Il Mercato degli Eventi e l’egemonia sul Folklore

Antonio Gramsci egemonia e folklore

Il Folklore (o cultura popolare) rappresenta il sapere, stratificato in migliaia di anni e trasmesso oralmente dalle classi subalterne ed è l’unico strumento che il Popolo ha per difendersi dall’egemonia culturale delle classi dominanti. E’ un Patrimonio ricco di musiche e canti, detti e racconti, saperi e tecniche, fiabe e leggende che rappresenta l’architrave del Patrimonio immateriale dell’Italia de le molte genti. E’ talmente importante e delicato che personaggi come Antonio Gramsci, Ernesto de Martino, Alberto Mario Cirese, Gianni Bosio, Rina Durante e tanti altri hanno dedicato una vita per ridargli dignità e studiarlo con metodologie scientifiche in modo da comprenderne l’importanza nella costruzione di una cultura europea e nella consapevolezza del rifiuto della pretesa di ricondurre le diversità culturali a una matrice unitaria, nella negazione dell’esistenza di valori assoluti comuni a tutte le culture e nel rifiuto dell’etnocentrismo in quanto attribuzione illegittima di un valore privilegiato a una cultura particolare.

Lo sforzo compiuto da questi intellettuali è stato immane, perché per secoli – e in parte ancora oggi – la cultura popolare è stata vista come un aspetto pittoresco proveniente da una sub-cultura povera, frutto di concezioni parziali e incolte del mondo e retrograda perché espressa da strati sociali privi di istruzione. Gramsci invece capovolge completamente questa concezione e rinviene, nella cultura popolare, il leit-motiv per riattribuire al Popolo quella dignità perduta, per ridare importanza a quella filosofia spontanea che, come scrive lo stesso Gramsci, si rinviene nel linguaggio stesso, che è un insieme di nozioni e di concetti determinati e non già e solo di parole grammaticalmente vuote di contenuto; nel senso comune e buon senso; nella religione popolare e anche quindi in tutto il sistema di credenze, superstizioni,opinioni, modi di vedere e di operare che si affacciano in quello che generalmente si chiama “folklore”.

Antonio Gramsci fu quindi il primo intellettuale a occuparsi del folklore in modo scientifico e a trattare la Cultura popolare come un elemento critico e alternativo alla cultura dominante, non in chiave conservativa, come mera teca da museo, ma in chiave progressista, come elemento essenziale per la comprensione del Popolo e per la sua rappresentatività socio-culturale, infatti nelle sue osservazioni sul folklore, scriveva che quest’ultimo non dev’essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio. In altre parole Gramsci studiò la Cultura popolare, tra cui i canti, le musiche, la poesia vernacolare, il linguaggio e tutti gli altri aspetti che compongono il folklore e lo riannesse all’interno della Società, spostandolo da un terreno estetico-letterario a uno socio-culturale, oppure etno-antropologico, quindi contestualizzando la Cultura popolare in chiave storicistica e sociale. La sua operazione di attribuzione della dignità alla cultura popolare fu innovativa e aprì numerosi scenari alla scienza antropologica negli anni a venire.

Insomma, il folklore è importante perché rappresenta una diversa concezione del Mondo, spontanea e lontana da quella cultura egemonica che viene imposta e che il popolo non sente come propria, ma subisce l’inculturazione attraverso l’istruzione scolastica (il ché sarebbe il male minore), i media, le mode e l’appiattimento culturale globale studiato a tavolino al fine di attuare politiche commerciali di massa.

Il folklore ha appunto, secondo Gramsci, questa funzione di contrapposizione: grazie ad esso gli «strati inferiori» della piramide sociale si rendono parzialmente in grado di resistere alle influenze delle filosofie «superiori» e di formularne una critica «rozza». Attraverso il folklore si esprime ciò che potremmo chiamare una pre-coscienza o una coscienza «diffusa» degli elementi incolti della società, costituita da strati sovrapposti formatisi nel corso della storia e dalla giustapposizione di elementi di attualità (ogni strato è una resistenza che viene opposta alle diverse filosofie che si sono succedute nel corso dello sviluppo storico). Di qui, la fisionomia spuria, arcaica e incoerente con cui il folklore si presenta e con la quale gli studiosi si scontrano.

Del resto anche Carlo Levi e Ignazio Silone scrissero che la storia ufficiale, quella cultura dominante che impone ai contadini e ai cafoni regole incomprensibili e lontane da quelle regole della Natura e della Storia tipiche della Cultura popolare, sono storie altrui, che nulla c’entrano con la millenaria storia di popoli vissuti da sempre – e per sempre – seguendo regole cicliche e naturali, rispettando le leggi di una tradizione persa nel tempo e ragionevole e comprensibile, perché immutabile e naturale. Come si può comprendere ciò che non si conosce, ciò che rispetta regole opposte? I cafoni osservano da tempo regole che i cittadini non sentono proprie, perché lontani dallo scorrere regolare delle stagioni, dagli asti dovuti al naturale susseguirsi degli eventi, così come i cittadini osservano leggi positive, che comprendono perché ragionevoli in base a ciò che i sovrani – o gli stati, le dittature o le democrazie rappresentative – impongono e diffondono. Sono due culture inconciliabili, ma non per questo una è superiore all’altra.

L’UNESCO e la tutela del Patrimonio Culturale Immateriale

UNESCO_logo

Gramsci non ha vissuto l’epoca della globalizzazione, ma il suo pensiero è ancora attuale e si adatta anche alla concezione del local inteso come contrapposizione al modello globalista ed espressione viva delle identità locali, quindi, in ultima analisi, quale espressione culturale subalterna al pensiero dominante, a quel pensiero che appiattisce le diversità e impone le uguaglianze. La stessa operazione – appunto per salvaguardare le diversità – è stata fatta, per decenni, dall’UNESCO, che, sin dal 1989, con la Raccomandazione sulla salvaguardia della cultura e del folklore, ha espresso preoccupazione per la progressiva scomparsa del Patrimonio Culturale immateriale – cioè il folklore, e ha chiesto agli Stati firmatari di porre in essere tutte le misure idonee e necessarie al fine di salvaguardare le espressioni culturali folkloriche perché fanno parte del patrimonio universale dell’umanità e che sono un potente mezzo di riavvicinamento dei diversi popoli e gruppi sociali e di affermazione della loro identità culturale.

Poi, a partire dal 1997 l’UNESCO è andato sviluppando una particolare attenzione per il patrimonio culturale immateriale (Intangible Cultural Heritage), per il quale ha costituito, all’interno della Divisione del patrimonio culturale, una sezione appositamente dedicata (Section of Intangible Heritage). A partire dal 1998 l’UNESCO ha intrapreso una serie di azioni concrete in questo settore con il progetto Preserving and revitalizing our Intangible Heritage, articolato in diverse azioni: Masteripieces of Oral and Intangible Heritage of Humanity riguarda i patrimoni orali e immateriali dell’umanità meritevoli di riconoscimento; Living Human Treasures promuove i depositari di saperi e tecniche trasmesse oralmente (artigiani, artisti, etc.); Endangered Languages pone l’attenzione sulle lingue a rischio di estinzione; Traditional Music of the World pubblica i dischi dedicati alle culture musicali mondiali.

Nel novembre 2001, inoltre, l’UNESCO ha adottato la Dichiarazione universale sulla diversità culturale, affermando che la diversità culturale è essenziale per l’umanità come lo è la biodiversità per la natura. Anche in questo caso, l’UNESCO ha ribadito la necessità di approntare gli strumenti più adeguati, da parte degli Stati aderenti, per la conservazione e lo sviluppo del patrimonio culturale, sia materiale che orale, nonché il rispetto e la protezione dei saperi tradizionali.
Nel 2003, poi, l’UNESCO ha emanato la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale in cui ha consacrato la necessità di salvaguardare le espressioni culturali immateriali popolari in modo più maturo e preciso, definendo patrimonio culturale immateriale “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana (…)”.

E’ evidente, da questa sommaria analisi, l’importanza che assume il Patrimonio Culturale immateriale del folklore per lo sviluppo delle Culture mondiali (il plurale è d’obbligo) e per il naturale svolgersi delle formazioni sociali in cui le personalità individuali si dipanano e trasmettono alle generazioni future quel know-how ricco di storia stratificata e di conoscenze naturali ma sempre a un passo dall’estinzione, schiacciato com’è dalla cultura egemonica, mondialista e globalista, cultura foraggiata e sostenuta dai media e dal mercato globale.

Gli anni d’oro del folklore

Rina-Durante
Rina Durante, intellettuale salentina, ricercatrice e fondatrice di uno dei pochi gruppi oggi rappresentativi della concezione folklorica di gramsciana memoria: il Canzoniere Grecanico Salentino (attivo dal 1975)

E’ evidente che in un secolo di attività etno-antropologica la cultura popolare è riemersa e gli è stata attribuita quella giusta dignità come elemento non solo di memoria del passato, ma anche di espressione viva del presente in antitesi alla cultura dominante e piatta tipica del modello global.

Sin dagli anni Cinquanta, mentre si sviluppava la Questione Meridionale, numerosi antropologi, etnomusicologi ed intellettuali ponevano le basi per la creazione di una coscienza popolare attraverso il riaffiorare di musiche e canti, in chiave anti-sistema o, per meglio dirla, in chiave pro-diversità. Erano gli anni in cui, attraverso la musica, si creava una coscienza di classe, una coscienza popolare, un modo come un altro per attribuire al Popolo quella dignità perduta e nascosta sotto le ceneri di una cultura dominante che beffeggiava gli ignoranti, i cafoni, i contadini, quella fetta di popolo priva di cultura accademica ma ricca di cultura del vivere. In quegli anni si cercò di rimettere in vita quella filosofia spontanea di gramsciana memoria. E ci riuscirono. Difatti per tutti gli anni Sessanta e Settanta intellettuali come Gianni Bosio, Caterina Bueno, Giovanna Marini, Diego Carpitella ripresero i canti popolari italiani e gli attribuirono quella dose di culturalità che avevano smarrito negli anni precedenti.

Il canto

Cantori_di_Carpino
I Cantori di Carpino

Il canto rappresenta la più alta forma di espressione culturale immateriale. E’ il modo più veloce e compiuto di diffondere concetti, storie, notizie, una coscienza collettiva e un fare comunità che nessun’altra forma immateriale può esprimere.

Se torniamo a Gramsci, possiamo capire esattamente cos’è il canto popolare. A scanso di equivoci, soprattutto per coloro che ritengono che popolare (o folk) è solo il canto creato dal popolo per il popolo o quello che si completa solo nelle musiche locali, va invece detto che il canto popolare è quello in cui il popolo stesso si riconosce, al di là della lingua utilizzata (dialetto o lingua nazionale) o della melodia (non importa se locale o classica o, ancora, priva di accompagnamento musicale). Secondo Gramsci, seguendo una divisione o distinzione dei canti popolari formulata da Ermolao Rubieri, troviamo questi canti:

  • i canti composti dal popolo e per il popolo;
  • quelli composti per il popolo ma non dal popolo;
  • quelli scritti né dal popolo né per il popolo, ma da questo adottati perché conformi alla sua maniera di pensare e di sentire.

