Il 2024 è stato l’anno degli scioperi e delle manifestazioni. Entrambi segnano un aumento esponenziale rispetto al periodo pre-covid. Segno che dal basso c’è fermento e voglia di esprimere un disagio sempre più emergente. Ciò in risposta alle violenze dell’imperialismo occidentale, al genocidio in Palestina e alle politiche economiche inique che scaricano i costi del capitale sull’ambiente e sulle masse. Come reagisce il potere? Con maggior violenza.
L’anno appena trascorso è stato caratterizzato da un fermento sociale che non si vedeva da tempo. Segno che le persone inziano a reagire contro un processo di putrefazione del capitalismo occidentale, ormai nella sua fase calante (ma, proprio perciò, peggiore). Il potere governativo, forte di un vento di destra che soffia ovunque in occidente, reagisce con maggior violenza. Lo fa dopo che, per circa tre anni, ha sperperato risorse pubbliche a vantaggio dei più ricchi e oggi cerca di porvi rimedio. Inoltre, per accontentare la volontà di potenza di un soggetto già condannato dalla storia all’oblio, gli USA e la NATO, taglia risorse sociali per aumentare la spesa bellica.
Per capire come siamo arrivati qui partiamo dal 13 maggio del 2020.
Il Superbonus 110
In una conferenza stampa del 13 maggio 2020 il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che allora governava con la Lega, lanciava il Decreto Rilancio (DL 34/2020), una delle misure di ripresa dell’economia durante il periodo Covid-19. Lo annunciò con queste parole:
Nel settore edilizio introdurremo un Superbonus per la casa: tutti quanti potranno ristrutturare, per dare una boccata d’ossigeno al mondo dell’edilizia, le loro abitazioni per renderle più green. Non si spenderà un soldo per queste ristrutturazioni.
Da allora il superbonus (che, come sappiamo, prevedeva un credito d’imposta del 110% a fronte di ristrutturazioni per aumentare le prestazioni energetiche degli immobili) è costato agli italiani quasi 400 miliardi, includendo altre tipologie di bonus legate ad esso.
Sin dall’inizio si sapeva che il superbonus era difettoso. Dava un sacco di adito a truffe, era rivolto a chiunque, indipendentemente dal reddito, è stato usato anche per ristrutturare castelli o palazzi di lusso, ha fatto lievitare i costi dei materiali e ha fatto indebitare numerose famiglie.
Nonostante questo, al netto di qualche piccolo correttivo, il bonus è stato prorogato fino al 31.12.2023, dal governo Meloni, contrariamente ai reclami dei tecnici dei MEF e della Ragioneria di Stato che avvertivano che, continuando così, il debito pubblico sarebbe schizzato alle stelle.
Cosa dice la Corte dei Conti?
Infatti è andata così. La Corte dei Conti, nella sua Relazione sul Rendiconto generale dello Stato 2023 parlava di ricadute assai negative sul bilancio dello Stato.
Più precisamente, si esprimeva con toni piuttosto duri:
Si può ben dire che gli effetti negativi di finanza pubblica di tali misure, che hanno assunto una dimensione macroscopica, sono ascrivibili all’ampliamento degli obiettivi dell’agevolazione e alle ripetute estensioni temporali della misura, che hanno, appunto, generato un aumento della spesa ben oltre le aspettative iniziali; ovviamente anche la diffusione di comportamenti fraudolenti ha contribuito ad ampliare gli effetti finanziari della misura. Ancora la Banca d’Italia, nella relazione annuale del 31 maggio 2024, ha quantificato puntualmente gli effetti finanziari delle misure in esame nell’esercizio 2023, registrando, tra i Paesi dell’area euro, un disavanzo maggiore rispetto al PIL anche per effetto degli oneri derivanti dal Superbonus. Non è, quindi, un caso che, tra le motivazioni della procedura di infrazione appena aperta, un peso rilevante lo abbia avuto proprio lo sbilancio degli oneri connessi al superbonus.
Se questa misura avesse realizzato ciò che i proponenti intendevano fare, ossia un generalizzato aumento delle prestazioni energetiche degli immobili, specie per quei proprietari che non sono in grado di fare i lavori con i propri soldi, allora vabbè, l’aumento del debito avrebbe avuto come contrappeso un aumento della sicurezza e del risparmio energetico degli immobili, oltre che un risparmio sulle tasche dei proprietari di immobili.
