iPhone X e le nuove frontiere del controllo sociale

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Mi chiedo se gli utenti Apple che acquisteranno il nuovo iPhone X sappiano quanto è paradossale spendere tra 1189,00 e 1359,00 € (questo è il range di prezzo imposto da Apple) per comprare un telefono che ha installato una tecnologia per il riconoscimento facciale. Detto in altri termini, davvero ci sarà gente che spenderà uno stipendio mensile (per alcuni anche lo stipendio di 2 mesi…) per dare la possibilità ai giganti dei Big Data di farsi controllare meglio?

Vediamo se così riesco a spiegarmi meglio.

Tutti ormai sappiamo che molte agenzie private o governative e quasi tutti gli hacker più talentuosi possono accedere con molta semplicità ai nostri smartphone e controllare praticamente tutto: gli accessi, i siti visitati, le app utilizzate e tutte le conversazioni fatte, la rubrica, l’agenda degli appuntamenti, le foto e i video e possono persino accedere alla nostra fotocamera e usarla come una sorta di “mezzo di intercettazione ambientale”.

Del resto le Iene, nel 2015 e nel 2016, hanno fatto quest’esperimento e hanno scoperto che è molto facile farsi “infettare” il telefono, anche tramite un messaggino innocuo (o uno script facilmente scaricabile se si visitano siti pericolosi o app non certificate) per cui il telefono può essere controllato senza che noi ce ne accorgessimo.

Sappiamo anche un’altra cosa. Se è vero che normalmente la Magistratura attua forme di intercettazione solo in caso di notizie di reato e in fase di indagini (con tutte le garanzie imposte dalla Legge) è anche vero che le agenzie di sicurezza governative non hanno questi limiti e che le Società di Big Data e gli hacker ne hanno ancor meno. Ognuno ha diverse finalità: i Governi (teoricamente) agiscono per sicurezza nazionale, le aziende di Big Data lo fanno (prevalentemente) per scopi commerciali (anche se ultimamente si stanno orientando verso forme di monitoraggio e controllo sociale…) e gli hacker? Beh, alcuni per finalità politiche, altri, invece, per vera e propria criminalità organizzata, se non peggio (il terrorismo, per esempio, oggi sta inseguendo queste nuove frontiere di controllo). Quindi è evidente che gli smartphone – quegli oggetti in cui ormai abbiamo messo tutta la nostra vita sotto forma di foto e video, contatti, applicazioni, conversazioni – rappresentano l’oro per tutti quei soggetti che – con le finalità più disparate – vogliono accedervi, controllare e, perché no, manipolare.

Ma finora c’è stato un limite. Non era possibile associare un nome e una storia (quella contenuta in ciascuno dei nostri dispositivi) ad un volto. Ora, con il nuovo iPhone X, ciò è possibile.

E’ vero che i vertici Apple hanno dichiarato che FaceId (la tecnologia per il riconoscimento facciale) non conserverà in un database i volti e che l’app, secondo Edward Snowden è robusta, ma è lo stesso Snowden che in un tweet, ha dichiarato che questa tecnologia sarà oggetto di abusi.

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Edward Snowden

Edward Snowden era tecnico della Cia e di recente ha pubblicato tutte le tecniche e i programmi di sorveglianza di massa che il governo americano e quello britannico attuavano all’insaputa di milioni di cittadini. Lui, per aver ricondotto questa tematica nell’alveo democratico, è stato costretto ad esiliare in Russia, in attesa di conoscere il proprio destino.

Sembra anche irrisorio il concetto per cui la tecnologia è robusta e non sarà preda facile di attacchi informatici. E’ scontato dire che l’informatica non è una scienza esatta né perfetta e che le falle si trovano sempre. Anche i sistemi più impenetrabili nascondono, nel proprio codice sorgente, qualche bug. Del resto l’informatica è un’attività umana e come tale non è mai esente da rischi.

Tanto non ho nulla da nascondere

Questa è la frase che sento dire più spesso quando parlo di Big Data, privacy e controllo sociale.

In effetti è vero. Queste tecnologie sono utili per finalità di sicurezza, per prevenire e contrastare i crimini o le attività terroristiche. Del resto una tecnologia simile, unita alla tecnologia di riconoscimento delle impronte digitali (e presto vedremo queste due tecnologie su tutti i dispositivi in commercio) è davvero utile per finalità di pubblica sicurezza. Ma dovremmo avere davvero il prosciutto sugli occhi se non dovessimo riconoscere che in questa materia ci sono Società gigantesche e lontane dalle regole democratiche che ne approfittano per mere finalità commerciali e per attuare esperimenti sociali di massa. E’ il caso di Facebook (qui ne ho parlato), di Google e di circa una trentina di altre Società che sfruttano i Big Data per riconoscere le persone, delineare i loro gusti e attuare pratiche commerciali volte a vendere. Ma non solo. Anche a orientare, persino manipolare.

E poi, diciamoci la verità, davvero ci fa piacere sapere che qualcuno di cui non conosciamo nemmeno l’esistenza ci spia, ci profila, ci controlla e ci manipola? Davvero siamo impassibili davanti all’ipotesi che qualcuno conosca le nostre più intime faccende e le colleghi a un volto? Non parlo solo di banali scappatelle o litigi tra amici e familiari su WhatsApp o su Messenger di Facebook, ma sul nostro stato di salute, sulle nostre conversazioni che riteniamo intime, sui nostri desideri che non confessiamo, sulle nostre inibizioni che riteniamo di custodire nella sfera privata e su tutto ciò che fa parte della nostra interiorità.

Pensa a come questa tecnologia possa rendere facile la vita a un possibile regime dispotico e antidemocratico. Pensa a quanto sarà facile monitorare, associare delle conversazioni a un nome e un volto e poi imbavagliare con i modi più disparati le opinioni diverse dalla “cultura dominante”, pensa a quanto sarà facile controllare le comunità locali che magari lottano contro le decisioni del governo per la tutela del proprio ambiente e della propria salute, pensa a quanto sarà facile egemonizzare le diversità culturali, sociali, individuali, non solo da parte dei governi, ma soprattutto della cultura globalista.

E infatti siamo così convinti che rischiando di mostrare il nostro Io tramite un dispositivo non saremo poi preda dell’omologazione delle nostre individualità? Del resto l’omologazione culturale parte proprio dalla conoscenza delle diversità sociali e individuali e dalla loro lenta erosione. L’erosione che parte proprio da quel dispositivo con cui, forse, starai leggendo quest’articolo.

Lercio e gli anti-vax

lercio vaccini

Non ho mai voluto prendere posizione sulla diatriba pro-vax / anti-vax, anche perché ritengo l’obbligo vaccinale un’imposizione eccessiva e, sotto certi versi, ingiustificata, ma la tematica è stata affrontata in modo forzoso dal Governo in una sorta di risposta di pancia alle sempre più eccessive reticenze, da parte di numerosi genitori, nell’assolvere al dovere di vaccinare i propri figli, per evitare l’insorgenza di malattie che ritenevamo superate da tempo.

Insomma, su questo tema tutti hanno torto e tutti l’hanno affrontato nel peggiore dei modi. Il Governo perché impone con legge un dovere igienico-sanitario che spetterebbe ai genitori e che, fino ad oggi, è stato assolto in modo pressoché sistematico senza grosse ripercussioni; i cosiddetti anti-vaccinisti perché, spesso preda di false notizie, complottismi da quattro soldi, pareri di pseudo-scienziati e leggende metropolitane, mettono in serio rischio la salute pubblica, evitando ai propri figli anche le vaccinazioni minime.

Pro-vax e anti-vax, in questi mesi, se le danno di santa ragione a suon di post, commenti, condivisioni, tweet e dibattiti televisivi e digitali, in una sorta di epopea in cui soprattutto i no-vax muovono accuse, allarmi, urla e insulti variopinti, prospettano oscure trame ordite tra Governo e grandi Aziende farmaceutiche per fare affari d’oro sulle spalle dei poveri italiani e propongono dissertazioni scientifiche – fatte rigorosamente sui social – basate su tanti proclami ma pochi contenuti tecnici. Del resto se un medico no-vax o pro-vax spiegasse scientificamente l’utilità o meno dei vaccini, con (doveroso) linguaggio tecnico e con grafici, dati, analisi, chi li capirebbe? Nessuno, nemmeno un medico generico forse riuscirebbe a districarsi tra i meandri di esposizioni scientifiche così complesse. Ed è per questo che – fino ad oggi – la gente tendeva a fidarsi della Scienza.