“Mi pare che tutti i canti popolari, aggiunge Gramsci, si possano e si debbano ridurre a questa terza categoria, poiché ciò che contraddistingue il canto popolare, nel quadro di una nazione e della sua cultura, non è il fatto artistico, né l’origine storica, ma il suo modo di concepire il mondo e la vita, in contrasto colla società ufficiale: in ciò e solo in ciò è da ricercare la «collettività» del canto popolare, e del popolo stesso. Da ciò conseguono altri criteri di ricerca del folklore: che il popolo stesso non è una collettività omogenea di cultura, ma presenta delle stratificazioni culturali numerose, variamente combinate, che nella loro purezza non sempre possono essere identificate in determinate collettività popolari storiche: certo però il grado maggiore o minore di «isolamento» storico di queste collettività dà la possibilità di una certa identificazione”.

Grazie alle chiarificazioni concettuali espresse da Gramsci e allo sviluppo della scienza antropologica, numerosi intellettuali iniziarono una raccolta metodologica di tutti i canti popolari, indipendentemente dal valore artistico-musicale, che poi, negli anni, diffusero nel mondo musicale italiano. Erano gli anni d’oro perché cantautori come Fabrizio De Andrè, Francesco De Gregori, Francesco Guccini, Giovanna Marini, Caterina Bueno e tanti altri aderirono a tale concezione e costruirono un’intellighenzia basata sulla diffusione del canto popolare e sullo studio metodologico delle musiche, tonalità, tecniche corali, ossia un’impressionante mole di diversità musicali che persino personaggi come Tito Schipa, già prima di loro, vollero approfondire perché i canoni musicali popolari erano lontanissimi da quelli canonici e ufficiali. Nei decenni a venire – e siamo già negli anni Ottanta e Novanta – la musica popolare si strutturò nel Meridione, precipuamente nel Salento, dove trovò terreno fertile grazie a intellettuali come Rina Durante che, sin dagli anni Settanta, s’impegnò nella riemersione del canto popolare. Quelli erano anche anni in cui – in tutta Italia – iniziava l’interesse, da parte del mercato culturale, verso gli eventi folk. Non a caso nel 1986 nacque il festival di musica popolare di Forlimpopoli, nel 1991 l’Isola Folk di Bergamo e nel 1998 la Notte della Taranta.

La Notte della Taranta nel 1998. Che differenza c’è rispetto a quella attuale?

Fino alla fine degli anni Novanta il folk revival (così fu definito da numerosi intellettuali) si sviluppò al punto tale da stuzzicare l’interesse di numerosi antropologi e studiosi di tutto il Mondo che – attratti dall’imponente rinascita del folklore locale – iniziarono una fiorente letteratura sul tema, tanto che, fino ai primi anni Duemila, si scrisse tanto e si discusse tanto sui motivi per cui – soprattutto nel Meridione – la musica popolare riscosse tanto successo non solo tra gli operatori del settore, ma anche nel grande pubblico. I motivi erano al contempo complessi e banali: la riscoperta delle origini, del Patrimonio sepolto, dei saperi antichi andavano di pari passo con la prepotente espansione del modello globalista, quasi in una sorta di antitesi e resistenza popolare al dilagare di una cultura che il popolo non sentiva propria e che, indagando nella propria storia, si riconosceva in ciò che il territorio, per secoli, ha trasmesso e ha lasciato in eredità: storie, tecniche, saperi, racconti, proverbi, cucina, ma soprattutto musiche e canti.

Il modello globalista ed egemonico del mercato degli eventi e del turismo di massa

Nell’ultimo decennio, però, qualcosa è cambiato. Il mercato degli eventi ha incontrato la musica popolare e, sotto gli occhi distratti degli appassionati e dei riscopritori, ha iniziato un lento ma inesorabile processo di disgregazione del Patrimonio culturale immateriale. Ad accorgersi di ciò, com’è prevedibile, sono stati gli intellettuali che, sin da subito, hanno lanciato allarmi circa l’importanza di procedere alla tutela del Patrimonio immateriale per evitare che possa estinguersi sotto i colpi del crescente turismo di massa e del sempre più pressante mercato degli eventi.

In effetti ciò che, fino a pochi anni prima, veniva definito turismo etnico o culturale, fatto di gente che si recava nei luoghi vivi della tradizione al fine di assistere a manifestazioni pulsanti di musiche e canti popolari, in pochi anni si è tramutato in turismo di massa, fatto di gente a cui non interessa affatto l’aspetto culturale, ma solo il divertimento quotidiano e feroce e che – per passione, moda o diletto – pretendeva di assistere quotidianamente a manifestazioni musicali divertenti e ballerecce. Le comunità locali, da un lato impreparate all’invasione e dall’altro poco propense a strutturare l’offerta turistica perché frammentate e storicamente tendenti ad approfittare del momento in ottica epicurea e poco lungimirante, si divisero tra chi (pochi) non accettava la svendita del Patrimonio Culturale e chi (i più), invece, propendeva per facili guadagni con pochi investimenti. Del resto il mercato globale degli eventi è ben capace di raggirare chi non ha il giusto humus culturale per potervi resistere.

E infatti negli anni si sono moltiplicati gruppi di riproposta, corsi improvvisati di musiche e balli popolari in tutta Italia, ballerini, nonché sagre e festival, spesso nati dal nulla e spacciati come tradizionali, tutto al fine di accontentare il mercato turistico di massa. La presenza di numerosissimi musicanti e insegnanti di musiche e balli (spesso improvvisati e senza formazione culturale) ha chiaramente aumentato la curva dell’offerta con conseguente riduzione del valore, portando quindi ad una forte concorrenza basata su bassi compensi e alta presenza di musiche e canti ballabili.

Le conseguenze sono state numerose, tra cui:

  • la progressiva inumazione dei canti tipicamente popolari, ossia di quei canti che il popolo riconosce nella propria concezione del mondo e dell’attualità, quindi scomparsa di canti di denuncia, di storie e racconti attuali, di canti di lavoro, di protesta, di canti volti a diffondere una coscienza sociale. Non è un caso – faccio una breve digressione, poi ne parlerò più diffusamente avanti – che spettacoli come la Notte della Taranta non diano voce alle pressanti richieste del territorio di denunciare gli scempi ambientali e di raccontare la realtà attuale;
  • l’aumento eccessivo di ballatori (non ballerini) e musicanti (non musicisti) che, basandosi non sulla memoria, ma su arrangiamenti che funzionano e che vendono, propongono cover ormai prive di senso di canti e musiche ballabili, fatte da altri gruppi di riproposta, come una fotocopia di una fotocopia di una fotocopia dell’originale (sempre se si possa parlare di originalità nella cultura popolare);
  • l’aumento eccessivo di ritrovi e feste popolari, secondo lo schema imitativo di grandi eventi che funzionano e che attraggono gente, quindi sagre o feste inventate di sana pianta che spesso si accavallano a quelle tradizionali (quelle che, ricordo, secondo l’UNESCO devono essere tutelate) e che ne disgregano la funzione e il contenuto;
  • la concezione per cui la musica popolare non è un bene comune, ma un elemento commerciale come qualsiasi altro, da sfruttare. In base a tale concezione si verificano, poi, casi come quello per cui diversi musicanti e ballatori snobbano le feste tradizionali, vive (che necessitano di tutte le energie possibili per restare tali) per suonare in contesti avulsi, sotto spinte commerciali.
  • l’evidente aumento di suonatori spontanei (causati da corsi di musicanti improvvisati) che, in eventi orizzontali (cioè senza palchi), ossia l’anima pulsante delle musiche popolari, ne rovinano l’esecuzione impoverendone gli stili e le tecniche.

Tale fenomeno ha schiacciato in qualche modo le poche feste e i pochi ritrovi rimasti vivi, tanto da suscitare l’indignazione e l’accorato appello alla tutela dei ritrovi musicali tradizionali.

Così scrive Roberta Tucci, in Come salvaguardare il patrimonio immateriale? Il caso della scherma di Torrepaduli: “A Montemarano i suonatori della tarantella non permettono a chiunque di unirsi a suonare con loro durante il carnevale: se mai, concedono tale “onore” solo a persone scelte da loro stessi, con le quali hanno da tempo costruito un rapporto personale e di cui si fidano sul piano musicale. Del resto, a chi verrebbe in mente di inserirsi, con il proprio strumento musicale o con la propria voce o con il proprio corpo, in un contesto culturale “ufficiale”, quale può essere un concerto (di un’orchestra, di una banda, di un gruppo rock), o uno spettacolo di danza e di teatro? Perché, invece, gli spazi della cultura “popolare” possono venire tranquillamente occupati, senza neanche chiedere il permesso?” 

Il caso del Salento ha quindi allarmato gli operatori del settore in quanto la crescente attenzione turistica non solo ha rovinato la tradizione viva, congelandola e impedendone la naturale evoluzione, ma ha creato modelli intimamente globalisti imitati anche da altri territori, con conseguente depauperamento delle espressioni folkloriche locali. E’ il caso di alcune zone della Sicilia, dove – per imitare festival come la Notte della Taranta – si oscura il ricco patrimonio musicale locale.

Caso emblematico: il folklore e La Notte della Taranta

Notte della Taranta e folklore

Quando il Festival della Notte della Taranta compì i primi passi volti a diffondere la musica popolare salentina nell’incontro con musiche altre, si progettò – accanto al festival – la creazione dell’Istituto Diego Carpitella, il quale aveva il compito di raccogliere, tutelare e valorizzare il complesso Patrimonio folklorico locale. Inutile dire che ha funzionato solo negli anni d’oro (pochi, a cavallo tra la fine del Novanta e i primi del Duemila). Anche con l’istituzione della Fondazione Notte della Taranta, le finalità di salvaguardia furono ribadite solo a parole, ma ad oggi non si conoscono le finalità culturali della Fondazione se si escludono pochi studi fatti in collaborazione con alcune Università, non sull’aspetto culturale ma sull’aspetto economico del Festival (è sufficiente dare un’occhiata al sito web, dove di cultura non v’è menzione), tant’è che, dopo numerose richieste sempre inascoltate, l’antropologo Eugenio Imbriani lasciò la Fondazione.

Ad ogni modo il merito della NdT è stato quello di diffondere globalmente la musica popolare salentina (per lo più quella ballabile, trascurando il resto), ma ha contribuito – in apparenza paradossalmente – all’appiattimento culturale del Patrimonio folklorico, incanalando le espressioni musicali folkloriche nel mercato globale degli eventi. In altre parole, tutti gli sforzi compiuti in un secolo di scienza antropologica volta a riattribuire al popolo la propria musica, in chiave antisistema e identitaria, sono stati sconfessati da grandi festival (la NdT in primis) che invece hanno, a piè pari, consegnato alla cultura egemonica le diversità musicali, impoverendole e congelandole in teche da museo, anzi, in disco-teche.

