129 anni fa nasceva ad Ales, in Sardegna, Antonio Gramsci, uno dei più grandi intellettuali del Novecento e – parer mio – il più attento studioso del marxismo, tale da aver adattato alla realtà italiana le teorie e le prassi marxiste, consapevole che la transizione al socialismo che la teoria marxiana propugnava in un’ottica internazionalista, non si sarebbe mai attuata allo stesso modo e con le medesime prassi in realtà nazionali con storie e tessuti sociali così diversi tra loro.
Per tal motivo Gramsci fu l’intellettuale che più di tutti seppe leggere il marxismo, approfondirlo, manipolarlo e riadattarlo alla realtà italiana che lui stesso conosceva a perfezione, non solo quella a lui contemporanea, ma soprattutto quella storica, a partire dal medioevo, con particolare attenzione al rinascimento e agli intellettuali che hanno influenzato la politica nei secoli a venire, tra cui Machiavelli.
Gramsci non fu solo un politico o un giornalista o, come genericamente si usa definire un personaggio del genere, un intellettuale, fu uno studioso di filosofia, un politologo, un linguista, un critico letterario e teatrale, tant’è che a lui si deve la notorietà di Pirandello, come a lui si deve la prima analisi della questione meridionale nonché una lettura del fascismo non solo come fenomeno politico, ma di costume.
A proposito di fascismo, fu proprio Antonio Gramsci che, già ben prima della marcia su Roma, comprese la natura del fascismo e presagì quello che poi sarebbe avvenuto, basando la sua analisi non su improbabili presentimenti, ma sull’analisi del dopoguerra, della debolezza della classe dirigente liberale, dell’immobilismo dei socialisti, delle spinte propulsive di un capitalismo allora in crisi, che avrebbe generato in seno alla borghesia italiana un virus in grado di ammorbare e poi annichilire le lotte operaie, proprio come avvenne.
Il fascismo fu una creatura del capitalismo e sfruttò le paure della classe media – la cosiddetta piccola borghesia – che allora si stava costituendo, per imporre il suo dominio e favorire l’ascesa del dominio capitalista, a scapito delle classi più deboli e, in ultima analisi, anche di quelle che il fascismo l’avevano appoggiato.
Già perché i piccoli borghesi erano un esercito multiforme che comprendeva piccoli risparmiatori, padroncini, proprietari terrieri, impiegati, liberi professionisti e, in molti casi, gente che era stata spogliata delle attività produttive dal grande capitale e viveva delle rendite più varie, ma anche inoccupati (quelli che oggi si chiamerebbero neet) e gente che non intendeva sporcarsi le mani con il lavoro. Data la loro multiforme composizione, erano un pezzo di società disomogeneo, liquido (termine usato da Bauman, ma analizzato dai sociologi di inizio secolo), volubile, incapace di costruire una strategia comune, disposto a seguire le teorie più bizzarre e le ideologie più radicali e pronto a vendersi all’offerente più munifico.
Dall’analisi di questa multiforme congerie sociale Gramsci studiò l’ascesa del fascismo, con le sue parole d’ordine semplici e immediate e con le risposte più radicali a problemi strutturati e complessi, esattamente come avviene oggi con il sovranismo di destra o con il qualunquismo dei 5 stelle, rappresentanti anch’essi di una classe media (oggi più povera), scomposta e incapace di analizzare la realtà, quindi pronta a seguire chi offre le soluzioni più radicali e immediate.