Ma ora, soprattutto a causa del dilagare, su internet, di informazioni di basso profilo, facile comprensione e spesso di dubbia provenienza, e grazie alla nota propensione dell’italiano medio a imboccarsi qualsiasi cosa (ricordo che siamo il Paese con il primato assoluto in materia di analfabetismo funzionale), può capitare che persino un articolo web proveniente da un notissimo giornale di satira venga scambiato per vero e dia origine a centinaia di condivisioni la cui lettura è uno spasso nel delineare l’archetipo dell’analfabeta funzionale (e pure strutturale).

Tutto è iniziato con la condivisione di quest’articolo del Lercio, intitolato “La figlia di Roberto Burioni rifiutata dalla scuola: non è vaccinata”, da parte di un noto no-vax, un certo Salvatore Morelli, di professione logopedista (una specializzazione chiaramente votata alla profonda conoscenza dei vaccini), che – a suo dire – lo avrebbe condiviso per scherzo per sfottere il collega Burioni.

Qualunque sia stata la sua intenzione, il risultato è che l’articolo è stato ricondiviso da centinaia di persone, tutte che credevano alla bontà della notizia. Di seguito alcuni esempi

Ora, un paio di riflessioni.

Da quel che ne so, se uno vuol fare dell’ironia, lo lascia intendere. In questo caso il prode Morelli ha sì commentato la notizia con una frase vagamente ironica (Prof Roberto Burioni mai mi sarei aspettato questo da te, accompagnata da una faccina sorridente), ma non ha specificato la cosa essenziale: che l’articolo del Lercio era evidentemente un articolo di satira. Se lui l’avesse capito o meno non è dato saperlo, visto che il dott. Morelli non ha dimostrato di saper sottolineare l’ironia della faccenda.

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Il post del dott. Morelli

Ciò detto, va evidenziata un’altra cosa, che più mi rattrista e mi diverte allo stesso tempo.

Lercio esiste da diversi anni e tutti sanno che fa satira. Ma vabbè, facciamo conto che non tutti lo sanno.
L’articolo parte con “Epidemi (CO)“, notissimo paese in provincia di Como, gemellato con “Presiden (TA)“, paese d’origine della Boldrini (lei, chissà perché, non è stata citata dai no-vax). Ma vabbè, sta finezza non l’hanno colta tutti.
Cita un certo “Libero Di Scelta”, autore del famosissimo sito web “www.AMeNonMiFregate.it”. Ma vabbè, facciamo finta che non tutti hanno dimestichezza con nomi e domini.
Però – per dio(gene) detto il cane – sull’“analisi dell’ascendente ematoencefalico” e sulla cura “con i fiori di Bach o al limite con le palle di Mozart” poteva sorgere, tra i lettori, il seppur minimo sospetto che si tratta di satira, ma facciamo pure facile ironia o supercazzola? No, eh? Proprio nulla? Quindi questa è l’ennesima dimostrazione che la gente non capisce ciò che legge oppure condivide i contenuti e si fa un’opinione solo leggendo un titolo. E, dunque, potrei mai aderire alle teorie propugnate da questa gente? Non so, devo informarmi meglio sul tema vaccini. Quasi quasi interpello un fitopatologo vegetale, un nutrizionista o un veterinario.

Carpisa ti fa vincere uno stage aziendale!

vinci con carpisa stage aziendale

Lo ammetto, anche se le borse donna di Carpisa mi fanno cacare, ero tentato di acquistarne una solo per partecipare al grande concorso che mi avrebbe dato l’emozione di vincere nientepopodimeno che uno stage presso il loro fighissimo ufficio di Marketing&Advertising della sede di Napoli!

Wow! Non stavo nella pelle!

Poi, dopo la prima euforia mi sono un pochetto ripreso e ho iniziato a rimuginare.

“Un attimo” – ho pensato – “ma uno stage non è una forma di lavoro?”

“Eccheccapperi, certo!” – ho continuato – “è un lavoro, anche se viene spacciato per tirocinio formativo”.

“Quindi” – ho ancora continuato a pensare – “io dovrei comprare i loro prodotti per trascorrere un mese di lavoro aggratiss presso i loro uffici?”.

“Certamente”, ho nuovamente continuato a pensare, mentre l’occhio mi cadeva sul secondo punto del bando: Elabora il tuo piano di comunicazione richiesto (scopri i dettagli del progetto).

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Come fossi travolto da un insolito destino sotto il cielo settembrino nubibondo, frescuccio e odorante di mosto, ho cliccato sul link (scopri i dettagli del progetto) e ho scoperto – nei dettagli – che avrei dovuto predisporre un vero e proprio piano di comunicazione aziendale.

“Aspetta, aspetta” – ho pensato (e cacchio quanto sto pensando ultimamente! Sarà che mi fa male?) – “questi non solo mi fanno comprare una borsa brutta, mi fanno fare uno stage di un mese aggratiss, ma devo pure fare il lavoro del loro fighissimo ufficio di Marketing&Advertising perché, molto probabilmente, non c’hanno più fantasia e idee e quindi si serviranno di queste trovate markettare per infinocchiarmi, farmi lavorare aggratiss e dargli pure degli spunti di idee sotto forma di un vero e proprio piano strategico?”

Dopo tutto sto pensare mi è venuto in mente Marx e la legge dello scambio di equivalenti e ho pensato: “ok, va tutto bene, Carpisa ha solo rispettato le leggi del mercato attuale: il lavoro non conta un cazzo, devi ringraziare iddio se ti fanno entrare in azienda aggratiss, sei solo un consumatore che deve pagare pure per lavorare e le tue idee le devi regalare in cambio di acquisti di merce. Quindi compri per lavorare.

Al ché sono andato a dormire sereno, steso su una brandina sotto un cielo nubibondo rinfrescato dalle leggiadre temperature settembrine e mentre mi addormentavo pensando a quei bei tempi in cui dovevi lavorare per comprare tutto ciò che ti serviva, tutto, tranne le orrende borse donna di Carpisa.

Il Mercato degli Eventi e l’egemonia sul Folklore

Antonio Gramsci egemonia e folklore

Il Folklore (o cultura popolare) rappresenta il sapere, stratificato in migliaia di anni e trasmesso oralmente dalle classi subalterne ed è l’unico strumento che il Popolo ha per difendersi dall’egemonia culturale delle classi dominanti. E’ un Patrimonio ricco di musiche e canti, detti e racconti, saperi e tecniche, fiabe e leggende che rappresenta l’architrave del Patrimonio immateriale dell’Italia de le molte genti. E’ talmente importante e delicato che personaggi come Antonio Gramsci, Ernesto de Martino, Alberto Mario Cirese, Gianni Bosio, Rina Durante e tanti altri hanno dedicato una vita per ridargli dignità e studiarlo con metodologie scientifiche in modo da comprenderne l’importanza nella costruzione di una cultura europea e nella consapevolezza del rifiuto della pretesa di ricondurre le diversità culturali a una matrice unitaria, nella negazione dell’esistenza di valori assoluti comuni a tutte le culture e nel rifiuto dell’etnocentrismo in quanto attribuzione illegittima di un valore privilegiato a una cultura particolare.

Lo sforzo compiuto da questi intellettuali è stato immane, perché per secoli – e in parte ancora oggi – la cultura popolare è stata vista come un aspetto pittoresco proveniente da una sub-cultura povera, frutto di concezioni parziali e incolte del mondo e retrograda perché espressa da strati sociali privi di istruzione. Gramsci invece capovolge completamente questa concezione e rinviene, nella cultura popolare, il leit-motiv per riattribuire al Popolo quella dignità perduta, per ridare importanza a quella filosofia spontanea che, come scrive lo stesso Gramsci, si rinviene nel linguaggio stesso, che è un insieme di nozioni e di concetti determinati e non già e solo di parole grammaticalmente vuote di contenuto; nel senso comune e buon senso; nella religione popolare e anche quindi in tutto il sistema di credenze, superstizioni,opinioni, modi di vedere e di operare che si affacciano in quello che generalmente si chiama “folklore”.