L’importanza che assumono i gruppi di riproposta nella salvaguardia, valorizzazione e promozione del Patrimonio del folklore locale

La colpa (se di colpe si può parlare) però, non è solo della NdT, la quale deve necessariamente rispondere a logiche commerciali e fare numeri, per potersi inserire nel mercato globale degli eventi; la colpa è anche degli operatori del settore, ossia di gruppi di riproposta, appassionati e intellettuali che – oggi – non sono in grado di riannodare i fili col passato e riprendere, con coraggio e consapevolezza, il ricco patrimonio culturale, facendolo proprio ed evolvendolo. A parte poche eccezioni, molti operatori del settore diventano così inconsapevoli schiavi del sistema degli eventi, quindi schiavi della cultura egemonica e, per pochi soldi, acconsentono a svendere il proprio patrimonio musicale.

Sia chiaro, non è un problema di cachet. Ogni musicista può scegliere di farsi pagare come vuole, è un problema di paternità. La cultura popolare è la cultura del Popolo, è la conoscenza trasmessa dai nostri avi e che bisogna custodire e tramandare, non appartiene a chi la suona. Chi la suona ne è custode e non proprietario. Ed è per questo motivo che i primi responsabili dell’affossamento delle culture popolari e della consegna del popolo alla cultura dominante e globalista sono gli stessi che suonano inconsapevolmente sui palchi, per quattro spicci, tradendo così la propria storia.

Parafrasando R. Tucci, bene fanno coloro i quali sono gelosi custodi del proprio Patrimonio, bene fa quella popolazione che impedisce a chiunque di inserirsi in contesti musicali, se privo di consapevolezza o se sconosciuto, per rovinarne l’esecuzione e soprattutto bene fa quella popolazione che acconsente di suonare sui palchi la musica popolare se non col contagocce, se non dopo un percorso di presa di coscienza dell’importanza di tali musiche. Il punto, attenzione, non è se sia bene o meno suonare sui palchi (anche se la musica popolare è in antitesi con tale concezione), ma come lo si fa, con quale spirito e con quale livello di conoscenza, ma soprattutto con quale intenzione di raccontare, spiegare e diffondere il significato di tali musiche e canti.

Le questioni sociali e la musica popolare

Quello che Gramsci ha messo maggiormente in evidenza nei suoi studi sul folklore è la funzione del racconto popolare, soprattutto attraverso il canto. Nel canto si raccontano storie e si trasmette, criticamente, la propria concezione del mondo, in modo da partecipare attivamente alla storia del mondo, essere guida di se stessi e non già accettare passivamente e supinamente dall’esterno l’impronta alla propria personalità. Dunque la funzione del canto è di trasmettere storie, informazioni e creare una coscienza popolare.

A ben vedere, tutti i canti popolari hanno avuto, in passato, questa funzione che Gramsci ha lucidamente riconosciuto e ha fatto riemergere al fine di costituire una cultura sub-alterna contrapposta a quella dominante. Ma negli ultimi anni pochissimi sono stati gli esempi di musicisti (o meri appassionati) che hanno riscritto la musica popolare e adattata ai tempi attuali. Il caso del Salento – ancora una volta – è emblematico di questa dicotomia tra memoria stantia e adattamento concettuale di musiche e canti popolari. Molti – forti dell’esempio della NdT – hanno concentrato la propria attenzione sul rinnovamento degli arrangiamenti, in modo da adattare la musica del folklore locale ad altri stili musicali, quasi in una sorta di complesso di inferiorità per cui la musica popolare, di per sé, alla lunga può stancare. E infatti stanca a tal punto che è sopravvissuta – evolvendosi – per migliaia di anni.

Altri artisti hanno invece, con fatica, adattato l’impianto musicale tradizionale ad esigenze nuove, in forma di denuncia, riscatto, racconto di storie attuali, ma gli viene impedito, in grandi eventi, di professare le proprie idee. E infatti non si può sottacere che – ormai da diversi anni – manifestazioni come la Notte della Taranta, accanto a molti organizzatori di eventi, osteggiano quei gruppi sociali che vorrebbero ottenere voce da eventi mediatici così importanti per porre all’attenzione del grande pubblico tematiche sociali attuali e scottanti, quali lo scempio ambientale, denunciando opere impattanti sul territorio quali il gasdotto TAP, l’avvelenamento delle falde acquifere, la presenza di petrolchimici, acciaierie e centrali elettriche che deturpano l’ambiente e danneggiano la salute pubblica e tante altre tematiche che – secondo una legge naturale e storicistica – sarebbero proprie delle culture popolari e che ne rappresentano l’intima essenza.

Se Gramsci fosse vivo oggi direbbe che il folklore è regredito di nuovo a mera spettacolarizzazione pittoresca di fantasmi del passato ormai morti e privi di senso, che la cultura dominante ha sotterrato la cultura popolare, piantando il proprio vessillo sulle ceneri fumanti di memorie ormai stantie e prive del loro significato più vivo e che la tradizione, così com’è ora, è solo mero servilismo a logiche egemoniche, nell’illusione per cui la tradizione è l’espressione di un’identità locale ma dominata da un’unica cultura globale.

Forse Gramsci non userebbe parole così banali, ma il concetto resta: la tradizione e le espressioni musicali del folklore attuale non rappresentano più alcuna concezione del ruolo del popolo nella storia e nell’attualità. Il popolo, oggi, si è asservito alla cultura egemonica e chi canta sui palchi nemmeno se n’è accorto.

Emigrante

emigrante

Una poesia sull’emigrazione. Da Sud a Nord. Perché si è sempre più meridionali di qualcuno.

Emigrante

Valigia di cartone

e sguardo ramingo

tu poni le tue speranze

in terre nuove,

ricche di sogni

e di lavoro,

in americhe ostili

o fredda Europa.

Come quel nero africano

che, da Sud

sbarca su meridionali,

italici, lidi

alla ricerca di futuro

e dignità

tu volgi a Nord

la tua fiduciosa vista

e guardi con disprezzo

chi

più meridionale di te

solca sabbia

dalla tua giovinezza

calpestata

che tu, indifferente e grave,

lasciasti all’avverso destino.

Il Nord sognato e mai visto

ti si palesò ostile

tra strade ignote

e ignari soccorsi.

E mentre sguardi glaciali

e biondi capelli

ti schivano, schifati

tu, schiavo tra i servi,

in anni dominio,

di servitù vessato

al tuo loco tornato

tessi affrettati

e ingiusti giudizi

su chi, come te,

lasciò domestici lidi

per avventurarsi

in terre ostili

vagheggiando di lavoro

e dignità.

Madonna, la pizzica e il servilismo

madonna pizzica puglia 2017

Il 15 agosto Madonna ha compiuto 59 anni e ha deciso di trascorrere le vacanze e festeggiare il suo compleanno nello splendido scenario di Borgo Egnazia a Fasano, dove già c’era stata l’anno scorso e dove, a quanto pare, molti vip internazionali hanno fatto tappa in questi anni. Per il suo compleanno ha selezionato una dozzina di suonatori di tamburello al fine di intrattenere gli ospiti e festeggiare in modo tradizionale, ballando la pizzica-pizzica. E’ inutile dire che il video della sua performance ha fatto il giro del mondo e ha ottenuto numerosi plausi e anche qualche fischio.

Già, sono tanti quelli che l’hanno osannata (del resto è la regina mondiale del pop), ma anche molti l’hanno criticata. Perché? Perché non sa ballare la pizzica. E sti cazzi no? E’ ovvio che non la sa ballare e che – per festeggiare il suo compleanno – ha improvvisato qualche passo e si è lasciata andare in modo spontaneo.

madonna_pizzica_puglia_2017-3

madonna_pizzica_puglia_2017-4

Il punto, però, è un altro.

Madonna è una star internazionale e su questo non ci piove. Per lei hanno persino aperto la scalinata che conduce al campanile del Duomo di Lecce, chiusa da decenni per motivi di sicurezza, ma si sa che la notorietà ovvia a qualsiasi ordinanza di sicurezza, con ciò dimostrando che gli italiani – e in particolare i salentini – possono trascendere qualsiasi motivo pur di accontentare lo straniero, per di più se famoso.

Ma con la storia della pizzica suonata a Fasano, in occasione del compleanno della star, si è dimostrato tutto il servilismo e il lecchinaggio tipico di tanti abitanti del Sud del Sud d’Italia che, con un colpo di lingua, hanno affossato qualsiasi tentativo (vano, finora) di riattribuire alla musica popolare quella dignità perduta con la scomparsa della civiltà contadina e ripresa (a fatica) negli anni ’70 grazie a personaggi come Giovanna Marini o Rina Durante che hanno faticosamente (va ribadito) ripreso la musica popolare e riadattata in chiave anti-sistema. Gli sforzi di tanti intellettuali nostrani o stranieri di dare dignità alla musica popolare salentina si sono sciolti come neve al sole, in questi anni, grazie alla mercificazione, a buon prezzo, della pizzica (accostata alla taranta, come se fossero due generi, e nemmeno i suonatori sanno che la taranta non è un genere, ma solo un ragno. Epperbacco, studiate però!), svenduta in tutta Italia (e anche fuori) grazie a gruppi musicali improvvisati, corsi di dubbio gusto, passi di ballo inventati, musiche arrangiate come fossero cloni della Notte della Taranta e una generale disinformazione sulle radici di tali musiche e balli. Insomma, il mercato chiama e il salentino, improvvisato suonatore, si svende. Quanto chiede un gruppo? 400 euro? E io ne chiedo 300 pur di suonare alla sagra del melone di Roccaforzata. Questo è il quadro in cui opera il suonatore salentino medio.

Quindi, cosa c’entra tutto ciò con Madonna? I salentini si svendono e svendono la propria cultura, ma che c’entra Madonna?

Madonna (o chi per lei) ha fatto ciò che fanno tutti gli organizzatori di eventi: chiamare un gruppo per suonare. Non so a quanto ammonti il rimborso spese per il carburante (dipende se i mezzi con cui viaggiavano i suonatori andavano a gasolio, benzina o GPL/metano), ma simbolicamente quei quattro suonatori non solo si sono svenduti per un rimborso spese (e per un “io c’ero” da postare sui social, con il petto gonfio d’orgoglio), ma hanno tradito le proprie origini.