In un suo articolo, intitolato “il popolo delle scimmie” (Scritti politici II, 2.1.21), quasi due anni prima della marcia su Roma, Gramsci comprese sia la portata del fascismo che il cretinismo che l’avrebbe condannato, scrivendo parole che oggi risuonano attualissime:
Il processo di sfacelo della piccola borghesia si inizia nell’ultimo decennio del secolo scorso. La piccola borghesia perde ogni importanza e scade da ogni funzione vitale nel campo della produzione, con lo sviluppo della grande industria e del capitale finanziario: essa diventa pura classe politica e si specializza nel «cretinismo parlamentare». Questo fenomeno, che occupa una gran parte della storia contemporanea italiana, prende diversi nomi nelle sue varie fasi: si chiama originalmente «avvento della sinistra al potere», diventa giolittismo, è lotta contro i tentativi kaiseristici di Umberto I, dilaga nel riformismo socialista. La piccola borghesia si incrosta nell’istituto parlamentare: da organismo di controllo della borghesia capitalistica sulla Corona e sull’amministrazione pubblica, il Parlamento diviene una bottega di chiacchiere e di scandali, diviene un mezzo al parassitismo. Corrotto fino alle midolla, asservito completamente al potere governativo, il Parlamento perde ogni prestigio presso le masse popolari. Le masse popolari si persuadono che l’unico strumento di controllo e di opposizione agli arbítri del potere amministrativo è l’azione diretta, è la pressione dall’esterno. La settimana rossa del giugno 1914, contro gli eccidi, è il primo, grandioso intervento delle masse popolari nella scena politica, per opporsi direttamente agli arbítri del potere, per esercitare realmente la sovranità popolare, che non trova piú una qualsiasi espressione nella Camera rappresentativa: si può dire che nel giugno 1914 il parlamentarismo è, in Italia, entrato nella via della sua organica dissoluzione e col parlamentarismo la funzione politica della piccola borghesia.
La piccola borghesia, che ha definitivamente perduto ogni speranza di riacquistare una funzione produttiva (solo oggi una speranza di questo genere si riaffaccia, coi tentativi del Partito popolare per ridare importanza alla piccola proprietà agricola e coi tentativi dei funzionari della Confederazione generale del lavoro per galvanizzare il morticino – controllo sindacale) cerca in ogni modo di conservare una posizione di iniziativa storica: essa scimmieggia la classe operaia, scende in piazza. Questa nuova tattica si attua nei modi e nelle forme consentiti a una classe di chiacchieroni, di scettici, di corrotti: lo svolgimento dei fatti che hanno preso il nome di «radiose giornate di maggio», con tutti i loro riflessi giornalistici, oratori, teatrali, piazzaioli durante la guerra, è come la proiezione nella realtà di una novella della jungla del Kipling: la novella del Bandar-Log, del popolo delle scimmie, il quale crede di essere superiore a tutti gli altri popoli della jungla, di possedere tutta l’intelligenza, tutta l’intuizione storica, tutto lo spirito rivoluzionario, tutta la sapienza di governo, ecc. ecc. Era avvenuto questo: la piccola borghesia, che si era asservita al potere governativo attraverso la corruzione parlamentare, muta la forma della sua prestazione d’opera, diventa antiparlamentare e cerca di corrompere la piazza. Nel periodo della guerra il Parlamento decade completamente: la piccola borghesia cerca di consolidare la sua nuova posizione e si illude di aver realmente raggiunto questo fine, si illude di aver realmente ucciso la lotta di classe, di aver preso la direzione della classe operaia e contadina, di aver sostituito l’idea socialista, immanente nelle masse, con uno strano e bislacco miscuglio ideologico di imperialismo nazionalista, di «vero rivoluzionarismo», di «sindacalismo nazionale». La azione diretta delle masse nei giorni 2-3 dicembre, dopo le violenze verificatesi a Roma da parte degli ufficiali contro i deputati socialisti, pone un freno all’attività politica della piccola borghesia, che da quel momento cerca di organizzarsi e di sistemarsi intorno a padroni piú ricchi e piú sicuri che non sia il potere di Stato ufficiale, indebolito ed esaurito dalla guerra. L’avventura fiumana è il motivo sentimentale e il meccanismo pratico di questa organizzazione sistematica, ma appare subito evidente che la base solida dell’organizzazione è la diretta difesa della proprietà industriale e agricola dagli assalti della classe rivoluzionaria degli operai e dei contadini poveri. Questa attività della piccola borghesia, divenuta ufficialmente «il fascismo», non è senza conseguenza per la compagine dello Stato. Dopo aver corrotto e rovinato l’istituto parlamentare, la piccola borghesia corrompe e rovina anche gli altri istituti, i fondamentali sostegni dello Stato: l’esercito, la polizia, la magistratura. Corruzione e rovina condotte in pura perdita, senza alcun fine preciso (l’unico fine preciso avrebbe dovuto essere la creazione di un nuovo Stato: ma il «popolo delle scimmie» è caratterizzato appunto dall’incapacità organica a darsi una legge, a fondare uno Stato): il proprietario, per difendersi, finanzia e sorregge una organizzazione privata, la quale, per mascherare la sua reale natura, deve assumere atteggiamenti politici «rivoluzionari» e disgregare la piú potente difesa della proprietà, lo Stato.