Antonio Gramsci fu quindi il primo intellettuale a occuparsi del folklore in modo scientifico e a trattare la Cultura popolare come un elemento critico e alternativo alla cultura dominante, non in chiave conservativa, come mera teca da museo, ma in chiave progressista, come elemento essenziale per la comprensione del Popolo e per la sua rappresentatività socio-culturale, infatti nelle sue osservazioni sul folklore, scriveva che quest’ultimo non dev’essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio. In altre parole Gramsci studiò la Cultura popolare, tra cui i canti, le musiche, la poesia vernacolare, il linguaggio e tutti gli altri aspetti che compongono il folklore e lo riannesse all’interno della Società, spostandolo da un terreno estetico-letterario a uno socio-culturale, oppure etno-antropologico, quindi contestualizzando la Cultura popolare in chiave storicistica e sociale. La sua operazione di attribuzione della dignità alla cultura popolare fu innovativa e aprì numerosi scenari alla scienza antropologica negli anni a venire.

Insomma, il folklore è importante perché rappresenta una diversa concezione del Mondo, spontanea e lontana da quella cultura egemonica che viene imposta e che il popolo non sente come propria, ma subisce l’inculturazione attraverso l’istruzione scolastica (il ché sarebbe il male minore), i media, le mode e l’appiattimento culturale globale studiato a tavolino al fine di attuare politiche commerciali di massa.

Il folklore ha appunto, secondo Gramsci, questa funzione di contrapposizione: grazie ad esso gli «strati inferiori» della piramide sociale si rendono parzialmente in grado di resistere alle influenze delle filosofie «superiori» e di formularne una critica «rozza». Attraverso il folklore si esprime ciò che potremmo chiamare una pre-coscienza o una coscienza «diffusa» degli elementi incolti della società, costituita da strati sovrapposti formatisi nel corso della storia e dalla giustapposizione di elementi di attualità (ogni strato è una resistenza che viene opposta alle diverse filosofie che si sono succedute nel corso dello sviluppo storico). Di qui, la fisionomia spuria, arcaica e incoerente con cui il folklore si presenta e con la quale gli studiosi si scontrano.

Del resto anche Carlo Levi e Ignazio Silone scrissero che la storia ufficiale, quella cultura dominante che impone ai contadini e ai cafoni regole incomprensibili e lontane da quelle regole della Natura e della Storia tipiche della Cultura popolare, sono storie altrui, che nulla c’entrano con la millenaria storia di popoli vissuti da sempre – e per sempre – seguendo regole cicliche e naturali, rispettando le leggi di una tradizione persa nel tempo e ragionevole e comprensibile, perché immutabile e naturale. Come si può comprendere ciò che non si conosce, ciò che rispetta regole opposte? I cafoni osservano da tempo regole che i cittadini non sentono proprie, perché lontani dallo scorrere regolare delle stagioni, dagli asti dovuti al naturale susseguirsi degli eventi, così come i cittadini osservano leggi positive, che comprendono perché ragionevoli in base a ciò che i sovrani – o gli stati, le dittature o le democrazie rappresentative – impongono e diffondono. Sono due culture inconciliabili, ma non per questo una è superiore all’altra.

L’UNESCO e la tutela del Patrimonio Culturale Immateriale

UNESCO_logo

Gramsci non ha vissuto l’epoca della globalizzazione, ma il suo pensiero è ancora attuale e si adatta anche alla concezione del local inteso come contrapposizione al modello globalista ed espressione viva delle identità locali, quindi, in ultima analisi, quale espressione culturale subalterna al pensiero dominante, a quel pensiero che appiattisce le diversità e impone le uguaglianze. La stessa operazione – appunto per salvaguardare le diversità – è stata fatta, per decenni, dall’UNESCO, che, sin dal 1989, con la Raccomandazione sulla salvaguardia della cultura e del folklore, ha espresso preoccupazione per la progressiva scomparsa del Patrimonio Culturale immateriale – cioè il folklore, e ha chiesto agli Stati firmatari di porre in essere tutte le misure idonee e necessarie al fine di salvaguardare le espressioni culturali folkloriche perché fanno parte del patrimonio universale dell’umanità e che sono un potente mezzo di riavvicinamento dei diversi popoli e gruppi sociali e di affermazione della loro identità culturale.

Poi, a partire dal 1997 l’UNESCO è andato sviluppando una particolare attenzione per il patrimonio culturale immateriale (Intangible Cultural Heritage), per il quale ha costituito, all’interno della Divisione del patrimonio culturale, una sezione appositamente dedicata (Section of Intangible Heritage). A partire dal 1998 l’UNESCO ha intrapreso una serie di azioni concrete in questo settore con il progetto Preserving and revitalizing our Intangible Heritage, articolato in diverse azioni: Masteripieces of Oral and Intangible Heritage of Humanity riguarda i patrimoni orali e immateriali dell’umanità meritevoli di riconoscimento; Living Human Treasures promuove i depositari di saperi e tecniche trasmesse oralmente (artigiani, artisti, etc.); Endangered Languages pone l’attenzione sulle lingue a rischio di estinzione; Traditional Music of the World pubblica i dischi dedicati alle culture musicali mondiali.

Nel novembre 2001, inoltre, l’UNESCO ha adottato la Dichiarazione universale sulla diversità culturale, affermando che la diversità culturale è essenziale per l’umanità come lo è la biodiversità per la natura. Anche in questo caso, l’UNESCO ha ribadito la necessità di approntare gli strumenti più adeguati, da parte degli Stati aderenti, per la conservazione e lo sviluppo del patrimonio culturale, sia materiale che orale, nonché il rispetto e la protezione dei saperi tradizionali.
Nel 2003, poi, l’UNESCO ha emanato la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale in cui ha consacrato la necessità di salvaguardare le espressioni culturali immateriali popolari in modo più maturo e preciso, definendo patrimonio culturale immateriale “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana (…)”.

E’ evidente, da questa sommaria analisi, l’importanza che assume il Patrimonio Culturale immateriale del folklore per lo sviluppo delle Culture mondiali (il plurale è d’obbligo) e per il naturale svolgersi delle formazioni sociali in cui le personalità individuali si dipanano e trasmettono alle generazioni future quel know-how ricco di storia stratificata e di conoscenze naturali ma sempre a un passo dall’estinzione, schiacciato com’è dalla cultura egemonica, mondialista e globalista, cultura foraggiata e sostenuta dai media e dal mercato globale.

Gli anni d’oro del folklore

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Rina Durante, intellettuale salentina, ricercatrice e fondatrice di uno dei pochi gruppi oggi rappresentativi della concezione folklorica di gramsciana memoria: il Canzoniere Grecanico Salentino (attivo dal 1975)

E’ evidente che in un secolo di attività etno-antropologica la cultura popolare è riemersa e gli è stata attribuita quella giusta dignità come elemento non solo di memoria del passato, ma anche di espressione viva del presente in antitesi alla cultura dominante e piatta tipica del modello global.

Sin dagli anni Cinquanta, mentre si sviluppava la Questione Meridionale, numerosi antropologi, etnomusicologi ed intellettuali ponevano le basi per la creazione di una coscienza popolare attraverso il riaffiorare di musiche e canti, in chiave anti-sistema o, per meglio dirla, in chiave pro-diversità. Erano gli anni in cui, attraverso la musica, si creava una coscienza di classe, una coscienza popolare, un modo come un altro per attribuire al Popolo quella dignità perduta e nascosta sotto le ceneri di una cultura dominante che beffeggiava gli ignoranti, i cafoni, i contadini, quella fetta di popolo priva di cultura accademica ma ricca di cultura del vivere. In quegli anni si cercò di rimettere in vita quella filosofia spontanea di gramsciana memoria. E ci riuscirono. Difatti per tutti gli anni Sessanta e Settanta intellettuali come Gianni Bosio, Caterina Bueno, Giovanna Marini, Diego Carpitella ripresero i canti popolari italiani e gli attribuirono quella dose di culturalità che avevano smarrito negli anni precedenti.

Il canto

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I Cantori di Carpino

Il canto rappresenta la più alta forma di espressione culturale immateriale. E’ il modo più veloce e compiuto di diffondere concetti, storie, notizie, una coscienza collettiva e un fare comunità che nessun’altra forma immateriale può esprimere.

Se torniamo a Gramsci, possiamo capire esattamente cos’è il canto popolare. A scanso di equivoci, soprattutto per coloro che ritengono che popolare (o folk) è solo il canto creato dal popolo per il popolo o quello che si completa solo nelle musiche locali, va invece detto che il canto popolare è quello in cui il popolo stesso si riconosce, al di là della lingua utilizzata (dialetto o lingua nazionale) o della melodia (non importa se locale o classica o, ancora, priva di accompagnamento musicale). Secondo Gramsci, seguendo una divisione o distinzione dei canti popolari formulata da Ermolao Rubieri, troviamo questi canti:

  • i canti composti dal popolo e per il popolo;
  • quelli composti per il popolo ma non dal popolo;
  • quelli scritti né dal popolo né per il popolo, ma da questo adottati perché conformi alla sua maniera di pensare e di sentire.