Lasciate che vi racconti (brevemente) una storia. La pizzica, in Salento, in passato veniva suonata di rado e solo in occasioni particolari: il santo patrono, qualche matrimonio o festa privata, e poi in due – importanti – feste: San Paolo a Galatina e San Rocco a Torrepaduli. La prima si festeggia il 28 e 29 giugno e suonare lì, accanto alla cappella di San Paolo, era un modo per mantenere vivo il ricordo del tarantismo e della sofferenza/guarigione che San Paolo provocava e creava nelle tarantate. La seconda si svolge il 15 agosto a Torrepaduli, frazione di Ruffano ed è forse la festa più importante del Salento tra i suonatori di musica popolare, perché ogni anno – in modo orizzontale e senza palchi – si ripropone la pizzica e la pizzica-scherma (un ballo tra uomini, retaggio di antichi balli/sfide rom), insomma, è la più importante testimonianza viva della musica popolare salentina, tant’è che per anni è stata non solo il ritrovo ma anche la palestra viva di tanti suonatori che oggi si esibiscono sui palchi. Se oggi la pizzica è viva lo dobbiamo (quasi) esclusivamente a ritrovi come questo.

E invece che ti fa questa dozzina di suonatori tradizionali? Snobba la festa di San Rocco per andare a suonare – vestiti come bamboccioni (con abiti che non c’entrano assolutamente nulla con la tradizione…) – al compleanno di Madonna. Dietro rimborso spese, s’intende.

madonna_pizzica_puglia_2017-2
I bamboccioni vestiti in modo tradizionale. Ma di tradizione non c’è ombra.

Se questa gente avesse un orgoglio direbbe a Madonna: vuoi che ti suoniamo la pizzica? Vuoi vedere la tradizione viva? Vuoi ballarla? Fanculo, vieni tu da noi, vieni a San Rocco, vieni in qualsiasi sagra, vieni qui ad ascoltarla, noi non ci svendiamo né ci spostiamo. E invece questa gente ha snobbato i propri padri, il tessuto vivo che li ha resi suonatori, la festa simbolo della tradizione pulsante per andare in un contesto avulso ed eseguire – come qualsiasi altra cover band – qualche canto morto, privo di significato, banale e inutile perché privo del suo substrato culturale che gli dà vita. Con ciò non voglio dire che la musica popolare non debba oltrepassare i confini territoriali, sia chiaro, ma che qualsiasi operazione di de-radicazione dev’essere ovviamente forzata (è ovvio che non si può pretendere che il mondo venga in Salento, per questo si porta la musica fuori) e accompagnata dalla consapevolezza di ciò che si esegue e che proporre non vuol dire svendersi o essere servile davanti all’offerta di lauti rimborsi spese. Insomma, Madonna non si trovava a New York, ma a Fasano e se davvero voleva sentire la pizzica avrebbe dovuto recarsi lei nel territorio dove si suona. Non siete d’accordo? Chi se ne fotte. Penso a quanto i calabresi o i campani siano gelosi della propria cultura musicale e di quanto rari siano i corsi o i concerti di tali musiche fuori dal proprio contesto. Penso anche che se vado in una rota (o ronda o cerchio di suonatori) calabrese, non mi fanno suonare se non mi conoscono. In Salento invece si, entra chiunque, anche il neofita o l’esaltato che rovina l’armonia musicale. Essere democratici è bello, ma essere troppo permissivi è un male. Con Madonna il permissivismo e il servilismo ha raggiunto vette altissime. Finché non prenderemo coscienza che il patrimonio culturale immateriale è fragile e di valore, talmente di valore da essere inestimabile, continueremo a svenderci e a dare il culo per quattro denari, quando invece dovremmo essere orgogliosi di ciò che abbiamo e offrirlo col contagocce, come fosse merce rara destinata solo a chi sa davvero apprezzare. Ma in ciò abbiamo l’esempio negativo di eventi obrobriosi come La Notte della Taranta, che vende il culo pur di ottenere 150.000 presenze ogni anno e vantarsi fin quando non arriva fine agosto, periodo in cui tutti se ne dimenticheranno fino agli inizi dell’agosto dell’anno successivo. A me ste cose, onestamente, fanno tristezza.

Quindi perdonatemi se perculo quelli che hanno suonato per Madonna. Non hanno colpe, certo, ma l’unica loro colpa è di essere talmente rozzi e ignoranti da non capire l’oro che hanno nelle mani e venderlo in cambio di due cucuzze ammaccate. Non è colpa loro, la colpa è di chi non gli ha spiegato l’elementare differenza tra costo e valore: tra il costo del carburante e il valore della mano che suona sul tamburo.

Fragile

Nastro Fragile

Flusso di coscienza, parole che escono così, senza un senso apparente. Fragile, come quel nastro che avvolge i pacchi di cartone, destinati a persone che – forse – non troveranno altro che cocci. Fragile, come quel nastro che nessuno legge, ma è lì, a dirci di fare attenzione. Però, sai, nessuno lo legge quel nastro.

Fragile

come quel nastro adesivo

che avvolge l’ondulato cartone

contenente fragili adorni

dai corrieri trascurato

ormai privo

del suo significato.

Ho scritto “fragile”

sulla mia vita

ma nessuno se ne cura

e, noncurante, tra tanti pacchi

nei camion della vita

io viaggio.

Sballonzolo su per le strade

allibite e crepate

mentre il mio contenuto

pian piano s’affligge

e si crepa

rompendosi talvolta

e chi mi aprirà

troverà cocci

di una vita passata

di un viaggio malconcio

e chiederà rimborsi

per non aver goduto

del mio essere in viaggio,

del mio fragile, avverso destino.

Laura Boldrini e l’italica ignoranza

Lo ammetto. A me Laura Boldrini non sta tanto simpatica. Ho iniziato a storcere il naso per le sue inutili battaglie linguistiche sulla declinazione al femminile di parole tradizionalmente declinate al maschile, ma di significato neutro, perché riferito ai ruoli, quindi Sindaco e non Sindaca, oppure Ministro e non Ministra o ancora Presidente e non Presidenta. 

Si può continuare con Avvocata, Architetta, ecc. Ma ho qualche dubbio su come la Boldrini declinerebbe il termine Geometra. Forse al maschile sarebbe Geometro? E che dire del Commercialista? Forse al maschile sarebbe Commercialisto?

Oddio, esiste pure un più raro ma non sgrammaticato Presidentessa, che si potrebbe usare, ma la Boldrini si è fissata con Presidenta, scomodando pure l’Accademia della Crusca che, con un lusinghiero panegirico, quasi in un’ardita arrampicata sugli specchi, ha dato ragione alla Presidenta, suscitando le comunissime e ovvie ire di Vittorio Sgarbi.

Mi sta anche antipatica per quell’altro aspetto, legato al sessismo, che ogni tanto (sci)orina nei suoi discorsi, anche istituzionali, come quella volta che ha fatto gli auguri a una deputata neo-mamma dichiarando espressamente – in Aula – che il papà, nella storia del parto, non c’entra nulla.

Poi c’è la storia dei migranti. La Boldrini, dopo una lunga esperienza presso l’Alto Commissariato per i rifugiati dell’ONU, nel 2013 venne eletta a seconda carica dello Stato, cioè divenne Presidente della Camera dei deputati. Chiaramente, vista la sua precedente carriera, ha da subito iniziato una battaglia per l’accoglienza e l’integrazione dei migranti, creando in taluni disappunto e in molti altri un crescente odio nei suoi confronti, soprattutto da parte dei tanti razzisti che si annidano sui social e che, ad ogni uscita della Presidenta, si scagliano contro di essa con commenti di inaudita violenza, volgarità e odio, molto spesso contornati da errori grammaticali che nemmeno l’audace Accademia della Crusca potrebbe approvare.

E’ vero che la Signora Boldrini non dimostra spesso di avere quel senso dello Stato tipico di chi ricopre un ruolo istituzionale così elevato né dimostra di saper distinguere quando parlare in qualità di Presidente della Camera e quando in veste di cittadina o attivista per i diritti civili, ma ciò – ovviamente – non comporta una violenza così esasperata, continua, quotidiana, feroce, illogica, meschina e spudorata nei suoi confronti.

boldrini_offese_facebook
L’ultimo post di Laura Boldrini su Facebook in cui annuncia di voler querelare chiunque la offenda, lo trovi qui. Da notare il commento di un tizio che dice: “Dovrebbe riflettere sul perché le persone le rivolgono questi deplorevoli commenti.
 Diciamo che lei non fa nulla per farsi benvolere. La Tatcher non era benvoluta, ma cambiò il volto, ed in meglio, della Gran Bretagna.
Invece di sostenere il popolo italiano dà la parvenza di supportare chi viene da fuori, dimenticandosi gli stenti a cui questo Stato non è in grado di porre rimedio.
Lei risponderà alla Costituzione su cui ha giurato e alla sua coscienza guardandosi allo specchio”.

Premesso ciò, però va puntualizzata una cosa. E lo dico a vantaggio non degli idioti (perché tali sono) che l’hanno riempita di epiteti e volgarità inaudite, ma di tutti quelli che in questi anni hanno motivato i commenti dei suoi post o dei suoi tweet sempre con le stesse argomentazioni: tu pensi ai migranti e agli italiani, che soffrono la crisi, stanno male e bla bla bla, non ci pensi.

Questa gente, che si crede intelligente perché non offende, ma motiva il proprio odio nei confronti della Boldrini con commenti del genere, dimostra tutta la propria ignoranza in materia istituzionale e quindi vorrei soltanto ribadire un concetto banale, materia di educazione civica fatta alle elementari o alle medie, e cioè che quello del Presidente della Camera non è un ruolo politico, ma istituzionale. Insieme al Presidente del Senato è la seconda carica istituzionale, dopo il Presidente della Repubblica, e il suo ruolo è solo quello di:

  • provvedere al corretto funzionamento della Camera dei deputati, mantenendo l’ordine e dirigendo la discussione
  • garantire l’applicazione del regolamento
  • provvedere al buon andamento delle strutture amministrative della Camera
  • presiedere le riunioni del Parlamento in seduta comune e convocare le camere per l’elezione del Presidente della Repubblica

Queste, in sintesi, le funzioni del Presidente della Camera. Quello di aiutare gli italiani, far progredire l’economia, tutelare i diritti della cittadinanza o provvedere alla gestione del Paese è un ruolo politico che spetta al Presidente del Consiglio dei Ministri, ai Ministri e, in misura minore, ai Presidenti di Regione, nonché ai partiti di riferimento e ai sindacati, che sono riconosciuti dalla Costituzione. Insomma, a tutti quelli che ricoprono ruoli politici, cioè di decidere quali soluzioni adottare per risolvere determinati problemi o gestire la cosa pubblica. Capite bene che quando la si offende perché non fa nulla per gli italiani, è ovvio che sia così, non è il suo ruolo. Dunque quando leggo gente che paragona la Boldrini alla Thatcher o la offende perché pensa ai migranti e non agli italiani, mi sovviene alla mente quell’antico istituto della Grecia classica, cioè il blakennòmion, ossia, letteralmente, la tassa sugli stupidi, che si applicava a coloro che facevano ricorso ai consigli e agli oroscopi degli astrologi, perché considerati idioti. Beh, suggerisco alla Boldrini, anziché di querelare questa gente, di proporre al Parlamento una Legge che multi chi dimostra palesemente un’oggettiva ignoranza (oltre all’odio), sarebbe un modo straordinario di far cassa e risollevare l’economia italiana (chissà, magari anche di limitare questi fenomeni da baraccone). E la libertà d’opinione? Si fotta. Le opinioni sono tali quando sono sensate e informate. Il resto è solo putrida immondizia di cui possiamo farne a meno.

