi assisto al giornalista di “La vita in diretta” che esclama: “l’unico a curare le tarantate è San Paolo”. Al ché rifletto sulla pochezza degli “intellettuali” salentini, perché quest’espressione dà il senso del vuoto culturale che gli organizzatori di questa pseudo-rievocazione hanno trasmesso ai giornalisti. Certo, non è facile riassumere la complessità del tarantismo, ma – che cazzo – non si può falsificare la storia, né il mito, né il rito.
Poi vabbè, alle prime scene della “rievocazione”, con una donna che si contrae in preda alle “convulsioni” (segno che la sua cultura sulla materia si sia limitata alla visione di un paio di video su YouTube) e la folla in mise televisiva, persa tra la rigidità da telecamera e le facce finto-stupite, cambio canale, e magari anche città. Il Patrimonio culturale immateriale è una cosa seria e voi povera gente siete capaci di spettacolizzarlo e trasformarlo in moda, senza avere la minima idea su come tutelarlo. Eppure sarebbe più proficuo leggere il passato e acquisire consapevolezza. Ma il mercato vi lusinga e per quattro denari svendete la cultura di un intero popolo.

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