In realtà solo 400.000 immobili (su 57 milioni) ne hanno usufruito. Solo, prevalentemente, quelli dei più ricchi. E a dirlo non è un giornale sovietico, ma il Sole 24 Ore. E sempre il Sole 24 Ore, analizzando le relazioni della Corte dei Conti, rileva che ci vorranno almeno 24 anni di tasse e risparmi energetici per rientrare dai costi e che, considerando il ciclo di vita utile delle nuove caldaie (15 anni?) o degli impianti energetici (massimo 20 anni), si andrà in negativo. Cioè si andrà in perdita.
La manovra lacrime e sangue
Il Superbonus 110 è stato inizialmente accolto positivamente dalla Commissione Europea. Rientrava negli obiettivi di sostenibilità previsti dal New Green Deal e dai Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza (PNRR). Poi, dopo le prime applicazioni, è calato l’entusiasmo e l’Europa ha iniziato a fare qualche domanda. Nel frattempo però i quasi 400 miliardi spesi per i vari bonus sono andati bruciati e questo ha obbligato il Governo a rivedere i conti, per tentare di rientrare almeno di una parte del debito, visto che solo di interessi ci bruciamo, negli ultimi anni, quasi il 4% del PIL.
A questo si somma il fatto che sempre Bruxelles, su ordine della Nato, sta obbligando praticamente ogni paese d’Europa ad aumentare le spese militari. Sarà di un +12% rispetto al 2024 la spesa militare in Italia, ossia di 32 miliardi. A conti fatti arriviamo poco sotto al 2% del PIL. Ma non basta. I due Donald gemelli (Trump e Tusk) ci hanno ordinato di arrivare al 5% del PIL e non sarà difficile immaginare che l’Italia obbedirà. Del resto siamo abituati ad obbedire ai prepotenti.
I tagli alle Università
Nella stessa Legge di Bilancio è previsto un taglio lineare di 173 milioni di euro del Fondo di Finaziamento Ordinario alle Università e alcune hanno già annunciato tagli al personale e persino agli strumenti di ricerca, paralizzando praticamente le attività principali degli Atenei: la ricerca.
Alcuni atenei, infatti, hanno già annunciato che nel 2025 ci saranno tagli un po’ su tutto, persino sulle banche dati o sui materiali di consumo necessari per far funzionare i laboratori di ricerca. E si sa, senza ricerca non c’è progresso. Ma, come sappiamo, i tagli non sono solo una forma di contenimento della spesa, sono politiche lucidamente orientate ad imporre, in un modo o nell’altro, la privatizzazione di quegli Enti che, finora, sono rimasti pubblici, in particolare università e sanità. Sarà per questo che le università telematiche, invece, hanno ricevuto un trattamento diverso.
Tagli e aumenti
Oltre a ciò sono previsti praticamente dei blocchi ai rinnovi salariali del pubblico impiego, almeno fino al 2030. Quando previsti, sotto forma di bonus, non copriranno nemmeno l’aumento dell’inflazione che quest’anno ci ha portato in dono aumenti energetici (+18% per il gas), dei pedaggi autostradali (+1,8%), delle assicurazioni (+6%) e questo genera ovvi aumenti ai beni di prima necessità. Maggiori costi energetici, come sappiamo, significa maggiori costi di produzione e aumento dei prezzi. Finora la GDO ci ha fatti fessi diminuendo peso, volume e quantità dei prodotti di largo consumo, per non incidere sul prezzo. Ora come reagirà?
La riduzione delle buste paga
Con la manovra economica il Governo ha pensato bene di colpire i redditi medi, ossia l’ossatura dell’economia nazionale, perché se è vero che la riduzione degli scaglioni IRPEF porta qualche piccolo beneficio ai redditi più bassi, è anche vero che giocare sulla rimodulazione delle detrazioni, porterà ad una pressione fiscale più elevata e ad una riduzione delle retribuzioni per questo tipo di lavoratori.
In particolare ci perderanno tutti quei lavoratori che guadagnano tra i 10 mila e i 35 mila euro, i quali vedranno la busta paga ridursi tra i 5 e i 96 euro al mese, mentre l’inflazione galoppa. Quindi ad essere maggiormente colpiti saranno i soliti: artigiani, commercianti, dipendenti di imprese private, dipendenti pubblici di fascia medio-bassa (gli ex A, B e C), piccoli professionisti, diverse categorie iscritte alla gestione separata INPS.