Fumo

Fumo

Niente. Non c’è nulla da fare. Ho provato a leggere (due volte) il libro di Allen Carr è facile smettere di fumare se sai come farlo. Alcune tra le persone che conosco hanno smesso dopo aver letto (e compreso) il libro, che – tra parentesi – ritengo molto interessante nel far leva su alcuni macigni psicologici che ci portano a sedimentare alcune abitudini (o vizi che dir si voglia). Ho provato pure con la sigaretta elettronica. Risultato: ora continuo a fumare e ci ho aggiunto pure la sigaretta elettronica nei tempi in cui prima non fumavo. Quindi, di fatto, fumo di più. Ma in fondo lo ammetto, un poco (ma poco) sono svogliato a smettere. E poi, quando scrivo fumo. E quando fumo…non scrivo, ma vabbè, volevo rendere poetica una figura che di poetico ha poco (cioè, fumare). Allora sai che faccio? Pubblico una poesia sul fumo. Non per invogliare qualcuno a farlo, ma solo perché una notte mi è venuto di scriverla. Sicché, la pubblico.

Fumo

un odore acre
si spande per la stanza
mentre i rivoli di fumo
colorano di grigio
le bianche mura
e le basse volte.
Una sigaretta
e un’altra ancora
mentre mi pento
ch’è già mattina.
Albeggia lungo le finestre
e i galli, co’ loro cantare
m’inducon a desistere
mentre la mente
nell’anima conflittuale
perenne mi chiama
a regolar sonno
e membra riposo.
Eppur son qui
a scriver inutili versi
solo per me
solo per dirmi
ch’è mattina.
Vado a dormire
non prima di scrutar
la cenere
che ultima si posa
nella creta smaltata,
ad accompagnar
altre cicche
di quotidiana memoria.

Il Sindaco di Licata e la differenza tra Legge e Giustizia

angelo cambiano sindaco licata abusivismi

Angelo Cambiano era Sindaco di Licata, in Sicilia. Fu eletto il 15 giugno 2015 con quasi il 55% di preferenze. Nel 2016 iniziò la sua lotta all’abusivismo edilizio e venne minacciato più volte (gli vennero persino incendiate due case di famiglia) quasi sicuramente perché, fino ad ora, ha fatto abbattere numerosi immobili abusivi. Pochi giorni fa è stato sfiduciato dal consiglio comunale. Ma che ha fatto di così grave? Semplicemente ha applicato la Legge, in particolare tutta una serie di ingiunzioni di demolizione da parte della Procura di Agrigento. Come lui stesso dichiara “La mia non è stata una scelta politica quella di demolire immobili. Ci sono delle sentenze della magistratura che lo hanno decretato e le sentenze vanno rispettate”.
Oddio, non possiamo certo dargli torto. La legge va rispettata e le sentenze pure. Alcune sono così vecchie da risalire persino agli inizi degli anni ’90. Quantificando, sarebbero quasi un centinaio le case da abbattere o già abbattute, ma forse sono anche di più, dato che non è facile conoscerne il numero, perché, dal 2016 ad oggi, la Procura di Agrigento, a più riprese, ha notificato al Comune di Licata molte ordinanze di abbattimento, tutte recepite e fatte eseguire. Fino al 2015, anno in cui Cambiano fu eletto, le pressioni da parte della Procura di Agrigento vennero tutte respinte al mittente, non solo dal Comune, persino dalla Sovrintendenza ai beni culturali e ambientali e dall’Ente Parco archeologico, ognuno dei quali si dichiarava non competente in materia.

Insomma, per anni, anzi, per decenni, tutte le sentenze e le ordinanze di abbattimento degli immobili abusivi sono state ignorate dal Comune e dagli altri Enti preposti. Il Sindaco Cambiano ha corretto il tiro e ha iniziato ad applicarle, ordinando gli abbattimenti, non solo di immobili per cui le sentenze sono passate in giudicato, ma anche per immobili di nuova costruzione.

Ha fatto bene? Ha sbagliato? Entrambe le cose. Cambiano non è un Eroe, perché ha applicato la Legge, ma non è nemmeno un rappresentante della sua popolazione (lo dico a vantaggio di quelli che pensano che i Sindaci sono rappresentanti del Governo. No, rappresentano i cittadini del Comune in cui vengono eletti. Solo in poche occasioni fungono da rappresentanti del Governo) perché non ha tenuto conto della realtà in cui opera.

Già. Ha fatto bene, perché ha applicato la Legge, ma ha sbagliato, perché – in molti casi – è stato ingiusto.

Che differenza c’è tra Legge e Giustizia? E’ giusto abbattere le case abusive, sì, ma è giusto abbattere solo quelle di quei poveri sfigati che non hanno approfittato dei vari condoni edilizi intervenuti in questi ultimi decenni? Dagli anni Settanta ad oggi il Governo, con vari decreti d’urgenza, ha sempre e costantemente regolamentato la materia decidendo, di volta in volta, quando consentire e quando, invece, sanare (a titolo d’esempio, basti ricordare i D.L. 28 marzo 1986, n. 76; D.L. 30 settembre 1986, n. 605; D.L. 9 dicembre 1986, n. 823; D.L. 9 marzo 1987, n. 71; D.L. 8 maggio 1987, n. 178; D.L. 9 luglio 1987, n. 264; D.L. 4 settembre 1987, n. 367; D.L. 7 novembre 1987, n. 458, tutti in materia di urbanistica e sanatoria dell’abusivismo edilizio).

Diciamoci la verità. I Governi che si sono succeduti (e spesso i Parlamenti, che hanno ratificato i Decreti o emanato leggi ad hoc) hanno regolamentato la materia come più gli ha fatto comodo: a volte concedendo, a volte impedendo, altre volte sanando. In questo marasma legislativo mettetevi nei panni di un cittadino qualsiasi che vuole costruire (del Nord o del Sud, perché l’abusivismo è trasversale, anche se spesso i media vi diranno che è preminente al Sud. Cazzate). Non ci capisce un cazzo. Legge le varie disposizioni normative e non sa quali sono valide e quali abrogate. In più, tra rimandi di legge e giuridichese, non capisce nulla. Quindi fa la cosa più ovvia: va all’Ufficio tecnico o dal Sindaco per avere informazioni e questi, con buona probabilità, gli diranno: tu costruisci, poi si vede. E fu così che dagli anni Settanta ad oggi interi Paesi sono stati costruiti in modo abusivo. Ma abusivo da cosa? Abusivo in base a leggi che dicono tutto e il contrario di tutto? Abusivo in base a piani urbanistici locali che molti Comuni non hanno ancora adottato? Abusivo in base alle dichiarazioni degli Uffici tecnici dei Comuni? In questa confusione, uno che vuole una casa in riva al mare, in campagna o nella periferia del paese, la costruisce e basta. Poi si vede. E’ così che ha funzionato finora. E’ giusto? Non è giusto? Come si fa a dirlo se le leggi venivano continuamente modificate e se le sanatorie spuntavano come funghi ogni 5 o 6 anni?

Quindi, rispondendo alla domanda di prima, un povero cristo, che si vede abbattere la sua casa costruita negli anni Settanta, così, senza un apparente motivo e dopo averci vissuto una vita, magari ereditata dal nonno (che l’ha costruita perché qualcuno gli ha detto che poteva farlo, poi si vedrà) sta subendo un’ingiustizia o l’applicazione della Legge? E la legge, nel suo caso, è giusta? Se il tizio, vedendo che in tutta Italia si abbattono case abusive, forse potrebbe farsene una ragione, ma se invece l’applicazione della Legge vale solo nel suo Comune e nel suo caso, penserà che è giusto o che è solo una carognata che lo porterà a perdere la sua casa e ad andarsene in mezzo a una strada? Come fai a spiegargli che la sua casa è abusiva quando invece quella del suo vicino – sanata qualche anno prima – è ancora in piedi e non verrà abbattuta? Ditemi se questa è giustizia o meno. Ditemi come fa quel povero cristo a capire che la sua casa è illegale, mentre quella del vicino no.

Oggi assistiamo a questo spiacevole spettacolo per cui un Sindaco, che deve applicare la Legge, viene prima minacciato e poi sfiduciato dal suo Consiglio comunale. Lui non è un eroe, è solo l’emblema di un personaggio che si trova ad operare in un sistema corrotto nei suoi meccanismi più profondi, cioè le leggi, di un modello istituzionale che non ha mai voluto prendere una decisione netta in materia urbanistica e che si è sempre mascherato dietro il gioco dell’oca di un sistema volto a vietare e poi a concedere, a bloccare e poi a sanare, ad impedire e poi a consentire. In questo sistema qual è la differenza tra Legge e Giustizia? E’ giusto consentire e poi – dopo tanti anni – distruggere? E un povero Sindaco cosa deve rispettare? La Legge o la Giustizia? Me lo chiedo e ve lo chiedo, perché è facile schierarsi contro l’abusivismo, ma è difficile capire quanto questo fenomeno sia stato foraggiato dalle stesse Istituzioni che oggi lo contrastano. Soprattutto al Sud. Ma l’Italia, sappiatelo, da questo punto di vista è unita. Unita assai.

Alcoltest. Facciamo chiarezza

alcoltest

Premesso che non sopporto chi si mette alla guida dopo essersi ubriacato, perché, come sappiamo e come la cronaca purtroppo ci racconta ormai ogni fine settimana (e durante l’estate quasi ogni giorno), sono tanti – troppi – gli incidenti provocati dalla guida in stato d’ebrezza, per cui l’alcoltest è una naturale conseguenza.

Però non possiamo sottacere nemmeno che molto spesso è facile superare il limite legale di 0,5 grammi/litro di alcool nel sangue pur essendo consapevoli di essere perfettamente lucidi. Difatti chi di noi non ha mai bevuto un paio di birre o un paio di bicchieri di buon vino rosso per poi mettersi alla guida? Sapevamo benissimo di essere in grado di guidare, ma forse non eravamo perfettamente consapevoli del fatto che quelle due birrette o quei deliziosi bicchierini di vino ci avrebbero fatto superare il limite legale, con conseguenze spesso disastrose in termini economici e di normale vita quotidiana. Già, perché vedersi comminare un verbale (spesso) molto salato o vedersi ritirare la patente pregiudica non solo l’aspetto economico, ma anche la propria autonomia.

Cosa dice la legge sull’alcoltest?

