Uscite dai Social!

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Ovvero, la truffa dei Social Network che ci controllano, influenzano e decidono su di noi con oscure linee guida.

I social, si sa, sono nati per far interagire le persone, mantenerle in contatto, creare nuove relazioni, condividere ricordi, esperienze, pensieri, far conoscere prodotti o servizi, per vendere sé stessi e per far conoscere e diffondere battaglie sociali o ambientali.

Insomma, sono una cosa buona, almeno per come sono stati pensati all’inizio. Però dal 2006 ad oggi (anno in cui Facebook, il primo Social Network, ha iniziato a diffondersi in Italia) molto è cambiato, in particolare nella gestione delle relazioni da parte di una sempre più spudorata filosofia del controllo e delle influenze sociali, non tanto quella di Orwelliana memoria (che ha ispirato la concezione del Grande Fratello e che trova le sue radici nel Panopticon di Jeremy Bentham), ma più semplicemente e meschinamente quella della pianificazione strategica degli obiettivi aziendali.

Secondo tale visione gli utenti sono considerati dei meri prodotti da cui trarre ogni informazione possibile finalizzata a vendere prodotti e servizi cuciti su misura, ma, dato che la frammentazione è difficile da gestire, finalizzata soprattutto a influenzare gusti e tendenze per poter, al fine, attuare pratiche commerciali di massa precedute da esperimenti sociali di massa.

E’ evidente che in questo contesto la politica internazionale, di stampo capitalista, è attratta da questi modelli come una mosca è attratta dalla cacca, per cui entra con tutti e due i piedi nella gestione dei Social, favorisce e influenza le linee guida per la moderazione dei contenuti, decidendo cosa è conveniente diffondere e cosa, invece, va relegato nell’oblio delle relazioni sociali virtuali o, peggio, va deriso, annichilito, strumentalizzato.

Detto in altri termini, molto più sintetici, i Social sono nient’altro che prodotti per calmierare il mercato delle relazioni sociali e per controllare, gestire e razionalizzare la massa (a)critica di contenuti teoricamente liberi ma influenzati, mentre quelli potenzialmente dannosi per la tenuta del sistema sociale vengono marginalizzati, derisi (anche e soprattutto dagli stessi utenti) e, al limite, oscurati. Nemmeno così è chiaro? Allora ti rubo solo 2 minuti per spiegare meglio il concetto. Ma, come mi piace fare sempre, parto dagli inizi.

La genesi di Facebook

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Mark Zuckerberg, l’uomo da un miliardo di dollari l’anno

Tra il 2003 e il 2004 un giovanissimo Mark Zuckerberg creò un portale finalizzato a rendere interattivo sul Web il classico faccia-libro dei college americani (da qui il nome) che raccoglieva foto, nome e corsi frequentati da ogni studente.

Dato il massiccio successo del Social, questo si diffuse rapidamente anche fuori dai campus universitari, trasformandosi da un Social per studenti a un Social per chiunque. Non più solo studenti, ma tutte le persone potevano entrare in contatto: parenti, amici, ex compagni di scuola, colleghi di lavoro, ecc.

L’idea era buona e, di lì a poco, portò alla nascita di una nuova concezione del web: non più perso nell’anonimato di nick e avatar, ma popolato da persone reali, cioè da persone che – volontariamente – inserivano sul social i propri dati personali: nome, cognome, luogo e data di nascita, foto personali, ecc., il tutto nel nome dell’allaccio dei rapporti.

Una vera rivoluzione digitale, insomma. Non che il web sia cambiato da quel momento, attenzione, perché ancora oggi, a distanza di 13 anni, sopravvivono forum, blog o chat popolati da pseudonimi e nick, ma è innegabile che Facebook abbia contribuito alla identificazione degli utenti del web.

Ma il sistema non funzionava…

Però il “sistema”, dopo pochissimo tempo, iniziò a scricchiolare, perché in effetti la gente gradiva la possibilità di interagire con persone conosciute o di riallacciare i rapporti con persone perse nell’oblio dei ricordi e magari residenti in altre parti del mondo (tanto che, per anni, è sopravvissuta la moda di creare gruppi di gente con lo stesso cognome, per ritrovare radici comuni), ma non gradiva affatto il confronto di idee diametralmente opposte alle proprie.