Infatti l’INPS, nel suo ultimo rapporto sul lavoro in Italia, di dicembre 2024, sottolinea che il reddito medio, in Italia, si assesta sui 25.259 euro. Riesce difficile immaginare che il Governo, nella sua manovra economica, non fosse cosciente del fatto di colpire praticamente la maggioranza dei lavoratori. Altro che Governo amico dei lavoratori. Le parole di Giorgia Meloni nella conferenza stampa di inizio anno, stridono con la realtà dei fatti:
cerchiamo sempre di legare il nostro incentivo alla questione fondamentale del mantenimento ai livelli occupazionali e della difesa dei laboratori.
Gli effetti dei tagli sui servizi pubblici locali
Inoltre la riduzione del cuneo fiscale, unita alla riduzione dei finanziamenti ordinari agli Enti locali, ha già prodotto effetti disastrosi sui servizi pubblici locali, e altri ne produrrà nel corso dell’anno. Un esempio tra tutti è quello di Taranto, che ha dovuto riorganizzare i servizi locali, arrivando a privatizzare il servizio di asilo nido comunale, con gravi ripercussioni sulle fasce deboli della popolazione.
Quello che più mi preme sottolineare è che le politiche economiche del Governo generano effetti a livello locale, in modo indiretto. Ossia da un lato riducono il sistema di welfare locale e dall’altro portano ad un conflitto tra amministrati e amministratori locali, tenendo indenne il Governo dalle critiche. E’ esattamente la dinamica portata avanti dal sistema capitalistico dagli anni Settanta ad oggi, cioè dall’emergere del neoliberismo.
In altre parole, chi genera squilibri, a livello globale e locale, resta indenne dalle conseguenze, ossia dal conflitto sociale che, invece, si sviluppa tra i destinatari delle politiche economiche, che tendono, ormai da quando il sistema capitalistico si è evoluto nel neoliberismo, a socializzare le perdite e privatizzare i profitti. In altre parole, le perdite se le piangono le fasce più deboli della popolazione e gli amministratori locali, incapaci – anche quando lo vorrebbero – di sviluppare politiche sociali, per mancanza di fondi e per un sistema normativo e di prassi che lo disincentiva.
Il nodo sicurezza
Non è difficile, quindi, immaginare che nel momento in cui il conflitto si acuisce, perché la coperta è sempre più corta, entrano in scena gli anticorpi del potere che generano normative securitarie e restringenti i diritti fondamentali dei cittadini, nel nome di una sicurezza che, alla lente d’ingrandimento, è piuttosto sicurezza del potere che delle genti.
Difatti se in passato con il termine sicurezza si indicava la tutela delle fasce più deboli, oggi il termine ha assunto un significato dai contorni imprecisati, in cui, nella nebbia di vere o presunte emergenze, si tende a restringere l’orbita del dissenso dal basso e a criminalizzare i soggetti più deboli e marginali (stranieri, senzatetto, rom, disoccupati, ecc.).
I decreti sicurezza non hanno colore politico
In Italia, negli ultimi decenni, le politiche in materia di sicurezza sono appartenute tanto al PD quanto alla Lega o alla destra più estrema.
Sia la destra sociale che la sinistra moderata, come ho avuto modo di spiegare altrove in questo blog, rientrano nel quadro della difesa della struttura economica, quindi differiscono, tra loro, solo a livello di sovrastrutture. Le poche differenze tra la destra e la sinistra istituzionale, in Italia, stanno solo nel grado di elasticità in materia di riconoscimento dei diritti individuali, mentre in materia di diritti sociali, la pensano esattamente allo stesso modo.
Si sa, i diritti individuali fanno piacere al potere egemonico, perché sono legati al consumo e all’edonismo. Mentre i diritti sociali sono pericolosi, perché, se sviluppati, mettono in crisi il potere.
Per capirci, se il PD è aperto al riconoscimento delle differenze di genere mentre la destra conservatrice difende la categoria della famiglia tradizionale, entrambi salvaguardano il rapporto tra capitale e lavoro a vantaggio del primo, basti pensare ai decennali accordi tra le parti sociali sulla produttività e allo smantellamento dello stato sociale portato avanti sin dal primo governo Prodi.