“Mi pare che tutti i canti popolari, aggiunge Gramsci, si possano e si debbano ridurre a questa terza categoria, poiché ciò che contraddistingue il canto popolare, nel quadro di una nazione e della sua cultura, non è il fatto artistico, né l’origine storica, ma il suo modo di concepire il mondo e la vita, in contrasto colla società ufficiale: in ciò e solo in ciò è da ricercare la «collettività» del canto popolare, e del popolo stesso. Da ciò conseguono altri criteri di ricerca del folklore: che il popolo stesso non è una collettività omogenea di cultura, ma presenta delle stratificazioni culturali numerose, variamente combinate, che nella loro purezza non sempre possono essere identificate in determinate collettività popolari storiche: certo però il grado maggiore o minore di «isolamento» storico di queste collettività dà la possibilità di una certa identificazione”.

Grazie alle chiarificazioni concettuali espresse da Gramsci e allo sviluppo della scienza antropologica, numerosi intellettuali iniziarono una raccolta metodologica di tutti i canti popolari, indipendentemente dal valore artistico-musicale, che poi, negli anni, diffusero nel mondo musicale italiano. Erano gli anni d’oro perché cantautori come Fabrizio De Andrè, Francesco De Gregori, Francesco Guccini, Giovanna Marini, Caterina Bueno e tanti altri aderirono a tale concezione e costruirono un’intellighenzia basata sulla diffusione del canto popolare e sullo studio metodologico delle musiche, tonalità, tecniche corali, ossia un’impressionante mole di diversità musicali che persino personaggi come Tito Schipa, già prima di loro, vollero approfondire perché i canoni musicali popolari erano lontanissimi da quelli canonici e ufficiali. Nei decenni a venire – e siamo già negli anni Ottanta e Novanta – la musica popolare si strutturò nel Meridione, precipuamente nel Salento, dove trovò terreno fertile grazie a intellettuali come Rina Durante che, sin dagli anni Settanta, s’impegnò nella riemersione del canto popolare. Quelli erano anche anni in cui – in tutta Italia – iniziava l’interesse, da parte del mercato culturale, verso gli eventi folk. Non a caso nel 1986 nacque il festival di musica popolare di Forlimpopoli, nel 1991 l’Isola Folk di Bergamo e nel 1998 la Notte della Taranta.

La Notte della Taranta nel 1998. Che differenza c’è rispetto a quella attuale?

Fino alla fine degli anni Novanta il folk revival (così fu definito da numerosi intellettuali) si sviluppò al punto tale da stuzzicare l’interesse di numerosi antropologi e studiosi di tutto il Mondo che – attratti dall’imponente rinascita del folklore locale – iniziarono una fiorente letteratura sul tema, tanto che, fino ai primi anni Duemila, si scrisse tanto e si discusse tanto sui motivi per cui – soprattutto nel Meridione – la musica popolare riscosse tanto successo non solo tra gli operatori del settore, ma anche nel grande pubblico. I motivi erano al contempo complessi e banali: la riscoperta delle origini, del Patrimonio sepolto, dei saperi antichi andavano di pari passo con la prepotente espansione del modello globalista, quasi in una sorta di antitesi e resistenza popolare al dilagare di una cultura che il popolo non sentiva propria e che, indagando nella propria storia, si riconosceva in ciò che il territorio, per secoli, ha trasmesso e ha lasciato in eredità: storie, tecniche, saperi, racconti, proverbi, cucina, ma soprattutto musiche e canti.

Il modello globalista ed egemonico del mercato degli eventi e del turismo di massa

Nell’ultimo decennio, però, qualcosa è cambiato. Il mercato degli eventi ha incontrato la musica popolare e, sotto gli occhi distratti degli appassionati e dei riscopritori, ha iniziato un lento ma inesorabile processo di disgregazione del Patrimonio culturale immateriale. Ad accorgersi di ciò, com’è prevedibile, sono stati gli intellettuali che, sin da subito, hanno lanciato allarmi circa l’importanza di procedere alla tutela del Patrimonio immateriale per evitare che possa estinguersi sotto i colpi del crescente turismo di massa e del sempre più pressante mercato degli eventi.

In effetti ciò che, fino a pochi anni prima, veniva definito turismo etnico o culturale, fatto di gente che si recava nei luoghi vivi della tradizione al fine di assistere a manifestazioni pulsanti di musiche e canti popolari, in pochi anni si è tramutato in turismo di massa, fatto di gente a cui non interessa affatto l’aspetto culturale, ma solo il divertimento quotidiano e feroce e che – per passione, moda o diletto – pretendeva di assistere quotidianamente a manifestazioni musicali divertenti e ballerecce. Le comunità locali, da un lato impreparate all’invasione e dall’altro poco propense a strutturare l’offerta turistica perché frammentate e storicamente tendenti ad approfittare del momento in ottica epicurea e poco lungimirante, si divisero tra chi (pochi) non accettava la svendita del Patrimonio Culturale e chi (i più), invece, propendeva per facili guadagni con pochi investimenti. Del resto il mercato globale degli eventi è ben capace di raggirare chi non ha il giusto humus culturale per potervi resistere.

E infatti negli anni si sono moltiplicati gruppi di riproposta, corsi improvvisati di musiche e balli popolari in tutta Italia, ballerini, nonché sagre e festival, spesso nati dal nulla e spacciati come tradizionali, tutto al fine di accontentare il mercato turistico di massa. La presenza di numerosissimi musicanti e insegnanti di musiche e balli (spesso improvvisati e senza formazione culturale) ha chiaramente aumentato la curva dell’offerta con conseguente riduzione del valore, portando quindi ad una forte concorrenza basata su bassi compensi e alta presenza di musiche e canti ballabili.

Le conseguenze sono state numerose, tra cui:

  • la progressiva inumazione dei canti tipicamente popolari, ossia di quei canti che il popolo riconosce nella propria concezione del mondo e dell’attualità, quindi scomparsa di canti di denuncia, di storie e racconti attuali, di canti di lavoro, di protesta, di canti volti a diffondere una coscienza sociale. Non è un caso – faccio una breve digressione, poi ne parlerò più diffusamente avanti – che spettacoli come la Notte della Taranta non diano voce alle pressanti richieste del territorio di denunciare gli scempi ambientali e di raccontare la realtà attuale;
  • l’aumento eccessivo di ballatori (non ballerini) e musicanti (non musicisti) che, basandosi non sulla memoria, ma su arrangiamenti che funzionano e che vendono, propongono cover ormai prive di senso di canti e musiche ballabili, fatte da altri gruppi di riproposta, come una fotocopia di una fotocopia di una fotocopia dell’originale (sempre se si possa parlare di originalità nella cultura popolare);
  • l’aumento eccessivo di ritrovi e feste popolari, secondo lo schema imitativo di grandi eventi che funzionano e che attraggono gente, quindi sagre o feste inventate di sana pianta che spesso si accavallano a quelle tradizionali (quelle che, ricordo, secondo l’UNESCO devono essere tutelate) e che ne disgregano la funzione e il contenuto;
  • la concezione per cui la musica popolare non è un bene comune, ma un elemento commerciale come qualsiasi altro, da sfruttare. In base a tale concezione si verificano, poi, casi come quello per cui diversi musicanti e ballatori snobbano le feste tradizionali, vive (che necessitano di tutte le energie possibili per restare tali) per suonare in contesti avulsi, sotto spinte commerciali.
  • l’evidente aumento di suonatori spontanei (causati da corsi di musicanti improvvisati) che, in eventi orizzontali (cioè senza palchi), ossia l’anima pulsante delle musiche popolari, ne rovinano l’esecuzione impoverendone gli stili e le tecniche.

Tale fenomeno ha schiacciato in qualche modo le poche feste e i pochi ritrovi rimasti vivi, tanto da suscitare l’indignazione e l’accorato appello alla tutela dei ritrovi musicali tradizionali.