Insomma, molte persone, restie al confronto e al dibattito, cominciavano a disaffezionarsi allo strumento perché sgradivano la presenza, sulla propria home, di contenuti dissimili dalle proprie convinzioni.

L’algoritmo che ti fa sentire a tuo agio

Zuckerberg, che non è fesso e che spesso ha usato gli strumenti statistici di gradimento del proprio social (abusandone a volte) per capire le tendenze dei propri utenti, ha corretto il tiro creando un algoritmo che si chiama EdgeRank, il quale sceglie i contenuti da far vedere agli utenti in base ai contenuti che essi gradiscono tramite like, commenti e condivisioni.

Oddio, l’algoritmo cattivo è nato “ufficialmente” per gestire l’enorme mole di contenuti pubblicata sul social (quindi sarebbe impossibile mostrare tutto ciò che viene pubblicato dai propri contatti), ma di fatto apre a un nuovo interessante scenario sociale: l’utente viene inserito in una sorta di area di confort, in cui vede solo ed esclusivamente i contenuti di persone con cui interagisce maggiormente e che, quindi, apprezza.

Quello che i cervelloni della Silicon Valley cercano di fare è di trattenere quanto più possibile i propri utenti sul Social, mostrando loro cose che apprezzano. E’ evidente che questo sistema da un lato evita il confronto (o lo scontro) di visioni opposte, ma dall’altro rimbambisce le coscienze perché contribuisce a creare una visione (seppur virtuale) di un mondo conforme alle proprie credenze, illusioni e aspirazioni.

Un modello vincente

E’ inutile dire che il successo di questo “modello” è stato mutuato da altri Social, come Twitter, You Tube e Google Plus ed è stato attenzionato dalla politica globale.

Già, perché Zuckerberg, Larry Page, Sergey Brin e oggi il nuovo CEO Sundar Pichai (vertici di Google) si incontrano regolarmente con la Casa Bianca e persino con il Pentagono per questioni di sicurezza nazionale, ma soprattutto per definire le politiche dell’informazione globale.

Eggià. E’ recente la notizia per cui i vertici di Facebook e di Google hanno siglato un accordo volto a ridurre le bufale e le fake-news su internet. Come? Attraverso potenti algoritmi in grado di riconoscere le notizie false e relegarle nell’oblio della rete (in settima o ottava pagina su Google o in fondo alla home su Facebook), perché al giorno d’oggi le notizie scomode (o false, chissà) non si cancellano più (altrimenti si griderebbe allo scandalo e alla censura) ma semplicemente si relegano in fondo, dove solo gli utenti più certosini arrivano, ma dove la massa di utenti non arriva.

L’Italia finalmente ha una scusa per regolamentare la rete

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Pare ovvio dire che questo rimedio è stato invocato dalla classe politica e dai media nostrani come un toccasana per l’informazione “vera” (leggasi: di regime), perché, con la scusa della lotta alle bufale e alle fake-news, finalmente si ha una scusa valida per regolamentare un settore delicato e oggetto – da quasi 20 anni ormai – di disegni di legge sempre discussi ma mai approvati.

Ora, invece, la proposta attuale prevede l’istituzione di un’Autority pubblica e indipendente (anche dal sistema giudiziario) che, attraverso le segnalazioni, provveda a far cancellare i contenuti falsi e diffamatori in modo rapido e autonomo, cioè senza il preventivo passaggio da un organo giudiziale che – data la lentezza delle procedure – non permetterebbe di rimuovere in tempo contenuti potenzialmente diffamatori o pericolosi.

Le intenzioni sono corrette, sì, ma senza un contraddittorio saremo certi che i contenuti siano effettivamente bufale, fake-news, diffamazioni o non invece articoli scomodi al sistema di potere? Se è vero che le Autority sono organismi indipendenti, è anche vero che sono – di fatto e immancabilmente – sbilanciati verso chi li ha nominati (o li controlla o semplicemente ne conosce componenti e dinamiche interne…) piuttosto che verso il semplice cittadino.

Del resto in Italia siamo abituati al fatto che ogni legge liberticida è lastricata di buone intenzioni.

Ma questo sistema che si vuole introdurre in Italia, è già di fatto applicato dai gestori dei Social e tutti quanti ne conosciamo l’uso e le finalità: le cosiddette “linee guida”.