La classe proprietaria ripete, nei riguardi del potere esecutivo, lo stesso errore che aveva commesso nei riguardi del Parlamento: crede di potersi meglio difendere dagli assalti della classe rivoluzionaria, abbandonando gli istituti del suo Stato ai capricci isterici del «popolo delle scimmie», della piccola borghesia. Sviluppandosi, il fascismo si irrigidisce intorno al suo nucleo primordiale, non riesce piú a nascondere la sua vera natura. Conduce una campagna feroce contro l’on. Nitti presidente del Consiglio, campagna che giunge fino all’aperto invito ad assassinare il primo ministro; lascia tranquillo l’on. Giolitti e gli permette di portare «felicemente» a termine la liquidazione dell’avventura fiumana; l’atteggiamento del fascismo verso Giolitti ha subito segnato la fortuna di D’Annunzio e ha posto in rilievo il vero fine storico dell’organizzazione della piccola borghesia italiana. Quanto piú forti sono diventati i «fasci», quanto meglio inquadrati sono i loro effettivi, quanto piú audaci e aggressivi essi si dimostrano contro le Camere del lavoro e i comuni socialisti, tanto piú caratteristicamente espressivo è stato il loro atteggiamento verso il D’Annunzio invocante l’insurrezione e le barricate. Le pompose dichiarazioni di «vero rivoluzionarismo» si sono concretate in un petardo inoffensivo fatto esplodere sotto un androne della Stampa! La piccola borghesia, anche in questa sua ultima incarnazione politica del «fascismo», si è definitivamente mostrata nella sua vera natura di serva del capitalismo e della proprietà terriera, di agente della controrivoluzione. Ma ha anche dimostrato di essere fondamentalmente incapace a svolgere un qualsiasi compito storico: il popolo delle scimmie riempie la cronaca, non crea storia, lascia traccia nel giornale, non offre materiali per scrivere libri. La piccola borghesia, dopo aver rovinato il parlamento, sta rovinando lo Stato borghese: essa sostituisce, in sempre piú larga scala, la violenza privata all’«autorità» della legge, esercita (e non può fare altrimenti) questa violenza caoticamente, brutalmente, e fa sollevare contro lo Stato, contro il capitalismo, sempre piú larghi strati della popolazione.
Ancora, in un altro scritto (Scritti politici II, Forze elementari, 26.04.21) Gramsci disse:
Il fascismo si è presentato come l’antipartito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo, con la sua promessa di impunità, a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odii, dei desideri. Il fascismo è divenuto cosí un fatto di costume, si è identificato con la psicologia barbarica e antisociale di alcuni strati del popolo italiano, non modificati ancora da una tradizione nuova, dalla scuola, dalla convivenza in uno Stato bene ordinato e bene amministrato. Per comprendere tutto il significato di queste affermazioni basta ricordare: che l’Italia aveva il primato per gli omicidi e per gli eccidi; che l’Italia è il paese dove le madri educano i figlioletti a colpi di zoccolo sulla testa, è il paese dove le generazioni giovani sono meno rispettate e protette; che in alcune regioni italiane sembrava naturale, fino a qualche anno fa, mettere la museruola ai vendemmiatori perché non mangiassero l’uva; che in alcune regioni i proprietari chiudevano a chiave nelle stalle i loro dipendenti al ritorno dal lavoro, per impedire le riunioni e la frequentazione delle scuole serali.
Sembrano parole attuali, se pensiamo ai metodi educativi contemporanei, che delegittimano le figure autorevoli, soprattutto scolastiche, all’antiscientismo, al dilagare dell’ignoranza, elevata a valore sociale, a come vengono trattati gli operai, siano essi italiani o stranieri, al sessismo ancora radicato o al preoccupante aumento di reati a sfondo razzista.