Così scrive Roberta Tucci, in Come salvaguardare il patrimonio immateriale? Il caso della scherma di Torrepaduli: “A Montemarano i suonatori della tarantella non permettono a chiunque di unirsi a suonare con loro durante il carnevale: se mai, concedono tale “onore” solo a persone scelte da loro stessi, con le quali hanno da tempo costruito un rapporto personale e di cui si fidano sul piano musicale. Del resto, a chi verrebbe in mente di inserirsi, con il proprio strumento musicale o con la propria voce o con il proprio corpo, in un contesto culturale “ufficiale”, quale può essere un concerto (di un’orchestra, di una banda, di un gruppo rock), o uno spettacolo di danza e di teatro? Perché, invece, gli spazi della cultura “popolare” possono venire tranquillamente occupati, senza neanche chiedere il permesso?” 

Il caso del Salento ha quindi allarmato gli operatori del settore in quanto la crescente attenzione turistica non solo ha rovinato la tradizione viva, congelandola e impedendone la naturale evoluzione, ma ha creato modelli intimamente globalisti imitati anche da altri territori, con conseguente depauperamento delle espressioni folkloriche locali. E’ il caso di alcune zone della Sicilia, dove – per imitare festival come la Notte della Taranta – si oscura il ricco patrimonio musicale locale.

Caso emblematico: il folklore e La Notte della Taranta

Notte della Taranta e folklore

Quando il Festival della Notte della Taranta compì i primi passi volti a diffondere la musica popolare salentina nell’incontro con musiche altre, si progettò – accanto al festival – la creazione dell’Istituto Diego Carpitella, il quale aveva il compito di raccogliere, tutelare e valorizzare il complesso Patrimonio folklorico locale. Inutile dire che ha funzionato solo negli anni d’oro (pochi, a cavallo tra la fine del Novanta e i primi del Duemila). Anche con l’istituzione della Fondazione Notte della Taranta, le finalità di salvaguardia furono ribadite solo a parole, ma ad oggi non si conoscono le finalità culturali della Fondazione se si escludono pochi studi fatti in collaborazione con alcune Università, non sull’aspetto culturale ma sull’aspetto economico del Festival (è sufficiente dare un’occhiata al sito web, dove di cultura non v’è menzione), tant’è che, dopo numerose richieste sempre inascoltate, l’antropologo Eugenio Imbriani lasciò la Fondazione.

Ad ogni modo il merito della NdT è stato quello di diffondere globalmente la musica popolare salentina (per lo più quella ballabile, trascurando il resto), ma ha contribuito – in apparenza paradossalmente – all’appiattimento culturale del Patrimonio folklorico, incanalando le espressioni musicali folkloriche nel mercato globale degli eventi. In altre parole, tutti gli sforzi compiuti in un secolo di scienza antropologica volta a riattribuire al popolo la propria musica, in chiave antisistema e identitaria, sono stati sconfessati da grandi festival (la NdT in primis) che invece hanno, a piè pari, consegnato alla cultura egemonica le diversità musicali, impoverendole e congelandole in teche da museo, anzi, in disco-teche.

L’importanza che assumono i gruppi di riproposta nella salvaguardia, valorizzazione e promozione del Patrimonio del folklore locale

La colpa (se di colpe si può parlare) però, non è solo della NdT, la quale deve necessariamente rispondere a logiche commerciali e fare numeri, per potersi inserire nel mercato globale degli eventi; la colpa è anche degli operatori del settore, ossia di gruppi di riproposta, appassionati e intellettuali che – oggi – non sono in grado di riannodare i fili col passato e riprendere, con coraggio e consapevolezza, il ricco patrimonio culturale, facendolo proprio ed evolvendolo. A parte poche eccezioni, molti operatori del settore diventano così inconsapevoli schiavi del sistema degli eventi, quindi schiavi della cultura egemonica e, per pochi soldi, acconsentono a svendere il proprio patrimonio musicale.

Sia chiaro, non è un problema di cachet. Ogni musicista può scegliere di farsi pagare come vuole, è un problema di paternità. La cultura popolare è la cultura del Popolo, è la conoscenza trasmessa dai nostri avi e che bisogna custodire e tramandare, non appartiene a chi la suona. Chi la suona ne è custode e non proprietario. Ed è per questo motivo che i primi responsabili dell’affossamento delle culture popolari e della consegna del popolo alla cultura dominante e globalista sono gli stessi che suonano inconsapevolmente sui palchi, per quattro spicci, tradendo così la propria storia.

Parafrasando R. Tucci, bene fanno coloro i quali sono gelosi custodi del proprio Patrimonio, bene fa quella popolazione che impedisce a chiunque di inserirsi in contesti musicali, se privo di consapevolezza o se sconosciuto, per rovinarne l’esecuzione e soprattutto bene fa quella popolazione che acconsente di suonare sui palchi la musica popolare se non col contagocce, se non dopo un percorso di presa di coscienza dell’importanza di tali musiche. Il punto, attenzione, non è se sia bene o meno suonare sui palchi (anche se la musica popolare è in antitesi con tale concezione), ma come lo si fa, con quale spirito e con quale livello di conoscenza, ma soprattutto con quale intenzione di raccontare, spiegare e diffondere il significato di tali musiche e canti.

Le questioni sociali e la musica popolare

Quello che Gramsci ha messo maggiormente in evidenza nei suoi studi sul folklore è la funzione del racconto popolare, soprattutto attraverso il canto. Nel canto si raccontano storie e si trasmette, criticamente, la propria concezione del mondo, in modo da partecipare attivamente alla storia del mondo, essere guida di se stessi e non già accettare passivamente e supinamente dall’esterno l’impronta alla propria personalità. Dunque la funzione del canto è di trasmettere storie, informazioni e creare una coscienza popolare.

A ben vedere, tutti i canti popolari hanno avuto, in passato, questa funzione che Gramsci ha lucidamente riconosciuto e ha fatto riemergere al fine di costituire una cultura sub-alterna contrapposta a quella dominante. Ma negli ultimi anni pochissimi sono stati gli esempi di musicisti (o meri appassionati) che hanno riscritto la musica popolare e adattata ai tempi attuali. Il caso del Salento – ancora una volta – è emblematico di questa dicotomia tra memoria stantia e adattamento concettuale di musiche e canti popolari. Molti – forti dell’esempio della NdT – hanno concentrato la propria attenzione sul rinnovamento degli arrangiamenti, in modo da adattare la musica del folklore locale ad altri stili musicali, quasi in una sorta di complesso di inferiorità per cui la musica popolare, di per sé, alla lunga può stancare. E infatti stanca a tal punto che è sopravvissuta – evolvendosi – per migliaia di anni.

Altri artisti hanno invece, con fatica, adattato l’impianto musicale tradizionale ad esigenze nuove, in forma di denuncia, riscatto, racconto di storie attuali, ma gli viene impedito, in grandi eventi, di professare le proprie idee. E infatti non si può sottacere che – ormai da diversi anni – manifestazioni come la Notte della Taranta, accanto a molti organizzatori di eventi, osteggiano quei gruppi sociali che vorrebbero ottenere voce da eventi mediatici così importanti per porre all’attenzione del grande pubblico tematiche sociali attuali e scottanti, quali lo scempio ambientale, denunciando opere impattanti sul territorio quali il gasdotto TAP, l’avvelenamento delle falde acquifere, la presenza di petrolchimici, acciaierie e centrali elettriche che deturpano l’ambiente e danneggiano la salute pubblica e tante altre tematiche che – secondo una legge naturale e storicistica – sarebbero proprie delle culture popolari e che ne rappresentano l’intima essenza.

Se Gramsci fosse vivo oggi direbbe che il folklore è regredito di nuovo a mera spettacolarizzazione pittoresca di fantasmi del passato ormai morti e privi di senso, che la cultura dominante ha sotterrato la cultura popolare, piantando il proprio vessillo sulle ceneri fumanti di memorie ormai stantie e prive del loro significato più vivo e che la tradizione, così com’è ora, è solo mero servilismo a logiche egemoniche, nell’illusione per cui la tradizione è l’espressione di un’identità locale ma dominata da un’unica cultura globale.

Forse Gramsci non userebbe parole così banali, ma il concetto resta: la tradizione e le espressioni musicali del folklore attuale non rappresentano più alcuna concezione del ruolo del popolo nella storia e nell’attualità. Il popolo, oggi, si è asservito alla cultura egemonica e chi canta sui palchi nemmeno se n’è accorto.

Emigrante

emigrante

Una poesia sull’emigrazione. Da Sud a Nord. Perché si è sempre più meridionali di qualcuno.

Emigrante

Valigia di cartone

e sguardo ramingo

tu poni le tue speranze

in terre nuove,

ricche di sogni

e di lavoro,

in americhe ostili

o fredda Europa.