Le linee guida per la moderazione e l’arma della segnalazione

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A chi non è mai capitato di segnalare a Facebook o a Twitter un contenuto ritenuto offensivo? Si tratti di pornografia, odio o violenza, offese o insulti, più o meno a tutti quanti è capitato di segnalare contenuti sgraditi.

E quante volte Facebook ci ha risposto che i contenuti non sono stati rimossi perché non violano le linee guida? Capita soprattutto quando si segnalano gruppi estremisti che inneggiano all’odio razziale, al fascismo o alla violenza.

Rispettano le linee guida, sì.

Ma l’immagine di un quadro, come il Cupido di Caravaggio, viene immediatamente censurata perché non rispetta le linee guida. Ciò accade da anni ed è successo per un quadro di Modigliani, il Nudo di Courbet e per tantissime altre opere d’arte che contengono pure un accenno di seno! E quindi? Che criteri usa Facebook per stabilire cosa è conforme e cosa no? Per non appesantire la lettura, vi rimando a quest’ottima inchiesta del Guardian.

La realtà è che i Social hanno regole tutte loro per decidere cosa è sconveniente e cosa no, regole che – ovviamente – non sono né democratiche né socialmente condivise da chi usufruisce del servizio, semplicemente sono imposte e decise dagli sviluppatori e dai CEO dei Social, in combutta con la politica e, chiaramente, con i finanziatori.

E’ qui che casca l’asino.

Il caso Tartaglia

Ricordate il caso Tartaglia? L’assalitore di Berlusconi? Successe nel 2009. Dopo il fatto, nacquero diversi gruppi su Facebook, che inneggiavano all’assalitore. Nessuna segnalazione fu sufficiente a rimuoverli, ma bastò una telefonata dell’ex Ministro Maroni al CEO di Facebook per far rimuovere i contenuti.

Ecco, questa è la summa della democrazia sui social. E attenzione, badate bene, non è un problema di poco conto. Qualcuno risponderebbe che i vertici dell’Azienda possono decidere liberamente cosa far pubblicare e cosa no, perché in fondo il Social è casa loro e noi siamo “ospiti”. Ma oggi non è più così.

I social sono una cosa pubblica

I Social influenzano pesantemente ogni singolo aspetto della vita di una persona, persino della vita di un’Azienda o di una formazione politica, sono entrati così capillarmente nelle nostre vite e nelle nostre scelte quotidiane da esserne ormai parte integrante, quindi una discussione sulla democratizzazione dei Social sarebbe più che opportuna.

Andrebbe fatta almeno per riflettere su cosa sia davvero preminente per la tenuta sociale e democratica di un Paese, cioè se contano più le Costituzioni e le Leggi o il capriccio di un CEO che vive dall’altra parte del Mondo e decide le sorti di persone, gruppi, partiti o Aziende, così, magari di testa sua oppure influenzato da finanziatori e potenziali avversari delle sopracitate.

Il problema, come vedete, non è banale e comprende molti aspetti politici e giuridici: dalla gestione dei dati personali alla privacy degli utenti, all’educazione dei figli (come crescerà un figlio se sui social ha accesso libero a contenuti di odio e violenza?), alla diffusione di ideologie e concetti distorti, all’alfabetizzazione emotiva e, non ultimo, alla governance del web.

Gli esperimenti social

Social

Una cosa di non poco conto (se non vi bastassero quelle appena raccontate) è che Facebook ci usa costantemente per esperimenti sociali di vario tipo.

Per esempio, nel 2012 ha controllato quanti utenti iniziassero a digitare uno status che superava i 5 caratteri e che non veniva pubblicato entro 10 minuti dalla composizione. Ciò per capire cosa avrebbero scritto e cosa ha spinto gli utenti a non pubblicare il proprio aggiornamento. Ma non solo.

Le foto profilo con l’arcobaleno (per appoggiare i diritti dei gay) o con la bandiera francese (in segno di vicinanza ai francesi, colpiti dagli attacchi terroristici) non sono altro che esperimenti su cavie di laboratorio (cioè gli utenti che l’hanno fatto…) per capire quante persone si adeguano agli atteggiamenti collettivi e, quindi, sono facilmente influenzabili dalla viralità dei contenuti.

Tra l’altro la sempre più invasiva diffusione di contenuti di bassa qualità, per non parlare delle fake news, alza sempre più l’asticella dell’analfabetismo funzionale, che già in Italia ha raggiunto livelli allarmanti.