Finora queste politiche hanno funzionato e hanno mantenuto inalterato il rapporto capitale-lavoro generando dissensi che il sistema del potere stesso è stato in grado di assorbire. Basti pensare al ruolo normalizzatore avuto dal M5S o all’emersione e scomparsa dei movimenti di piazza, spesso istituzionalizzati o resi inefficaci dai media stessi.
Ma oggi è diverso. Oggi il dissenso inizia a diventare più strutturato e capillare.
Ne è testimonianza il numero di scioperi nel 2024
Nel 2024 sono stati 1.603 gli scioperi proclamati, 981 quelli revocati, per un totale di 622 mobilitazioni, un record negli ultimi dieci anni. Inoltre abbiamo visto in piazza circa 12.000 manifestazioni, con un aumento di quasi il 10% rispetto agli anni pre-covid.
Con la destra al governo, la reazione è stata prevedibile. Il decreto sicurezza del 2024, che sarebbe dovuto entrare in vigore il 12 gennaio 2025 (ma slittato dopo le osservazioni del Quirinale), prevede una serie di norme fortemente restrittive del diritto alla libera manifestazione del pensiero, alla libertà di riunione, a quella personale, oltre alla dignità dei reclusi.
Il testo si compone di 6 capi e ognuno disciplina aspetti particolarmente delicati. Una disposizione particolarmente crudele riguarda la possibilità, per il giudice, di far restare in carcere le donne incinte o con figli fino a 3 anni, escludendo, in pratica, l’obbligo di rinvio della pena. Altro aspetto crudele riguarda la norma che impone ai migranti senza permesso di soggiorno di poter acquistare una sim card, così impedendo loro di poter comunicare con i propri cari oppure accedere ai servizi web, oggi indispensabili per fare qualunque cosa.
Ci sarebbe tanto da dire sull’ultimo decreto sicurezza, ma oggi ci concentriamo solo su alcune norme, che interessano la nostra analisi: quelle relative al blocco stradale e ferroviario, quelle sull’occupazione di immobili, sul c.d. Daspo urbano e quelle relative alle manifestazioni contro le grandi opere.
Come dicevo, tante sono state le manifestazioni in Italia nell’anno appena trascorso. Molte delle quali hanno riguardato il sostegno alla popolazione palestinese, denunciando il genocidio in corso. La reazione del potere è stata quella di rispondere con la violenza, come accaduto a Pisa nel febbraio dell’anno scorso.
La repressione del dissenso
Per tutta risposta, l’attuale governo ha pensato bene di premiare la violenza del potere, aumentando le pene nei confronti di chi, dal potere, cerca di difendersi. E così l’art. 19 del ddl sicurezza prevede una circostanza aggravante dei delitti di violenza o minaccia e di resistenza a pubblico ufficiale se il fatto è commesso nei confronti di un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza. Non solo, è anche previsto che detta aggravante sia prevalente su eventuali circostanze attenuanti, generando così uno squilibrio, in sede giudicante, a svantaggio di chi, reagendo alla violenza del potere, ha tentato di difendersi.
Il concetto di resistenza a pubblico ufficiale è molto fumoso e dà adito ad un’ampia discrezionalità amministrativa. Anche il solo rifiuto di esibire un documento o la resistenza passiva possono essere annoverati in questa fattispecie.
Oltre a ciò, per disincentivare quelle manifestazioni contrarie alla realizzazione di grandi opere, è prevista un’altra circostanza aggravante, ossia “se il fatto è commesso al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica“, così impedendo un basilare diritto, da parte delle comunità locali, di opporsi a grandi opere, magari impattanti o inutili o dannose, con l’unico strumento che hanno a disposizione: il dissenso di fatto.
L’unica arma perché ormai sappiamo bene che la cosiddetta partecipazione democratica nelle sedi istituzionali è solo una vuota retorica e che le osservazioni dei cittadini nelle sedi del dibattito pubblico sono perdite di tempo. E’ sufficiente che il governo, dall’alto, apponga una sedicente dichiarazione di “interesse pubblico” sull’opera, per vanificare ogni processo dialettico istituzionale.