Come quel nero africano

che, da Sud

sbarca su meridionali,

italici, lidi

alla ricerca di futuro

e dignità

tu volgi a Nord

la tua fiduciosa vista

e guardi con disprezzo

chi

più meridionale di te

solca sabbia

dalla tua giovinezza

calpestata

che tu, indifferente e grave,

lasciasti all’avverso destino.

Il Nord sognato e mai visto

ti si palesò ostile

tra strade ignote

e ignari soccorsi.

E mentre sguardi glaciali

e biondi capelli

ti schivano, schifati

tu, schiavo tra i servi,

in anni dominio,

di servitù vessato

al tuo loco tornato

tessi affrettati

e ingiusti giudizi

su chi, come te,

lasciò domestici lidi

per avventurarsi

in terre ostili

vagheggiando di lavoro

e dignità.

Madonna, la pizzica e il servilismo

madonna pizzica puglia 2017

Il 15 agosto Madonna ha compiuto 59 anni e ha deciso di trascorrere le vacanze e festeggiare il suo compleanno nello splendido scenario di Borgo Egnazia a Fasano, dove già c’era stata l’anno scorso e dove, a quanto pare, molti vip internazionali hanno fatto tappa in questi anni. Per il suo compleanno ha selezionato una dozzina di suonatori di tamburello al fine di intrattenere gli ospiti e festeggiare in modo tradizionale, ballando la pizzica-pizzica. E’ inutile dire che il video della sua performance ha fatto il giro del mondo e ha ottenuto numerosi plausi e anche qualche fischio.

Già, sono tanti quelli che l’hanno osannata (del resto è la regina mondiale del pop), ma anche molti l’hanno criticata. Perché? Perché non sa ballare la pizzica. E sti cazzi no? E’ ovvio che non la sa ballare e che – per festeggiare il suo compleanno – ha improvvisato qualche passo e si è lasciata andare in modo spontaneo.

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Il punto, però, è un altro.

Madonna è una star internazionale e su questo non ci piove. Per lei hanno persino aperto la scalinata che conduce al campanile del Duomo di Lecce, chiusa da decenni per motivi di sicurezza, ma si sa che la notorietà ovvia a qualsiasi ordinanza di sicurezza, con ciò dimostrando che gli italiani – e in particolare i salentini – possono trascendere qualsiasi motivo pur di accontentare lo straniero, per di più se famoso.

Ma con la storia della pizzica suonata a Fasano, in occasione del compleanno della star, si è dimostrato tutto il servilismo e il lecchinaggio tipico di tanti abitanti del Sud del Sud d’Italia che, con un colpo di lingua, hanno affossato qualsiasi tentativo (vano, finora) di riattribuire alla musica popolare quella dignità perduta con la scomparsa della civiltà contadina e ripresa (a fatica) negli anni ’70 grazie a personaggi come Giovanna Marini o Rina Durante che hanno faticosamente (va ribadito) ripreso la musica popolare e riadattata in chiave anti-sistema. Gli sforzi di tanti intellettuali nostrani o stranieri di dare dignità alla musica popolare salentina si sono sciolti come neve al sole, in questi anni, grazie alla mercificazione, a buon prezzo, della pizzica (accostata alla taranta, come se fossero due generi, e nemmeno i suonatori sanno che la taranta non è un genere, ma solo un ragno. Epperbacco, studiate però!), svenduta in tutta Italia (e anche fuori) grazie a gruppi musicali improvvisati, corsi di dubbio gusto, passi di ballo inventati, musiche arrangiate come fossero cloni della Notte della Taranta e una generale disinformazione sulle radici di tali musiche e balli. Insomma, il mercato chiama e il salentino, improvvisato suonatore, si svende. Quanto chiede un gruppo? 400 euro? E io ne chiedo 300 pur di suonare alla sagra del melone di Roccaforzata. Questo è il quadro in cui opera il suonatore salentino medio.

Quindi, cosa c’entra tutto ciò con Madonna? I salentini si svendono e svendono la propria cultura, ma che c’entra Madonna?

Madonna (o chi per lei) ha fatto ciò che fanno tutti gli organizzatori di eventi: chiamare un gruppo per suonare. Non so a quanto ammonti il rimborso spese per il carburante (dipende se i mezzi con cui viaggiavano i suonatori andavano a gasolio, benzina o GPL/metano), ma simbolicamente quei quattro suonatori non solo si sono svenduti per un rimborso spese (e per un “io c’ero” da postare sui social, con il petto gonfio d’orgoglio), ma hanno tradito le proprie origini.

Lasciate che vi racconti (brevemente) una storia. La pizzica, in Salento, in passato veniva suonata di rado e solo in occasioni particolari: il santo patrono, qualche matrimonio o festa privata, e poi in due – importanti – feste: San Paolo a Galatina e San Rocco a Torrepaduli. La prima si festeggia il 28 e 29 giugno e suonare lì, accanto alla cappella di San Paolo, era un modo per mantenere vivo il ricordo del tarantismo e della sofferenza/guarigione che San Paolo provocava e creava nelle tarantate. La seconda si svolge il 15 agosto a Torrepaduli, frazione di Ruffano ed è forse la festa più importante del Salento tra i suonatori di musica popolare, perché ogni anno – in modo orizzontale e senza palchi – si ripropone la pizzica e la pizzica-scherma (un ballo tra uomini, retaggio di antichi balli/sfide rom), insomma, è la più importante testimonianza viva della musica popolare salentina, tant’è che per anni è stata non solo il ritrovo ma anche la palestra viva di tanti suonatori che oggi si esibiscono sui palchi. Se oggi la pizzica è viva lo dobbiamo (quasi) esclusivamente a ritrovi come questo.

E invece che ti fa questa dozzina di suonatori tradizionali? Snobba la festa di San Rocco per andare a suonare – vestiti come bamboccioni (con abiti che non c’entrano assolutamente nulla con la tradizione…) – al compleanno di Madonna. Dietro rimborso spese, s’intende.

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I bamboccioni vestiti in modo tradizionale. Ma di tradizione non c’è ombra.

Se questa gente avesse un orgoglio direbbe a Madonna: vuoi che ti suoniamo la pizzica? Vuoi vedere la tradizione viva? Vuoi ballarla? Fanculo, vieni tu da noi, vieni a San Rocco, vieni in qualsiasi sagra, vieni qui ad ascoltarla, noi non ci svendiamo né ci spostiamo. E invece questa gente ha snobbato i propri padri, il tessuto vivo che li ha resi suonatori, la festa simbolo della tradizione pulsante per andare in un contesto avulso ed eseguire – come qualsiasi altra cover band – qualche canto morto, privo di significato, banale e inutile perché privo del suo substrato culturale che gli dà vita. Con ciò non voglio dire che la musica popolare non debba oltrepassare i confini territoriali, sia chiaro, ma che qualsiasi operazione di de-radicazione dev’essere ovviamente forzata (è ovvio che non si può pretendere che il mondo venga in Salento, per questo si porta la musica fuori) e accompagnata dalla consapevolezza di ciò che si esegue e che proporre non vuol dire svendersi o essere servile davanti all’offerta di lauti rimborsi spese. Insomma, Madonna non si trovava a New York, ma a Fasano e se davvero voleva sentire la pizzica avrebbe dovuto recarsi lei nel territorio dove si suona. Non siete d’accordo? Chi se ne fotte. Penso a quanto i calabresi o i campani siano gelosi della propria cultura musicale e di quanto rari siano i corsi o i concerti di tali musiche fuori dal proprio contesto. Penso anche che se vado in una rota (o ronda o cerchio di suonatori) calabrese, non mi fanno suonare se non mi conoscono. In Salento invece si, entra chiunque, anche il neofita o l’esaltato che rovina l’armonia musicale. Essere democratici è bello, ma essere troppo permissivi è un male. Con Madonna il permissivismo e il servilismo ha raggiunto vette altissime. Finché non prenderemo coscienza che il patrimonio culturale immateriale è fragile e di valore, talmente di valore da essere inestimabile, continueremo a svenderci e a dare il culo per quattro denari, quando invece dovremmo essere orgogliosi di ciò che abbiamo e offrirlo col contagocce, come fosse merce rara destinata solo a chi sa davvero apprezzare. Ma in ciò abbiamo l’esempio negativo di eventi obrobriosi come La Notte della Taranta, che vende il culo pur di ottenere 150.000 presenze ogni anno e vantarsi fin quando non arriva fine agosto, periodo in cui tutti se ne dimenticheranno fino agli inizi dell’agosto dell’anno successivo. A me ste cose, onestamente, fanno tristezza.