Gli esperimenti più nascosti riguardano i gusti e le tendenze commerciali

Quindi ogni volta che partecipi a un test tipo “cosa farò da grande” o “quale personaggio storico sarei” o, ancora, “chi ero in una vita precedente”, sappi che Facebook o aziende controllate, stanno studiando i tuoi comportamenti, i tuoi gusti e le tue tendenze. Perché? Per capire chi sei, cosa fai, cosa ti piace, per chi voteresti (esperimento già fatto nel 2010, con successo, e per cui le influenze sono state significative negli USA…), che gusti sessuali hai, come ti poni con la gente, ecc. Tutto nel nome del “sano divertimento social”, che per te è inoffensivo, certo, ma per loro rappresenta una forma di guadagno, di controllo e di influenza, commerciale e soprattutto politica.

Quindi se ti dichiari antisistema, ma poi partecipi a questi test (inconsapevolmente, ovvio), sappi che sei ben integrato nel sistema e ne esci fuori solo in un modo.

Uscite dai social!

facebook social exit

Uscite dai social non è un’esortazione, perché so benissimo che – almeno nel breve e medio periodo – ciò non accadrà e che ormai siamo tutti assuefatti dalla droga sociale e dal nostro alterego virtuale che ci consente di buttare sui Social tutte le nostre inadeguatezze reali e di crearci un personaggio, più o meno credibile e famoso.

Io, per esempio, non ci sto più. Sopravvivo solo su twitter, consapevole che, purtroppo, è un modo per far conoscere i miei quattro articoli ai miei quattro lettori.

Tra l’altro sappiamo tutti benissimo che la fama sui Social non corrisponde né alla fama reale né ad un nostro appagamento spirituale (né tanto meno materiale…), però anche questo fa parte della pia illusione – tutta moderna – che l’apparire virtuale conta più dell’essere reale.

Uscire è l’unico modo per salvarci

Uscite dai Social non è un’esortazione, è solo la lucida consapevolezza che è l’unico modo per salvarci, per smettere di essere cavie, per finirla di essere influenzati, per tornare ad essere persone e non prodotti e, per l’effetto, per ripristinare – questo sì nel lungo periodo – quel minimo di socialità e senso critico che ci consentirà, un giorno, di riprendere in mano le sorti del nostro Paese e di tornare a leggere, informarci e discutere faccia a faccia, magari arrabbiandoci a voce alta (e non pigiando con forza sulla tastiera e reprimendo quella rabbia annebbiata dalla luce del pc o del telefono).

Insomma, di tornare a quella vita reale fatta di scelte consapevoli che i cosiddetti nativi digitali non riescono nemmeno ad immaginare. Ma ciò non vuol dire abbandonare internet, semplicemente vuol dire abbandonare i Social, che di sociale – francamente – hanno un bel nulla e che ci stanno facendo dimenticare – a poco a poco – la vera socialità, quella fatta di sguardi, parole, toni e gesti che rappresentano la vita vera.

Quella vera, non quella che passiamo rincoglioniti davanti ad uno schermo, illudendoci di essere connessi col mondo ma in cui siamo solo prodotti marci, da svendere al primo inserzionista di turno, per venderci cazzate che non ci servono o per estorcerci (volontariamente, ma in modo indotto) voti e consensi, modificando, senza che noi ce ne accorgessimo, pensieri, ragionamenti, sogni e illusioni.

Il tutto mentre clicchiamo sull’ennesimo like o postiamo il buongiorno caffè? a un contatto, amico e compaesano, che non sa nemmeno chi cazzo siamo. Lui non lo sa, ma un tizio, dall’altra parte del Mondo, lo sa benissimo. E si sfrega le mani.

La guerra calda tra Usa e Russia

putin assad trump Usa e Russia

Il Congresso USA approva nuove sanzioni contro la Russia, Putin risponde cacciando via 755 diplomatici e impiegati dell’ambasciata americana in Russia (su 1210), mettendosi così in pari con gli USA (455 sono i diplomatici e impiegati russi negli USA) e gli inizi di un agosto così rovente sul piano climatico e geo-politico ci regalano l’ennesimo teatro della guerra calda tra Usa e Russia. Calda come il sole d’agosto al mare, che ti scotta, ti arrossisce e ti spella. Ebbene, sul piatto della bilancia abbiamo diversi attori, tutti protagonisti di una fiction che, secondo alcuni, potrebbe condurci verso una guerra cruenta con la Russia da un lato e l’Europa (quasi) tutta schierata con gli USA dall’altro.