Il blocco stradale
Altra norma contro il legittimo dissenso è quella che punisce penalmente il cosiddetto blocco stradale o ferroviario, una pratica certo spiacevole, perché colpisce la gente comune, ma talvolta necessaria per far sentire la voce di manifestanti che, altrimenti, non riceverebbero l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica. Spesso si è rivelata un’arma efficace, perché non violenta, ad alto impatto e in grado di sollevare l’attenzione sulle ragioni dei manifestanti.
L’art. 14 del ddl in questione reintroduce il reato di blocco stradale e ferroviario, introdotto nel 1948 e depenalizzato nel 1999. Ad oggi si trattava di un illecito amministrativo, mentre con questa norma si prevede che
Chiunque impedisce la libera circolazione su strada ordinaria o ferrata, ostruendo la stessa con il proprio corpo, è punito con la reclusione fino a un mese o la multa fino a 300 euro. La pena è della reclusione da sei mesi a due anni se il fatto è commesso da più persone riunite.
Ma la norma più subdola è certamente l’art. 13, che estende l’ambito di applicazione della misura di prevenzione del divieto d’accesso alle aree urbane (DACUR, c.d. Daspo urbano). La norma estende a dismisura un potere amministrativo che influisce sulle libertà individuali e sociali.
Storia del daspo urbano
Nel 2017, all’epoca del governo Gentiloni, il ministro dell’interno era Marco Minniti, ossia il primo artefice di quelli che sarebbero stati chiamati “decreti sicurezza”. Fu, infatti, l’uomo che iniziò lo smantellamento del sistema SPRAR, ossia di accoglienza diffusa, e quello che iniziò i respingimenti in mare, anche in accordo con le autorità libiche.
Questo giusto per tornare a quanto detto prima, ossia che i decreti sicurezza non hanno colore politico, almeno nell’arco politico istituzionale.
Il DL n. 14/2017 ha introdotto una serie di disposizioni in materia di sicurezza urbana affidando ai sindaci, prefetti e questori uno strumento volto a prevenire una serie di fattispecie di diversa natura, quindi dall’ambito di applicazione imprecisato, che non costituiscono violazioni di legge ma che si ritengono disdicevoli.
In particolare era prevista una sanzione amministrativa da 100 a 300 euro per una serie di soggetti che, a discrezione della pubblica autorità, impediscono, anche parzialmente, l’accesso a servizi pubblici quali stazioni ferroviarie, fermate del trasporto urbano, ecc. La norma colpiva, in particolare, i senzatetto o i soggetti che pongono in essere comportamenti definiti di accattonaggio.
Lo stesso decreto prevedeva anche un altro strumento: l’ordine di allontanamento, sia per le predette situazioni che per altre, sempre a discrezionalità dell’organo accertatore. In caso di recidiva, è anche previsto che il questore possa applicare il divieto di accesso nelle stesse aree fino a 12 mesi.
L’ampliamento del Daspo urbano
Nel 2018 e nel 2020, rispettivamente da parte di Salvini e Lamorgese, l’ambito di applicazione, soggettivo e oggettivo, è stato ulteriormente ampliato, tanto da ricomprendere anche luoghi diversi da quelli originariamente previsti dalla norma.
L’attuale ddl prevede un’estensione del divieto di accesso per tutti coloro che risultano denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, per tutta una serie di delitti contro la persona o contro il patrimonio.
A primo sguardo sembrerebbe una norma di buon senso. In realtà la norma nasconde una finalità legata a quanto detto poc’anzi, ossia quella di impedire a soggetti, anche solo denunciati per ragioni politiche, di accedere a determinate aree.
E difatti il Daspo urbano è stato abbondantemente utilizzato anche in caso di legittimi dissensi nei confronti di eventi pubblici, quali le contestazioni di alcuni No-Tav o nei confronti di soggetti che manifestavano contro il gasdotto TAP.
La discrezionalità amministrativa, ovvero il potere della violenza
L’impianto amministrativo delle misure preventive di sicurezza è talmente ampio e fumoso da consentire un potere discrezionale molto forte, quasi arbitrario, da attuare anche nei confronti di soggetti ritenuti pericolosi da un punto di vista squisitamente politico.
Ciò mina alla base il principio democratico di separazione dei poteri, perché riduce fortemente il ruolo del parlamento e dei giudici a vantaggio di un pericoloso rafforzamento del potere dell’esecutivo.
Difatti la Commissione europea ha sempre ammonito l’Italia sull’obbligo di definire puntualmente e in modo chiaro l’ambito di applicazione di misure amministrarive atipiche, restrittive della libertà personale. Compito che spetta al Parlamento e non al Governo.