Quindi perdonatemi se perculo quelli che hanno suonato per Madonna. Non hanno colpe, certo, ma l’unica loro colpa è di essere talmente rozzi e ignoranti da non capire l’oro che hanno nelle mani e venderlo in cambio di due cucuzze ammaccate. Non è colpa loro, la colpa è di chi non gli ha spiegato l’elementare differenza tra costo e valore: tra il costo del carburante e il valore della mano che suona sul tamburo.

Fragile

Nastro Fragile

Flusso di coscienza, parole che escono così, senza un senso apparente. Fragile, come quel nastro che avvolge i pacchi di cartone, destinati a persone che – forse – non troveranno altro che cocci. Fragile, come quel nastro che nessuno legge, ma è lì, a dirci di fare attenzione. Però, sai, nessuno lo legge quel nastro.

Fragile

come quel nastro adesivo

che avvolge l’ondulato cartone

contenente fragili adorni

dai corrieri trascurato

ormai privo

del suo significato.

Ho scritto “fragile”

sulla mia vita

ma nessuno se ne cura

e, noncurante, tra tanti pacchi

nei camion della vita

io viaggio.

Sballonzolo su per le strade

allibite e crepate

mentre il mio contenuto

pian piano s’affligge

e si crepa

rompendosi talvolta

e chi mi aprirà

troverà cocci

di una vita passata

di un viaggio malconcio

e chiederà rimborsi

per non aver goduto

del mio essere in viaggio,

del mio fragile, avverso destino.

Laura Boldrini e l’italica ignoranza

Lo ammetto. A me Laura Boldrini non sta tanto simpatica. Ho iniziato a storcere il naso per le sue inutili battaglie linguistiche sulla declinazione al femminile di parole tradizionalmente declinate al maschile, ma di significato neutro, perché riferito ai ruoli, quindi Sindaco e non Sindaca, oppure Ministro e non Ministra o ancora Presidente e non Presidenta. 

Si può continuare con Avvocata, Architetta, ecc. Ma ho qualche dubbio su come la Boldrini declinerebbe il termine Geometra. Forse al maschile sarebbe Geometro? E che dire del Commercialista? Forse al maschile sarebbe Commercialisto?

Oddio, esiste pure un più raro ma non sgrammaticato Presidentessa, che si potrebbe usare, ma la Boldrini si è fissata con Presidenta, scomodando pure l’Accademia della Crusca che, con un lusinghiero panegirico, quasi in un’ardita arrampicata sugli specchi, ha dato ragione alla Presidenta, suscitando le comunissime e ovvie ire di Vittorio Sgarbi.

Mi sta anche antipatica per quell’altro aspetto, legato al sessismo, che ogni tanto (sci)orina nei suoi discorsi, anche istituzionali, come quella volta che ha fatto gli auguri a una deputata neo-mamma dichiarando espressamente – in Aula – che il papà, nella storia del parto, non c’entra nulla.

Poi c’è la storia dei migranti. La Boldrini, dopo una lunga esperienza presso l’Alto Commissariato per i rifugiati dell’ONU, nel 2013 venne eletta a seconda carica dello Stato, cioè divenne Presidente della Camera dei deputati. Chiaramente, vista la sua precedente carriera, ha da subito iniziato una battaglia per l’accoglienza e l’integrazione dei migranti, creando in taluni disappunto e in molti altri un crescente odio nei suoi confronti, soprattutto da parte dei tanti razzisti che si annidano sui social e che, ad ogni uscita della Presidenta, si scagliano contro di essa con commenti di inaudita violenza, volgarità e odio, molto spesso contornati da errori grammaticali che nemmeno l’audace Accademia della Crusca potrebbe approvare.

E’ vero che la Signora Boldrini non dimostra spesso di avere quel senso dello Stato tipico di chi ricopre un ruolo istituzionale così elevato né dimostra di saper distinguere quando parlare in qualità di Presidente della Camera e quando in veste di cittadina o attivista per i diritti civili, ma ciò – ovviamente – non comporta una violenza così esasperata, continua, quotidiana, feroce, illogica, meschina e spudorata nei suoi confronti.

boldrini_offese_facebook
L’ultimo post di Laura Boldrini su Facebook in cui annuncia di voler querelare chiunque la offenda, lo trovi qui. Da notare il commento di un tizio che dice: “Dovrebbe riflettere sul perché le persone le rivolgono questi deplorevoli commenti.
 Diciamo che lei non fa nulla per farsi benvolere. La Tatcher non era benvoluta, ma cambiò il volto, ed in meglio, della Gran Bretagna.
Invece di sostenere il popolo italiano dà la parvenza di supportare chi viene da fuori, dimenticandosi gli stenti a cui questo Stato non è in grado di porre rimedio.
Lei risponderà alla Costituzione su cui ha giurato e alla sua coscienza guardandosi allo specchio”.

Premesso ciò, però va puntualizzata una cosa. E lo dico a vantaggio non degli idioti (perché tali sono) che l’hanno riempita di epiteti e volgarità inaudite, ma di tutti quelli che in questi anni hanno motivato i commenti dei suoi post o dei suoi tweet sempre con le stesse argomentazioni: tu pensi ai migranti e agli italiani, che soffrono la crisi, stanno male e bla bla bla, non ci pensi.

Questa gente, che si crede intelligente perché non offende, ma motiva il proprio odio nei confronti della Boldrini con commenti del genere, dimostra tutta la propria ignoranza in materia istituzionale e quindi vorrei soltanto ribadire un concetto banale, materia di educazione civica fatta alle elementari o alle medie, e cioè che quello del Presidente della Camera non è un ruolo politico, ma istituzionale. Insieme al Presidente del Senato è la seconda carica istituzionale, dopo il Presidente della Repubblica, e il suo ruolo è solo quello di:

  • provvedere al corretto funzionamento della Camera dei deputati, mantenendo l’ordine e dirigendo la discussione
  • garantire l’applicazione del regolamento
  • provvedere al buon andamento delle strutture amministrative della Camera
  • presiedere le riunioni del Parlamento in seduta comune e convocare le camere per l’elezione del Presidente della Repubblica

Queste, in sintesi, le funzioni del Presidente della Camera. Quello di aiutare gli italiani, far progredire l’economia, tutelare i diritti della cittadinanza o provvedere alla gestione del Paese è un ruolo politico che spetta al Presidente del Consiglio dei Ministri, ai Ministri e, in misura minore, ai Presidenti di Regione, nonché ai partiti di riferimento e ai sindacati, che sono riconosciuti dalla Costituzione. Insomma, a tutti quelli che ricoprono ruoli politici, cioè di decidere quali soluzioni adottare per risolvere determinati problemi o gestire la cosa pubblica. Capite bene che quando la si offende perché non fa nulla per gli italiani, è ovvio che sia così, non è il suo ruolo. Dunque quando leggo gente che paragona la Boldrini alla Thatcher o la offende perché pensa ai migranti e non agli italiani, mi sovviene alla mente quell’antico istituto della Grecia classica, cioè il blakennòmion, ossia, letteralmente, la tassa sugli stupidi, che si applicava a coloro che facevano ricorso ai consigli e agli oroscopi degli astrologi, perché considerati idioti. Beh, suggerisco alla Boldrini, anziché di querelare questa gente, di proporre al Parlamento una Legge che multi chi dimostra palesemente un’oggettiva ignoranza (oltre all’odio), sarebbe un modo straordinario di far cassa e risollevare l’economia italiana (chissà, magari anche di limitare questi fenomeni da baraccone). E la libertà d’opinione? Si fotta. Le opinioni sono tali quando sono sensate e informate. Il resto è solo putrida immondizia di cui possiamo farne a meno.

Fumo

Fumo

Niente. Non c’è nulla da fare. Ho provato a leggere (due volte) il libro di Allen Carr è facile smettere di fumare se sai come farlo. Alcune tra le persone che conosco hanno smesso dopo aver letto (e compreso) il libro, che – tra parentesi – ritengo molto interessante nel far leva su alcuni macigni psicologici che ci portano a sedimentare alcune abitudini (o vizi che dir si voglia). Ho provato pure con la sigaretta elettronica. Risultato: ora continuo a fumare e ci ho aggiunto pure la sigaretta elettronica nei tempi in cui prima non fumavo. Quindi, di fatto, fumo di più. Ma in fondo lo ammetto, un poco (ma poco) sono svogliato a smettere. E poi, quando scrivo fumo. E quando fumo…non scrivo, ma vabbè, volevo rendere poetica una figura che di poetico ha poco (cioè, fumare). Allora sai che faccio? Pubblico una poesia sul fumo. Non per invogliare qualcuno a farlo, ma solo perché una notte mi è venuto di scriverla. Sicché, la pubblico.