Ma andiamo con ordine e vediamo che è successo.

Gli USA sanzionano la Russia

Pochi giorni fa il Congresso degli Stati Uniti d’America ha votato, quasi all’unanimità, una mozione per inasprire le sanzioni economiche verso la Russia, introdotte dopo l’annessione della Crimea del 2014, ciò per 3 motivi: il primo è perché, secondo loro, il Cremlino avrebbe interferito nelle elezioni politiche del 2016 (quelle che hanno portato alla vittoria di Trump); il secondo per l’annessione della Crimea alla Russia (cosa che agli USA non è mai scesa); il terzo per la guerra in Siria. Mo’ vediamo tutto con ordine. Sta di fatto che Trump tra pochissimo sarà costretto a firmare perché è vero che è fesso, ma sa che se non firma, può dire addio alla Casa Bianca, così, di colpo. In realtà Trump non sa che fare, fosse per lui porrebbe un veto nei confronti del Congresso, ma non può, altrimenti sarebbe tacciato di russiafilia (e gli contesterebbero di nuovo il russiagate), mentre gli USA – si sa – sono russiafobici e quindi ogni scusa è buona per inasprire i rapporti con la seconda superpotenza del Mondo. Ma vediamo i tre motivi che hanno spinto il Congresso a questa scelta.

Il russiagate

Secondo loro le elezioni statunitensi sono state influenzate dalla Russia, da qui è nato il nome russiagate (interferenze russe nelle ultime presidenziali statunitensi). Peccato che si tratti solo di enormi cazzate. Nessuno, finora, è stato in grado di fornire uno straccio di prova che dimostri le interferenze russe nella scelta del Presidente degli USA. Insomma, è solo fantasia statunitense, la stessa che ha portato a innumerevoli guerre (insensate) nella storia.

Crimea e Ucraina

La Crimea è una Regione dell’Ucraina. Dopo la rivoluzione arancione, a seguito del proliferare di gruppi neo-fascisti, pronti ad entrare in Europa, il popolo della Crimea, con referendum, ha scelto di essere annesso alla Russia e, quindi, di staccarsi dall’Ucraina. Né la NATO né l’UE hanno legittimato il referendum (cioè uno strumento democratico che legittima una scelta popolare) e quindi la Russia è andata in soccorso alla Crimea schierando le proprie forze armate. Quest’atteggiamento dispotico non è sceso alla comunità internazionale (in particolare ad USA, Francia e Inghilterra…), che hanno contestato le decisioni del Cremlino, chiedendo, quindi, di apporre pesanti sanzioni alla Russia. In poche parole è come se in una famiglia di divorziati una bambina, molestata dal padre, decidesse di andare a vivere con la madre e il giudice l’ammonisse dicendo che la sua scelta è scorretta e che deve continuare a vivere con il padre molestatore!

La guerra in Siria

Il discorso qui è semplice, anche se spesso viene incasinato dai media. La guerra in Siria inizia nel 2011, con la maledetta Primavera Araba, un movimento spontaneo (seh, seh, proprio…) con l’obiettivo di capovolgere i regimi, ma di fatto pilotato e finanziato dalla NATO. Da allora ad oggi la Siria è stato teatro di guerre cruente tra la popolazione, i terroristi e le due superpotenze: USA e Russia. Entrambe dicevano di voler sconfiggere l’ISIS, ma di fatto gli USA volevano sbarazzarsi di Assad, mentre la Russia lo difendeva. Assad, proprio come Saddam Hussein e Gheddafi, è un dittatore. Ma, a quanto ne sappiamo, è sempre stato un dittatore che ha saputo gestire il proprio paese. Certo, è un dittatore, ma non è molto diverso dai Presidenti USA che si alzano un giorno la mattina e iniziano a far guerre nel mondo…