Anche la Corte costituzionale ha spesso bocciato dette misure. Spetta ai giudici applicare misure restrittive della libertà individuale, a seguito di un dibattimento, in sede di giusto processo, in cui si scontrano dialetticamente le tesi dell’accusa e della difesa.
Mentre in caso di sanzioni restrittive delle libertà personali applicate in via amministrativa, non v’è alcun dibattito, alcun giusto processo, alcuna tesi difensiva. Si applicano da un soggetto – questore o prefetto – dotato di un potere discrezionale abnorme e sotto le dipendenze del Ministero dell’Interno.
Segno che il Governo vuole perseguire la strada della sorveglianza e punizione per tutti quei soggetti che, per ragioni politiche o di difesa del territorio, si oppongono alle sue scelte.
L’occupazione di immobili
L’art. 10 del ddl in questione introduce il reato di occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui (o delle relative pertinenze). Viene punito con la reclusione da 2 a 7 anni ed è procedibile d’ufficio, ossia direttamente dall’organo accertatore e anche indipendentemente dalla volontà del proprietario.
Finora, per questo genere di fattispecie, era prevista la reclusione da 1 a 3 anni e il delitto era punibile a querela, ossia solo su denuncia da parte della persona offesa.
Anche questa parrebbe una norma di buon senso. Pare finalizzata a contrastare il fenomeno dell’occupazione abusiva di case altrui. In realtà il fatto che il reato sia perseguibile d’ufficio, punisce indipendentemente dall’effettivo danno e dalla volontà del proprietario. Quindi se una famiglia ai margini della povertà e senza un tetto occupa un immobile abbandonato, verrà condannata anche indipendentemente dal fatto che quell’immobile sia effettivamente abitato da qualcuno o che ci sia stato un danno.
In un periodo come quello attuale il mercato immobiliare è inaccessibile perché drogato dal fenomeno delle case vacanza e dalle speculazioni immobiliari (inclusa quella di lasciare volutamente sfitti gli immobili, per aumentare i prezzi). Due fenomeni che portano i prezzi degli immobili alle stelle. L’aumento del costo del mutuo, inoltre, impedisce a molte persone di acquistare casa e ciò ha fatto salire il costo delle locazioni. In molte città si arriva anche a 1000 euro al mese, più le utenze (oggi aumentate). Molto più della metà dello stipendio di un reddito medio.
In questo quadro drammatico, in cui sempre più persone non sono in grado di trovare casa, questa pare a tutti gli effetti una norma violenta, che tutela i grandi e punisce con pene esemplari i poveri e gli emarginati.
Per concludere
Dunque, per concludere, l’attuale quadro in cui ci troviamo ci mostra palesemente come all’aumentare del disagio sociale, della povertà diffusa, delle reazioni (giuste e legittime) da parte di ampi strati della popolazione, il potere reagisca in modo violento e autoritario, inasprendo le pene e impedendo la formazione di un dissenso dal basso che, potenzialmente, potrebbe diventare strutturato e politicamente cosciente. Ecco il motivo per cui si colpiscono duramente le manifestazioni pro-Palestina e quelle che puntano il dito contro il capitalismo, ossia la principale causa delle disuguaglianze, della povertà sempre più diffusa e dei cambiamenti climatici.
Queste sono reazioni spaventate del potere. Sotto certi versi ricordano la formazione dei movimenti fascisti nel primo decennio del Novecento. Ossia una produzione dello Stato borghese in risposta al proliferare dei movimenti comunisti e socialisti in Italia e in Europa. Il quadro è, ovviamente, mutato, ma le dinamiche restano le stesse. Il potere istituzionale mostra la sua vera natura quando si sente minacciato e sente minacciate le relazioni sociali tra capitale e lavoro, in un periodo di crisi del primo, che tende a spremere il secondo. Lo abbiamo visto con l’attuale manovra economica, che riduce salari, servizi, potere d’acquisto, a vantaggio dei ricchi e delle politiche di guerra.
La reazione è quella di difendere il capitale, distribuire le briciole (oggi sotto forma di bonus, un surrogato dei diritti) e reagire contro il giusto e legittimo dissenso nel solo modo che conosce e con il vero volto dello Stato borghese: la violenza.