Fumo

un odore acre
si spande per la stanza
mentre i rivoli di fumo
colorano di grigio
le bianche mura
e le basse volte.
Una sigaretta
e un’altra ancora
mentre mi pento
ch’è già mattina.
Albeggia lungo le finestre
e i galli, co’ loro cantare
m’inducon a desistere
mentre la mente
nell’anima conflittuale
perenne mi chiama
a regolar sonno
e membra riposo.
Eppur son qui
a scriver inutili versi
solo per me
solo per dirmi
ch’è mattina.
Vado a dormire
non prima di scrutar
la cenere
che ultima si posa
nella creta smaltata,
ad accompagnar
altre cicche
di quotidiana memoria.

Il Sindaco di Licata e la differenza tra Legge e Giustizia

angelo cambiano sindaco licata abusivismi

Angelo Cambiano era Sindaco di Licata, in Sicilia. Fu eletto il 15 giugno 2015 con quasi il 55% di preferenze. Nel 2016 iniziò la sua lotta all’abusivismo edilizio e venne minacciato più volte (gli vennero persino incendiate due case di famiglia) quasi sicuramente perché, fino ad ora, ha fatto abbattere numerosi immobili abusivi. Pochi giorni fa è stato sfiduciato dal consiglio comunale. Ma che ha fatto di così grave? Semplicemente ha applicato la Legge, in particolare tutta una serie di ingiunzioni di demolizione da parte della Procura di Agrigento. Come lui stesso dichiara “La mia non è stata una scelta politica quella di demolire immobili. Ci sono delle sentenze della magistratura che lo hanno decretato e le sentenze vanno rispettate”.
Oddio, non possiamo certo dargli torto. La legge va rispettata e le sentenze pure. Alcune sono così vecchie da risalire persino agli inizi degli anni ’90. Quantificando, sarebbero quasi un centinaio le case da abbattere o già abbattute, ma forse sono anche di più, dato che non è facile conoscerne il numero, perché, dal 2016 ad oggi, la Procura di Agrigento, a più riprese, ha notificato al Comune di Licata molte ordinanze di abbattimento, tutte recepite e fatte eseguire. Fino al 2015, anno in cui Cambiano fu eletto, le pressioni da parte della Procura di Agrigento vennero tutte respinte al mittente, non solo dal Comune, persino dalla Sovrintendenza ai beni culturali e ambientali e dall’Ente Parco archeologico, ognuno dei quali si dichiarava non competente in materia.

Insomma, per anni, anzi, per decenni, tutte le sentenze e le ordinanze di abbattimento degli immobili abusivi sono state ignorate dal Comune e dagli altri Enti preposti. Il Sindaco Cambiano ha corretto il tiro e ha iniziato ad applicarle, ordinando gli abbattimenti, non solo di immobili per cui le sentenze sono passate in giudicato, ma anche per immobili di nuova costruzione.

Ha fatto bene? Ha sbagliato? Entrambe le cose. Cambiano non è un Eroe, perché ha applicato la Legge, ma non è nemmeno un rappresentante della sua popolazione (lo dico a vantaggio di quelli che pensano che i Sindaci sono rappresentanti del Governo. No, rappresentano i cittadini del Comune in cui vengono eletti. Solo in poche occasioni fungono da rappresentanti del Governo) perché non ha tenuto conto della realtà in cui opera.

Già. Ha fatto bene, perché ha applicato la Legge, ma ha sbagliato, perché – in molti casi – è stato ingiusto.

Che differenza c’è tra Legge e Giustizia? E’ giusto abbattere le case abusive, sì, ma è giusto abbattere solo quelle di quei poveri sfigati che non hanno approfittato dei vari condoni edilizi intervenuti in questi ultimi decenni? Dagli anni Settanta ad oggi il Governo, con vari decreti d’urgenza, ha sempre e costantemente regolamentato la materia decidendo, di volta in volta, quando consentire e quando, invece, sanare (a titolo d’esempio, basti ricordare i D.L. 28 marzo 1986, n. 76; D.L. 30 settembre 1986, n. 605; D.L. 9 dicembre 1986, n. 823; D.L. 9 marzo 1987, n. 71; D.L. 8 maggio 1987, n. 178; D.L. 9 luglio 1987, n. 264; D.L. 4 settembre 1987, n. 367; D.L. 7 novembre 1987, n. 458, tutti in materia di urbanistica e sanatoria dell’abusivismo edilizio).

Diciamoci la verità. I Governi che si sono succeduti (e spesso i Parlamenti, che hanno ratificato i Decreti o emanato leggi ad hoc) hanno regolamentato la materia come più gli ha fatto comodo: a volte concedendo, a volte impedendo, altre volte sanando. In questo marasma legislativo mettetevi nei panni di un cittadino qualsiasi che vuole costruire (del Nord o del Sud, perché l’abusivismo è trasversale, anche se spesso i media vi diranno che è preminente al Sud. Cazzate). Non ci capisce un cazzo. Legge le varie disposizioni normative e non sa quali sono valide e quali abrogate. In più, tra rimandi di legge e giuridichese, non capisce nulla. Quindi fa la cosa più ovvia: va all’Ufficio tecnico o dal Sindaco per avere informazioni e questi, con buona probabilità, gli diranno: tu costruisci, poi si vede. E fu così che dagli anni Settanta ad oggi interi Paesi sono stati costruiti in modo abusivo. Ma abusivo da cosa? Abusivo in base a leggi che dicono tutto e il contrario di tutto? Abusivo in base a piani urbanistici locali che molti Comuni non hanno ancora adottato? Abusivo in base alle dichiarazioni degli Uffici tecnici dei Comuni? In questa confusione, uno che vuole una casa in riva al mare, in campagna o nella periferia del paese, la costruisce e basta. Poi si vede. E’ così che ha funzionato finora. E’ giusto? Non è giusto? Come si fa a dirlo se le leggi venivano continuamente modificate e se le sanatorie spuntavano come funghi ogni 5 o 6 anni?

Quindi, rispondendo alla domanda di prima, un povero cristo, che si vede abbattere la sua casa costruita negli anni Settanta, così, senza un apparente motivo e dopo averci vissuto una vita, magari ereditata dal nonno (che l’ha costruita perché qualcuno gli ha detto che poteva farlo, poi si vedrà) sta subendo un’ingiustizia o l’applicazione della Legge? E la legge, nel suo caso, è giusta? Se il tizio, vedendo che in tutta Italia si abbattono case abusive, forse potrebbe farsene una ragione, ma se invece l’applicazione della Legge vale solo nel suo Comune e nel suo caso, penserà che è giusto o che è solo una carognata che lo porterà a perdere la sua casa e ad andarsene in mezzo a una strada? Come fai a spiegargli che la sua casa è abusiva quando invece quella del suo vicino – sanata qualche anno prima – è ancora in piedi e non verrà abbattuta? Ditemi se questa è giustizia o meno. Ditemi come fa quel povero cristo a capire che la sua casa è illegale, mentre quella del vicino no.

Oggi assistiamo a questo spiacevole spettacolo per cui un Sindaco, che deve applicare la Legge, viene prima minacciato e poi sfiduciato dal suo Consiglio comunale. Lui non è un eroe, è solo l’emblema di un personaggio che si trova ad operare in un sistema corrotto nei suoi meccanismi più profondi, cioè le leggi, di un modello istituzionale che non ha mai voluto prendere una decisione netta in materia urbanistica e che si è sempre mascherato dietro il gioco dell’oca di un sistema volto a vietare e poi a concedere, a bloccare e poi a sanare, ad impedire e poi a consentire. In questo sistema qual è la differenza tra Legge e Giustizia? E’ giusto consentire e poi – dopo tanti anni – distruggere? E un povero Sindaco cosa deve rispettare? La Legge o la Giustizia? Me lo chiedo e ve lo chiedo, perché è facile schierarsi contro l’abusivismo, ma è difficile capire quanto questo fenomeno sia stato foraggiato dalle stesse Istituzioni che oggi lo contrastano. Soprattutto al Sud. Ma l’Italia, sappiatelo, da questo punto di vista è unita. Unita assai.