Sta di fatto che gli USA sono convinti che Assad abbia le famigerate armi chimiche (madò! che scusa del cazzo, non avete proprio fantasia…) e che le abbia usate per attaccare Khan Sheikhoun. La Russia, alleata con Assad (perché in Siria ha diversi interessi economici) dice di no. Gli USA e la NATO dicono di si. E qui scoppia il casino. Putin difende Assad, che dice di non avere armi chimiche, mentre Trump dice di sì. Però possiamo fidarci degli USA? Ecco le ultime cazzate sparate dagli USA per giustificare le proprie guerre:

Numero 1. La guerra in Iraq. Correva l’anno 2003. L’allora Segretario di Stato Colin Powell, presso l’Onu, agitava una fialetta contenente, secondo lui, un veleno militare potentissimo in possesso degli iracheni. Nonostante i dubbi da tutto il mondo, il 20 marzo 2003 gli americani, con Francia e Inghilterra, attaccavano l’Iraq. Poi si scoprirà, dopo l’uccisione di Saddam (con un processo farsa sommario e vergognoso) che l’Iraq non ha armi chimiche manco per il cazzo e infatti, nel 2016, Blair, dopo un lungo processo, si scuserà perché non esistevano prove della presenza di armi chimiche in Iraq. Eh? Ma siamo impazziti? Te ne esci così, bello bello? Una comunità internazionale seria ti avrebbe già sbattuto in galera, tu e quel criminale di Bush.

Numero 2. La guerra in Libia. Correva l’anno 2011. Secondo una fonte poi rivelatasi inattendibile e sempre a causa della stra-maledetta Primavera Araba, Gheddafi stava facendo mattanza delle popolazioni di Tripoli e Bengasi. La realtà è che Francia, Inghilterra e USA volevano trovare un pretesto per accaparrarsi i giacimenti di petrolio e gas naturale della Libia, ma non sapevano come fare. E quindi convincevano la NATO che bisognava intervenire. Faranno solo un gran casino, quel casino che noi italiani ora stiamo vivendo con il dramma degli sbarchi e che i poveri libici vivono quotidianamente con le guerre tribali (che Gheddafi seppe gestire egregiamente). Le notizie si riveleranno false. Non c’è stato mai alcun attacco da parte di Gheddafi. Il risultato: un paese in lotta, con due governi, migliaia di morti innocenti e centinaia di migliaia di profughi che passano da quel Paese e che vengono trattati come schiavi. Però ora il risultato è che Macron può gestire la Libia come meglio gli pare.

La situazione attuale

Quindi come possiamo ora credere agli USA? Come possiamo credere che Assad stia facendo mattanza di civili usando armi chimiche? Putin lo sa ed è per questo che lo difende a spada tratta. Certo, se Assad stesse mentendo, Putin ci farebbe una figura di merda, ma – dati i precedenti – è molto più probabile che a mentire (e a fare future figure di merda, mai però sanzionate) siano gli americani, la NATO e, come sempre, Francia e Inghilterra.

E quindi siamo a oggi. Oggi che Putin, per rispondere alle insensate sanzioni statunitensi, caccia via i diplomatici americani dal territorio russo. Dovranno andar via entro i primi di settembre, a meno che Trump non si metta contro il Congresso e non avvii tentativi diplomatici con il Cremlino.

Una cosa però è certa: da queste tensioni diplomatiche non ne scaturirà una nuova guerra, almeno non una guerra fatta di bombe, armi chimiche, morte e distruzione. La guerra tra gli USA e la Russia è sì calda, ma non calda di bombe, è calda di rapporti diplomatici. Sia Putin che Trump sanno benissimo che – qualsiasi cosa accadrà – nessun missile colpirà il territorio nemico, perché altrimenti si aprirebbe il vaso di Pandora e gli altri nemici dei due Paesi – dichiarati o nascosti – si sentirebbero legittimati a partecipare, ma soprattutto perché gli interessi economici sono preminenti rispetto a quelli bellici. Nessuno dei due Paesi vuole una guerra vera e diretta, semmai il territorio dello scontro tra i due sarà il Medioriente, in particolare la Siria, che rappresenta un boccone geo-politico troppo importante nello scontro tra le due superpotenze, almeno finché Assad resterà fermamente alleato della Russia. Poi si vedrà. Peccato che è quasi impossibile fare previsioni, perché se è vero che la Russia lascia intendere le sue mosse, l’America, con un Trump ballerino e schiavo del Congresso, non ci fa capire le sue intenzioni. Ma forse non le conosce nemmeno lui.