Gli articoli 186 e 186/bis del Codice della Strada stabiliscono che, in caso di superamento del tasso di alcolemia di 0,5 g/litro si può entrare nel penale, ma con sanzioni diverse in base alla quantità di alcool nel sangue:

  • Guida con tasso alcolemico tra 0,5 e 0,8 g/l: ammenda da 500 a 2000 euro e sospensione della patente da 3 a 6 mesi.
  • Guida con tasso alcolemico tra 0,8 e 1,5 g/l: ammenda da 800 a 3200 euro e arresto fino a 6 mesi. In più è prevista la sospensione della patente da 6 mesi ad 1 anno.
  • Guida con tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l: ammenda da 1500 a 6000 euro; arresto da 6 mesi ad un anno; sospensione della patente da 1 a 2 anni; sequestro preventivo del veicolo; confisca del veicolo (salvo che appartenga a persona estranea al reato).
  • In caso di recidiva biennale (cioè se la stessa persona compie più violazioni nel corso di un biennio) la patente di guida è sempre revocata. La revoca avviene anche quando il conducente, con tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l o sotto l’influenza di droghe, ha provocato un incidente.

E se il conducente si rifiuta di sottoporsi all’accertamento alcolimetrico, ossia all’alcoltest?

Anche il rifiuto di sottoporsi all’accertamento è considerato reato ed è punito con la perdita di 10 punti della patente di guida, con l’ammenda da 800 a 3200 euro e con l’arresto fino a 6 mesi. In più, anche in questo caso, è prevista la sospensione della patente da 6 mesi ad 1 anno.
Inoltre va detto che per i neopatentati (primi 3 anni dal conseguimento) e per i conducenti di età inferiore a 21 anni c’è il divieto assoluto di assumere alcolici (art. 186/bis CdS).
Inoltre, per poter riavere la patente, occorre effettuare delle visite mediche e delle analisi per dimostrare che il conducente non è un alcolista abituale. Oltre ai costi elevati delle analisi (200-300 euro), vi è anche la beffa di doversi sottoporre a visite presso la Commissione Medica provinciale, ossia i SERT, dove – a seguito di numerose visite – viene rilasciato (non in tutti i casi…) un certificato che dimostra l’idoneità a riottenere la patente di guida.

Come faccio a sapere se rientro nei limiti consentiti?

Non è facile saperlo, perché tutto dipende da molti fattori, quali sesso, peso, capacità di assorbimento dell’alcool da parte del fegato, metabolismo, eventuale presenza di patologie, ecc. Tuttavia il Ministero della Salute ha più volte emanato delle linee guida per capire – in linea di massima – qual è la capacità di assorbimento dell’alcool e, quindi, la presenza dello stesso nel sangue. Di seguito una tabella riassuntiva che, però, va ribadito, è assolutamente generica. Del resto molti locali notturni si sono attrezzati, negli anni, con test alcolemici o gratuiti o a pagamento, che possono dare risultati più precisi.

tabella_alcolemica

Limiti alcolemici in Europa

In Italia, come detto, il limite è di 0,5 grammi/litro di alcool nel sangue, sostanzialmente nella media europea. I Paesi che hanno limiti più alti sono Malta e Inghilterra (0,8), mentre i Paesi meno tolleranti sono quelli dell’Est Europa (0,0) e la Svezia (0,2). La tabella seguente riassume i limiti. Nella prima colonna sono rappresentati i limiti generici, nella seconda quelli per chi esercita professionalmente l’attività di trasporto di persone o cose e nella terza quelli per i neopatentati.

limiti-alcolemici-eu

La Sentenza n. 567/17 del GdP di Reggio Calabria sulla nullità dell’alcoltest

La nullità dell’Alcoltest in caso di mancata indicazione della facoltà di farsi assistere da un legale di fiducia

Prima di commentare la recentissima Sentenza in oggetto tengo a precisare che questi non devono essere considerati degli escamotage per evitare le conseguenze dell’alcoltest, ma mere affermazioni di diritto, per cui il rispetto della Legge deve valere sia per i cittadini che per gli operatori di Pubblica Sicurezza.

La Sentenza (depositata in cancelleria il 30 giugno 2017) muove dal fatto che a un giovane reggino fu comminato nel 2016 un verbale di infrazione al CdS e ritirata la patente per presunta positività all’alcoltest. Il giovane, tramite l’avvocato Giuseppe Ravenda (che ringrazio per aver pubblicato la sentenza sul sito di Studio Cataldi) propose ricorso al GdP avverso al verbale di accertamento e al decreto prefettizio di ritiro della patente. Il Giudice, richiamando due note Sentenze della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (n. 2/2015 e n. 5396/2015) ha stabilito che la mancata indicazione al presunto trasgressore (sia a voce che sul relativo verbale) della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia comporta la nullità degli accertamenti. Quindi, dato che l’accertamento del tasso alcolemico costituisce un atto di polizia giudiziaria urgente e indifferibile, durante il suo svolgimento l’indagato ha diritto di farsi assistere da un difensore di fiducia e di essere avvisato di tale facoltà, in base all’art. 114 disp. att. cpp.

La mancanza di tale avviso, quindi, produce la nullità degli atti (verbale di accertamento e decreto prefettizio).

L’affermazione del diritto all’assistenza legale è importante perché tali accertamenti non sono da considerarsi meri atti amministrativi (come può essere un verbale per eccesso di velocità), ma sono prodromici ad un’eventuale azione penale, quindi il diritto di difesa si estende, ovviamente, al momento in cui iniziano tali atti di indagine.

Il desiderio di droga

droga

Ogni anno, quando parte la stagione estiva, animata da feste, concerti, discoteche stracolme di gente desiderosa di ballo&sballo, parte puntualmente la rassegna stampa, ormai quasi quotidiana, in tema di droga: sequestri di droga, arresti di spacciatori, i pericoli nell’assunzione di droghe, gli effetti devastanti delle droghe sui giovani e via discorrendo.

Allora, partiamo da un assunto semplice: l’argomento è tanto vecchio quanto di attualità. Sempre, ogni anno, almeno dagli anni Ottanta ad oggi, viene proposto e riproposto in tutte le salse e fa sempre presa (così come il sesso, la violenza o l’ammoree). Quindi mi son chiesto: ma perché non ne parlo pure io? Magari ci butto dentro un po’ di pensieri, di teorie, di considerazioni personali e contribuisco ad ampliare la già tanto abbondante letteratura sul tema. Massì, dai, facciamolo.

Però, assunto che l’argomento è vecchio, trito e ritrito, vorrei porre l’accento su due concetti tanto banali quanto spesso trascurati: non esiste la droga, semmai esistono le droghe; concetto ovvio, direte voi, ebbene provate a dirlo a chi fa le pubblicità progresso, ai genitori o – peggio – ai giornalisti che dicono sempre – banalmente – che la droga fa male, non curandosi affatto di spiegare che ogni droga nasconde diversi desideri (e questo è il secondo concetto) e quindi diverse cause che danno origine alla voglia di droga. Ma, peggio ancora, trascurano un altro aspetto ancora più ovvio: anche le droghe legali fanno male.

La droga legale e quella illegale

droga-4

Lo sappiamo tutti e sembra inutile ripeterlo, ma anche alcool e sigarette sono forme di droga, no? Entrambe hanno le caratteristiche tipiche delle droghe: alterano lo stato psico-fisico, creano dipendenza e provocano – in caso di abuso – problemi di salute e, in casi estremi, a lungo andare, anche la morte. Eppure sono droghe legali, come legali sono tante tipologie di medicinali che contengono gli stessi principi attivi di altre droghe (illegali), però socialmente sono accettabili, perché sono consentite per legge.

Quindi, riflettendo meglio, che differenza c’è tra una bottiglia di Jack scolata in una sera, 20 gocce di Lorazepam, una canna o una pasticca di Prozac? Per quanto riguarda le cause per cui si assumono, gli effetti (desiderati e non) o le conseguenze psico-fisiche, nessuna. Ma proprio nessuna. Per quanto riguarda, invece, l’accettazione sociale, quest’ultima è influenzata dalla legge, quindi dalla politica che – in nome della salute pubblica, del monopolio di Stato e della comunità scientifica internazionale – stabilisce cosa è legale e cosa no.

droga2
E’ facilissimo procurarsi droghe legali su internet

Non esiste un concetto univoco di droga

Questa scelta arbitraria di decidere quali sono le droghe illegali e quali quelle legali è dimostrata anche da un’altra cosa: non esiste, nel nostro sistema penale, una definizione univoca di droga.

Esiste per tante altre cose (si sa, per esempio, cos’è lo sfruttamento della prostituzione, cos’è la diffamazione o cos’è un atto sessuale), ma non per la droga, per cui esiste solo un elenco di sostanze psicotrope illegali continuamente aggiornato dal Ministero della Salute. Eppure sarebbe facile, per il Legislatore, definire il concetto di droga. Non viene fatto semplicemente perché, sennò, verrebbero ricompresi anche l’alcool, il tabacco e tutti i medicinali per l’ansia, la depressione, l’insonnia, ecc.

Quindi si preferisce agire così, a tentoni, includendo di volta in volta le nuove sostanze psicotrope. Il ché, come tutti ben sappiamo, lascia ampio margine di manovra a quelli che – ogni giorno – inventano nuove smart drug, cioè droghe legali, i cui principi attivi non fanno parte dell’elenco e quindi, teoricamente, fino ai successivi aggiornamenti dell’elenco, possono essere spacciate senza alcuna conseguenza penale.

Insomma, se ci troviamo in questa situazione che ha del tragicomico (ma che è sì pericolosa, perché non sappiamo gli effetti delle nuove sostanze né con cosa vengono preparate) è solo colpa di scelte politiche che avevano senso negli anni Cinquanta, ma che oggi, per inerzia, perbenismo, lecchinaggio a Chiesa e case farmaceutiche, non vengono messe in discussione.

Il desiderio e il piacere

L’altro elemento che spesso molti trascurano è il desiderio.

Desiderio è una bella parola, ma che nasconde una forte dose d’inquietudine. Già, deriva dal latino de-sidus, cioè mancanza di stelle. Chi desidera, quindi, è insaziabile, perché brama qualcosa che non potrà mai avere e allora cerca di riempire la mancanza, ma non riempie nulla.

A questo concetto, prima dei latini, ci era arrivato Platone, con la metafora dei pivieri (charadriói), uccelli famosi perché si nutrono e defecano simultaneamente, quindi devono riempire un vuoto continuo, o dei morti dell’Ade, costretti a versare acqua in una giara forata, consapevoli che mai si riempirà.

Beh, in fondo anche ubriacarsi tutte le sere o prendere qualche goccia di valium è una forma di riempimento infinito di una giara bucata e drogarsi è quindi la stessa cosa: è desiderio, è voler riempire un vuoto che sarà pure sociale, individuale, causato dalla perdita dei valori, quello che è, fatto sta che è un vuoto incolmabile.

Lo sballo non è altro che una forma di alienazione dalla realtà, quindi un voler fuggire – per qualche ora – da quella vita normale fatta di noia, assenza di regole primarie (famiglia e scuola, in questo senso, hanno fallito miseramente) e di prospettive, difficoltà ad interagire nel mondo reale, isolamento, individualismo sfrenato, nichilismo dei valori e dell’affermazione del proprio sé sociale.