Anche se il fascismo, nelle sue forme storiche, non potrà tornare, non è detto che nuove e diverse forme di fascismo non possano serpeggiare in strati sociali, oggi come allora, così similari.
In un altro suo articolo (Scritti politici II, Il Partito Comunista, 4.9.20 e 9.10.20), Gramsci scrisse che:
I partiti politici sono di riflesso e la nomenclatura delle classi sociali. Essi sorgono, si sviluppano, si decompongono, si rinnovano, a seconda che i diversi strati delle classi sociali in lotta subiscono spostamenti di reale portata storica, vedono radicalmente mutate le loro condizioni di esistenza e di sviluppo, acquistano una maggiore e piú chiara consapevolezza di sé e dei propri vitali interessi. Nell’attuale periodo storico e in conseguenza della guerra imperialista che ha profondamente mutato la struttura dell’apparecchio nazionale e internazionale di produzione e di scambio, è divenuta caratteristica la rapidità con cui si svolge il processo di dissociazione dei partiti politici tradizionali, nati sul terreno della democrazia parlamentare, e del sorgere di nuove organizzazioni politiche: questo processo generale ubbidisce a una intima logica implacabile, sostanziata dalle sfaldature delle vecchie classi e dei vecchi ceti e dai vertiginosi trapassi da una condizione ad un’altra di interi strati della popolazione in tutto il territorio dello Stato, e spesso in tutto il territorio del dominio capitalistico.
Sembra quasi che Gramsci, con queste parole, abbia descritto la fine della Prima Repubblica, a seguito di Tangentopoli e l’ascesa del berlusconismo come ideologia politica nuova e in contrasto con la politica tradizionale, oppure il movimento 5 stelle o il salvinismo, entrambi espressione dello svecchiamento della politica e di rappresentanza di classi sociali contrapposte ma omogenee nella volontà di tutelare i propri interessi, anch’essi contrapposti e quindi inconciliabili nelle improvvisate coalizioni che hanno contraddistinto gli ultimi anni di gestione della cosa pubblica in Italia. In realtà descriveva una fase storica di inizi del Novecento, ma non dissimile dall’attuale modello neo-liberista, che dunque continuerà a ripetersi, come si ripeteranno le crisi economiche, il divario tra ricchi e poveri, la confusione serpeggiante nella piccola borghesia e la conseguente formazione di soggetti politici che inseguiranno le sue altrettanto cangianti esigenze.
Infine vorrei citare quest’altro passaggio (Scritti Politici III, La crisi italiana, 1.9.24) in cui Gramsci fotografa, allora, uno stato di crisi non molto dissimile da quello in cui noi oggi viviamo:
Il regime fascista muore perché non solo non è riuscito ad arrestare, ma anzi ha contribuito ad accelerare la crisi delle classi medie iniziatasi dopo la guerra. L’aspetto economico di questa crisi consiste nella rovina della piccola e media azienda: il numero dei fallimenti si è rapidamente moltiplicato in questi due anni. Il monopolio del credito, il regime fiscale, la legislazione sugli affitti hanno stritolato la piccola impresa commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di ricchezza si è verificato dalla piccola e media alla grande borghesia, senza sviluppo dell’apparato di produzione; il piccolo produttore non è neanche divenuto proletario, è solo un affamato in permanenza, un disperato senza previsioni per l’avvenire.
E visto che oggi – curiosamente proprio nell’anniversario della nascita di Gramsci – le Partite IVA manifestano a Roma contro la pressione fiscale, che è solo la punta dell’iceberg di un sistema volto a favorire la grande borghesia a discapito dei piccoli imprenditori, vorrei ricordare che queste situazioni le abbiamo già vissute nella storia e che Gramsci le ha analizzate nel profondo, ribadendo più volte che l’unica via per salvare la piccola impresa, l’industria, il commercio, come la classe operaia o la classe degli sfruttati, è la via del socialismo.
Non è un caso, difatti, che la requisitoria con cui il pubblico ministero Isgrò concluse l’accusa a Gramsci, che gli valse 20 anni di carcere e la morte fu: «Bisogna impedire a questo cervello di funzionare per venti anni».