Il desiderio è sotteso al nulla, ad una mancanza

E con cosa colmi, almeno apparentemente e per poco tempo, quella mancanza? Con qualcosa di bello, di buono, di piacevole. Già, perché quasi tutti trascurano un aspetto essenziale nel comprendere il fenomeno, cioè che la droga è piacevole: le canne ti rimbambiscono e ti rilassano, l’ecstasy ti rende euforico e ti fa ballare tutta la notte, la cocaina ti eccita e ti stimola, l’eroina ti anestetizza e ti sottrae, per un po’ di tempo, alla fatica di vivere.

Se le droghe non fossero piacevoli non avrebbero senso di esistere e se è difficile uscirne non è perché ti rendono assuefatto (ciò vale forse per alcune droghe, non per tutte), ma perché non hai altri mezzi per riempire quel vuoto incolmabile e quella giara sempre più lesionata. Ma ad ogni droga corrisponde un desiderio e, in fondo, anche una funzione.

Le tipologie di droga e le funzioni sociali

droga-6

Hashish e Marijuana, le droghe leggere dei centri sociali

Le canne (o spinelli, anche se è una locuzione antica) sono tra le più diffuse droghe leggere in Italia e storicamente si attribuiscono a quegli ambienti alternativi, radicali, di sinistra, che molti identificano nei centri sociali.

Sia chiaro, le canne sono diffuse in modo capillare in tutti gli strati sociali, ma effettivamente si possono ricondurre a quella filosofia pacifista e non violenta tipica dei no-global alternativi, altromondisti e vagamente di sinistra. Perché? Primo perché si fumano quasi esclusivamente in compagnia (quindi è una droga socializzante) e poi perché le canne rilassano, rincoglioniscono e amplificano quel concetto del non ho voglia di fare un cazzo, molto diffuso in certi ambienti.

Si trova a costi bassi (da qui la capillare diffusione, anche tra gli strati sociali a basso reddito) ormai dappertutto, in particolare in eventi o locali alternativi (a cosa, non si sa più…).

Per il fatto che vengono annoverate tra le droghe leggere, si parla spesso di legalizzarle. L’argomento legalizzazione delle droghe leggere merita un approfondimento a sé e non mi pare il caso di trattarlo in questa sede, anche perché sull’argomento c’è molta confusione e un’abbondante letteratura, persino una proposta di legge.

L’ecstasy, la droga che toglie fatica e paura

E’ la droga più pericolosa per la salute ma la più diffusa nelle discoteche di tutta Italia. Ci sarà un perché? Se vogliamo sintetizzare gli effetti piacevoli dell’ecstasy, sono due: elimina la fatica fisica e riduce paure e tensioni sociali.

Insomma, chi assume questa droga può ballare tutta la notte, anche in modo esagerato, e non sentire fatica (da qui i numerosi casi di collasso cardiaco, perché il fisico, quando è stanco, ci lancia segnali che, invece, l’ecstasy nasconde), ma soprattutto perde quell’inibizione sociale che, spesso, è la prima causa delle frustrazioni nei primi approcci con una persona con cui si vorrebbe interagire.

Insomma, è una droga che nasconde due fatiche: la fatica fisica e la fatica d’intessere rapporti. E’ per questo che è la più diffusa tra giovani e giovanissimi, perché sono i primi a subire gli effetti dell’incapacità di allacciare relazioni reali e sono i primi ad aver perso quel concetto di trasgressione tipico degli assuntori di droga.

L’ecstasy, quindi, non è una droga, è solo un qualcosa che sciogli in un cocktail e che ti fa ballare, ti fa divertire, ti fa conoscere quella tipa che balla accanto a te e con cui, in condizioni normali, non ti sogneresti mai di provarci. Non capire questa sottile trasformazione della percezione dell’ecstasy significa fallire qualsiasi campagna di sensibilizzazione e qualsiasi tentativo di repressione del fenomeno.

La cocaina, la droga dell’efficientismo

In una società sempre più evoluta, che ti spinge a dare sempre il massimo di te, che ti induce a prestazioni che vanno oltre la tua tolleranza soggettiva, che ti oggettivizza e ti parametra ad altri (migliori di te), che ti dice o raggiungi il massimo o sei fuori, tu non hai più legami con il tuo corpo, le tue sensazioni, la tua soglia di fatica, i tuoi limiti soggettivi; ti senti inadeguato, non perché lo sei, ma perché gli altri ti dicono che devi andare oltre. Oltre a cosa? Oltre agli altri.

Devi alzare la tua asticella sempre un centimetro sopra gli altri, sennò non vali, sei superato, fuori, qualcun altro, più efficiente di te, ti sostituirà. E poi, oltre dove? Oltre in tutto: nello sport, nel lavoro, nei rapporti sociali, in tutto. E quindi la cocaina è quella droga che ti stimola, ti fa sentire meno la fatica, ti rende più efficiente.

Peccato che, finito l’effetto, torni a competere con la tua inefficienza, che altro non è se non la pura e semplice normalità. La coca, quindi, è anti-umana, è la negazione dei limiti soggettivi e la risposta ad un vuoto interiore provocato da richieste di performance sempre più pressanti e competitive.

E’ vero che la coca è una droga socialmente snob (dato l’alto costo) e accettata, assunta, diffusa da personaggi d’alto rango, politici, imprenditori e gente che conta, ma un’inchiesta del 2008 di Loris Campetti intitolata “quanto tira la classe operaia” mise in luce l’uso eccessivo di coca tra la classe operaia, appunto per poter competere con i ritmi incessanti dell’efficientismo moderno.

Tra l’altro, negli attuali tempi della crisi economica, anche il costo della coca è sceso ed è appannaggio non solo degli snob, ma anche di ampi strati sociali.

L’eroina e il buco che torna

L’eroina è una droga sporca, la più condannata socialmente, dai media e dai benpensanti, ma la più diffusa tra gli anni ’70 e ’90. Nell’immaginario collettivo è la droga dei tossici, degli ultimi, di quelli che ciondolano per strada, con la faccia smunta e gli occhi ormai persi nel vuoto, per raccattare qualche spicciolo e comprarsi un’altra dose.

Pensavamo che fosse finita, ma in realtà oggi s’insidia tra i giovani e meno giovani e si apre ad ampi strati sociali, a causa anche del bassissimo costo a cui si trova. L’eroina è la droga sporca per via del fatto che bucandosi con la stessa siringa si rischia la diffusione di malattie infettive e pericolose, ma è la droga di chi cerca l’anestesia totale dal mondo, di chi vuol sentire quel piacere che non è sballo, ma è abbandono, è morte apparente, è un viaggio fuori dalla realtà.

Se la coca costa tanto, le canne si fumano in compagnia, l’ecstasy è la droga del sabato sera, l’eroina è l’infame compagna della quotidiana solitudine, dell’inadeguatezza di stare al mondo, quel mondo da cui fuggi per non sentirne il dolore.

Le campagne di sensibilizzazione sbagliate e la cultura dell’anti droga

Ogni droga, quindi, ha bisogno di diverse cure, di diverse campagne di sensibilizzazione. Dire la droga fa male oppure crea dipendenza è banale, inutile e fuorviante. Una vera campagna informativa contro le droghe (e non la droga) dovrebbe avere target differenti (come si dice nel gergo dei marchettari) e parlare linguaggi differenti, dovrebbe stuzzicare i destinatari sulle cause, non sulle conseguenze, ma soprattutto dovrebbe smettere di puntare l’attenzione sulle dipendenze.

L’assuefazione fisica e psichica è l’ultimo dei problemi, lo è nelle droghe come lo è nel fumo di sigaretta. Peccato che a leggere il sito del Ministero della Salute, troviamo molta ignoranza in materia, addirittura si afferma che la dipendenza psichica è una dipendenza che non passa mai del tutto. Chiaramente con questa rappresentazione meccanicistica del problema non si arriverà mai ad una soluzione.  

Sono le cause e il contesto sociale in cui si sviluppano queste forme patologiche ad essere il fulcro del problema

Bene fanno le comunità terapeutiche ad indagare il vissuto di ogni persona che le frequenta (tossicodipendente è un’espressione che non amo usare, troppo brutta e inesatta), ma sappiamo che anche questa metodologia lascia il tempo che trova.

Perché nel momento in cui hai disintossicato con i farmaci la persona e hai creato, in comunità, uno scudo sociale, lo hai effettivamente aiutato, ma quando tornerà nel suo ambiente originario, gli scudi si romperanno e la voglia di riprendere tornerà inesorabilmente. Un po’ come accade a Mark Renton in Trainspotting: smette di bucarsi, con grande impegno, poi ritrova i suoi vecchi amici eroinomani e torna a bucarsi, così tutti i suoi sforzi si vanificano nel giro di pochi minuti.

Come con il fumo di sigaretta, così con la droga non basta un semplice cartello “vietato fumare” per far smettere improvvisamente alla gente di fumare, occorre creare una vera cultura dell’antidroga. Quindi, così come se oggi accendo una sigaretta e il gestore del locale o gli avventori mi si palesano ostili e mi offendono, così in discoteca potrebbe accadere la stessa cosa, se il ruolo della scuola, della famiglia, dei gestori dei locali e degli avventori fosse proattivo e non passivo.

Sembra facile a dirsi, e in effetti lo è

Non è un processo che si svolge dall’oggi al domani, ma occorre avere consapevolezza che per ridurre un fenomeno bisogna conoscerne le cause, non solo gli effetti. Quindi una campagna di sensibilizzazione che punta sul fatto che la droga uccide e la vita è più importante, è completamente fuori strada, perché è proprio la vita che porta tanta gente a drogarsi. Anzi, non la vita in sé ma la malavoglia di vivere, quindi se vai a dire ad un ragazzo che la vita è importante e la droga fa male, lo convinci ancora di più a provare tutte le droghe possibili!

Allora proviamo un attimo a capire le cause del fenomeno, sempre tenendo a mente che ad ogni droga corrisponde un malessere di fondo ben diverso, come diverso è il contesto sociale o il beneficio che si vuole trarne, smettiamo di parlare di dipendenze (nessuno è dipendente e le droghe non creano nessun fenomeno irreversibile né fisico né psicologico) e soprattutto smettiamo di considerare le droghe come elementi trasgressivi. Non lo sono più, ormai fanno parte della normale fuga dalla normalità.

La trasgressione, da quando abbiamo tolto i paletti morali, non esiste più e quindi le droghe non sono trasgressive, perché, anche se vietate, sono facilmente reperibili. E poi, per favore, smettiamola con queste insulse campagne di sensibilizzazione che parlano di quanto è bello vivere e quanto è cattivo drogarsi. Dopo aver visto questo video mi vien voglia di farmi un cocktail a base di cicuta.

Mannaggia agli ambulanti del Salento!

ambulanti cacciati spiaggia salve

Ogni giorno, passeggiando per le vie del mio paesello, per fare compere e commissioni, lo vedo sempre lì, nello stesso angolo, col suo carretto, a vendere mercanzia varia: lampadari, orologi, oggetti tecnologici degli anni ’80 (ma che ancora, con ostinazione, continua a vendere), accendini, bracciali e altri oggetti che ormai non riconosco più, persi tra la polvere e le plastiche che li avvolgono ormai ingiallite dal tempo. Lui è ancora lì, nel freddo gelido dell’inverno o sotto al sole caldo (mai come quest’anno) di agosto.

E’ un marocchino. Anzi, è IL marocchino.

Quando ero piccolo, tutti i venditori ambulanti, siano stati essi senegalesi, tunisini, turchi o di chissà di quale parte del mondo, dalle mie parti venivano chiamati i marocchini. Il termine “marocchino”, quindi, non indicava la provenienza geografica, ma la professione: eri un ambulante? Eri, quindi, un marocchino. Ma quello del mio paese è per davvero un marocchino, quindi ne deduco che siano stati i primi a venire nel Salento e a svolgere la nobile professione dell’ambulante. Poi, col tempo, altra gente, di altre etnie e provenienze, hanno arricchito i nostri paesi e le nostre spiagge svolgendo lo stesso lavoro, ma per noi erano sempre li marucchini.

Eccolo lì. Lo vedo mentre, con la macchina e sotto l’afa micidiale di un caldo anomalo (che mi fa sudare peggio che in Marocco), percorro quella stessa via per andare prima alle poste e poi al forno, a prendere un po’ di pane. E’ sempre lì, con il suo carretto, fermo all’ombra a contemplare il nulla e a salutare con impercettibili segni del capo gli automobilisti che strombazzano con il clacson mentre gli passano accanto. Tanto tutti lo conoscono e lui conosce tutti.

Mi sono sempre chiesto a cosa pensasse durante le lunghe ore che passa seduto sul ciglio di quella strada. A me sembra, dallo sguardo e da quel sorriso tenero e sornione, che contemplasse l’infinito svolgersi di una vita ciclica e finita, fatta di abitudini e facce note, di auto che cambiano e volti che invecchiano. Del resto lui è sempre lì, in quell’angolo di strada, da ché ne ricordi.

E poi l’estate, al mare. Anche lì, passeggiando sul lungomare o sdraiati sulla spiaggia a prendere il sole, trovi li marucchini. Non so se tra di loro ci fosse anche lui, ma so che – sin da piccolo – per me rappresentavano quel complesso folklorico che contribuiva ad arricchire la spiaggia e le lunghe giornate di mare. Li vedevi passare con quei carretti, pieni di vestiti o di salvagenti, canotti, braccioli, lettini, carichi come muli, fermarsi ogni tanto per prendere respiro e poi continuare la lunga passeggiata tra i bagnanti, per poi fermarsi quando qualcuno – con un cenno della mano o un fischio – attirava la loro attenzione perché interessati ad acquistare (o forse solo ad informarsi) un materassino, un paio di braccioli o una paperella per i propri figli.

Gli ambulanti senegalesi

Poi, quasi senza accorgermene, intorno agli anni ’90, sono arrivati i senegalesi, con i sorrisi stampati in faccia e gli occhiali da sole, bracciali, treccine (da fare lì, sul momento, soprattutto ad opera di corpulente donne senegalesi) o altra merce varia. Ogni tanto li vedevi sbucare e fermarsi a chiacchierare. In quel periodo della mia prima adolescenza, frequentavamo sempre la stessa spiaggia di Porto Cesareo, sul confine tra gli scogli e la sabbia. Ai miei piacevano gli scogli, mentre io propendevo più per la sabbia, anche se mi divertivo un mondo a dar la caccia ai granchi e a saltare da uno scoglio all’altro per dimostrare ai miei le mie doti funamboliche. Però, in fondo, preferivo la comodità della sabbia e le belle signorine che la popolavano. Fatto sta che in quel periodo passava da lì ogni giorno un ragazzo senegalese, fisico atletico, alto come un giocatore di basket, nero come la pece e simpaticissimo, che aveva preso l’abitudine di fermarsi a chiacchierare con noi. Non per venderci qualcosa, ma così, giusto per parlare. Mia madre si prodigava ad offrirgli qualcosa di fresco da bere e lui si vedeva che era commosso da quest’affetto, tanto che, dopo un po’ di giorni, iniziò a raccontarci la sua vita, le sue tribolazioni e il motivo che l’aveva spinto ad abbandonare il suo paese per venire a fare l’ambulante in Italia. L’appuntamento con lui era ormai fisso e, solo ogni tanto compravamo qualche braccialetto. Non per carità, nemmeno perché obbligati o tanto meno perché indotti. Semplicemente per tenerezza e simpatia. Poi, si sa, l’estate finisce, ti fai grande, cambi spiaggia, esci con gli amici e…beh, di quel senegalese ho perso le tracce e non so che fine abbia fatto.

Gli ambulanti e la tecnologia

Poi vabbè, appunto, cambi spiaggia, vai al mare con gli amici e, tra un bagno e una partita a tressette, ti trovi l’immancabile senegalese che vende varia mercanzia sulla spiaggia. Siamo negli anni 2000 e questa volta la merce è più cool: radioline bluetooth con lettori di schede SD a 7,00 € (che ho pure comprato qualche anno fa), laser a led, occhiali da sole a specchio (brrr…) e persino tatuaggi temporanei o massaggi. Gli ambulanti sono aumentati e ognuno, pur di vendere, usa tecniche diverse e fantasiose, come quel senegalese che, sulla spiaggia più affollata di Porto Cesareo, gridava caccia li sordi ca li teni, con un dialetto perfetto e un’intonazione che ti faceva sorridere e ti faceva allibire davanti a tecniche di marketing così semplici ed efficaci.

Il tutto, va sottolineato, nel rispetto delle persone. Cioè, mai nessun ambulante ha cacato il cazzo alla gente che stazionava sulla spiaggia. Sia chiaro.

Poi si sa come sono andate le cose. Oggi ci troviamo ad assistere ad un’escalation di presenze di extracomunitari che, chiaramente, sono invadenti, ma sono spesso oggetto di forme di schiavismo da parte di negrieri (è il caso di dirlo) tutti nostrani, che si accaparrano sti poveri cristi, appena sbarcati in Italia, gli mettono in mano un po’ di merce e gli dicono: andate e vendete e se a fine serata non mi portate almeno X euro, col cazzo che mangiate. E appena fate XX euro, vi restituisco il passaporto. Questi benefattori, che danno un lavoro ai poveri ambulanti extracomunitari, sono, ovviamente, nostri compaesani, vicini di casa, ferventi cattolici, grandi frequentatori di chiese o circoli di partito, professionisti stimati e amici di tutti. Gli extracomunitari, senegalesi, tunisini o marocchini che dir si voglia, invece sono poveri cristi che non conoscono nessuno e nessuno s’incula, che si fanno i km sulle spiagge, spesso carichi come muli, si beccano le bestemmie, le parolacce o i “no grazie” (quando gli va bene) e oggi pure le beffe razziste.

Scusate, ma che è successo?

che_e_succiess

Eh, ne sono successe tante. A Torre Chianca (marina leccese) che, detto tra di noi, vi invito ad evitare per svariati motivi, uno tra i tanti ambulanti, un ragazzino di 17 anni ha quasi perso la vita, tra l’indifferenza generale di una marina stracolma di gente, il tutto a causa dell’arroganza di un paio di tizi che non mi esimo a definire due coglioni. Qui i fatti. Se non vi va di leggerli, è successo che un ambulante di appena 17 anni fu aggredito, nel 2015, solo perché un ragazzo, sedicente cliente, rubò un paio di occhiali dall’ambulante e, dopo le proteste di costui, accorsero gli adulti che, invece di deprecare l’ignobile gesto, di tutto punto presero l’ambulante e tentarono di affogarlo in acqua. Il tutto sotto gli occhi di tanti bagnanti, rimasti fermi ad osservare la simpatica scena. Qualcuno avvisò la polizia e, quando arrivarono i poliziotti, vennero accerchiati e gli venne impedito di salvare il povero ragazzo.

Mentre l’ultima (in ordine di tempo) è successa in quella spiaggia che viene definita Le Maldive del Salento (paesaggisticamente carina, non bella, che vi invito ad evitare per quello che appresso dirò), dove un accorto gestore di un lido ha fatto di tutto per eliminare gli ambulanti che – a detta sua – rovinano la bellezza del paesaggio. Nel suo accorato post, il tizio (persona è termine troppo civile da essergli attribuito) spiega che gli ambulanti “da anni rendono impossibile il riposo sulla nostra spiaggia e il godimento del panorama”, e infine – probo e onesto – aggiunge che “non meno grave (…) è l’aspetto fiscale tanto pesante per …. noi italiani !”. Ora, a parte che al tizio occorrono urgentemente lezioni di grammatica e di punteggiatura, va evidenziato che il proverbio salentino “lu ‘mboe chiama curnutu lu ciucciu” (il bue chiama cornuto l’asino) è da attribuirsi a gente come lui che – con stragrande probabilità – fiscalmente ha più scheletri nell’armadio di tanti poveri ambulanti. Ma non solo. Come una buona capra (o webete, per dirlo alla Mentana), non sta mica ad interrogarsi sul perché, chi o come ha messo lì quei disgraziati. No, chiama i carabinieri di Salve, di Tricase, di Gagliano del Capo, insieme al Comune di Salve (e giacché perché non i Marò?) per fare cosa? Rimuovere un povero Marocchino e sequestragli la merce. E, come un buon analfabeta funzionale (ma forte della sua posizione di egemonia economica sul territorio delle Maldive, del Salento, però) si fregia della sua operazione di pulizia razziale sui parchi lidi del basso Salento, così finalmente i suoi avventori potranno dormire sonni sereni sotto al solleone agostano, privi di venditori abusivi ma adagiati su lettini posizionati da autoctoni salentini magari pagati a voucher e serviti da baristi con contratti a termine, di cui, chissà, un tanto in regola e un tanto in nero, che magari ti vendono un caffè in ghiaccio a 2 euro, perché sai, nei lidi vale tanto e il personale costa assai…

E mentre il gestore del lido bestemmia contro la casta, impotente dinanzi all’ineluttabilità del destino, si scaglia contro l’unica categoria con cui può prendersela: uno più povero di lui. Perché in Italia – anche nell’Italia del Sud – povera tra i poveri, figlia della società contadina e fiera allieva del disagio e della cultura della fratellanza (o del cumpà, stamu sulla stessa barca), c’è chi ripete il clichet banale di farsi lupo con le pecore e pecora tra i lupi. Insomma, nulla di nuovo sotto al sole. Di nuovo, però, c’è che nei lidi gestiti da lupi non ci metto piede.