Lasciate che vi racconti una storia. E’ tipo un romanzo, solo che è vera. Inizia, come nella migliore tradizione della letteratura romantica, in un paesino povero. Il protagonista è uno, non nel senso che intendiamo oggi. Non è un individuo. E’ un gruppo. Poi il racconto si concentrerà solo su un individuo, ma il protagonista è la comunità. La storia avrà un colpo di scena. Entrerà in gioco l’antagonista e l’eroe passerà dei guai. Come finisce? E’ ancora tutta da scrivere e i romanzieri che dovranno finirla saremo noi.

E’ la storia di un borgo povero e destinato ad essere dimenticato, se non avesse dato il suo nome a due statue, rinvenute nella sua marina e divenute un simbolo evidente della perfezione artistica della Magna Grecia.

Un paesello del Sud del Sud del Mondo, dominato dalla povertà, dall’abbandono da parte dello Stato, dall’emigrazione forzata, dalle famiglie mafiose che strozzano ogni tentativo di progresso, dal parassitismo di certe classi sociali, dalla burocrazia bizantina di una classe dirigente annoiata e incapace. Arroccato ai piedi dell’Aspromonte, a due passi da un mare cupo e fondo come lo sguardo realista e fatalista di certi calabresi.

Stiamo parlando di Riace, il paese che, per l’idea di un nugolo di intellettuali, di cui qualcuno magari disoccupato, come nella banda del sogno interrotto, iniziò lentamente a dare ad un Mondo sempre più distratto, edonista e disumanizzato, un mesto esempio di umanità.

Lo fece con lo stile calabrese. A bassa voce, senza clamori, sfruttando quel poco che il paese ha e condividendolo con chi non ha.

Era la fine del millennio, quella che l’agente Smith, nel dialogo con Morpheus, chiamò l’apice della nostra civiltà. L’apice della società dell’opulenza, dei consumi, di quella post-modernità che avrebbe fatto fiorire i germi che andava covando da decenni, da quando, cioè, la lotta egemonica tra due grandi narrazioni era terminata con il netto dominio di quella liberista, mettendo così il turbo alla sovrapproduzione di merci e alla necessità di smaltirle nella grande giostra del ciclo produci-consuma-crepa.

La processione

processione medici riace tarantella
Particolare della processione dei SS Medici a Riace (2019)

Ma questo ai sonnecchianti abitanti della sperduta Riace poco interessava. Erano ridotti a poche centinaia e i più erano andati via alla ricerca – chissà – chi di stabilità, chi di lavoro, chi dello scintillio di quella narrazione che metteva al centro un edonismo e una costante ricerca di piaceri che Riace – come del resto la Calabria o il Sud Italia rurale – certo non poteva offrire.

Quello che offriva era ben altro. Terra, tanta sì, ma ormai lavorata con gran fatica da quel nugolo di anziani che era lo zoccolo duro del paese. Qualche allevamento, un esiguo numero di attività commerciali – le solite, tabacchi, bar, alimentari – e poi nient’altro. Niente sesso libero, né rapporti umani feticci. Niente tempi del consumo, lounge-bar e fast food con cibi di plastica ma ben confezionati.

A ravvivare a suon di tarantelle la spenta vita del paese era la sentitissima festa dei Medici Cosma e Damiano. Per tre giorni di fila, al volgere di settembre, i pochi riacesi si mischiavano alla sterminata mole di Rom e Sinti che, per devozione, giungevano da ogni angolo della Calabria, e anche da fuori, colorando la lenta processione degli abiti tipici e rallegrando le statue dei Santi a suon di organetti du’ botte e tamburini. Ogni tanto qualche strofa un po’ osé rammentava ai fedeli che sì, quelle manifestazioni religiose avevano un retaggio pagano, mai addomesticato dalla rigida dottrina cattolica.

Sarà stato anche per questo che quel nugolo di intellettuali ha ben pensato che un paese è vivo e vitale se c’è gente? E che se la gente si può integrare per tre giorni, in fondo lo può fare anche più a lungo? Chissà. E come invertire la rotta in un paese che, invece, continuava a svuotarsi?

Lo sbarco dei curdi

La risposta la diede la storia. Quella storia geopolitica che ha visto, da un paio di secoli a oggi, gli opulenti stati occidentali rubare risorse alle colonie, senza dare nulla in cambio. E poi, inspiegabilmente, trovarsi i coloni in casa, provenienti dal mare.

Una notte – era l’una e mezza del 1 luglio del 1998sbarcarono a Riace marina 184 curdi. 66 uomini, 46 donne e 72 bambini. I riacesi si diedero subito da fare: scesero alla stazione di carburante di Riace marina, dove quei poveri cristi erano stati radunati, e portarono con sé il poco che avevano: cibo, coperte, vestiti, ma soprattutto una cosa che l’opulenza ha ritirato dagli scaffali ma che ancora esiste nelle dispense di quelle case che si ostinano a non confondere felicità con piacere: la solidarietà. Il calore umano.

Fu quello – chissà – il momento in cui quegli squattrinati intellettuali diedero vita al modello Riace. Il concetto era semplice: noi abbiamo bisogno di voi. Voi avete bisogno di noi. Noi siamo poveri, voi pure. Una cosa abbiamo in comune, siamo esseri umani. Facciamo sintesi.

L’anno dopo questi squattrinati fondarono l’associazione Città Futura, dedicata a Don Pino Puglisi con l’intenzione di aprire le case degli emigrati, che ormai erano abbandonate, e recuperare i mestieri di una volta. Sempre nell’ottica in cui sono le persone a fare la differenza. Persone. Non razze né colori differenti. Solo persone. Aprirono così la cooperativa Il Borgo e il cielo per gestire i nuovi laboratori di tessitura, ceramica, vetro e confetture.

Mimmo Lucano ‘u Curdu

Uno di questi squattrinati, perito chimico, era forse il più tenace e quello con una visione politica talmente chiara da divenire ben presto il portavoce delle istanze di riacesi e curdi che finalmente avevano ravvivato il paese. Mimmo Lucano, detto ‘u Curdu.

Nel 2004, dopo quattro anni in consiglio comunale come esponente della minoranza, divenne sindaco. Da lì lo sarebbe rimasto fino al 2018, quando il Ministero dell’Interno lo avrebbe sollevato dall’incarico, di forza e sulla base di indagini ministeriali che gettavano ombre sul modello Riace. Salvo poi ricredersi. Ma ormai la macchina del fango aveva preso moto e la procura di Locri ne aveva chiesto l’arresto.

In questi 14 anni Mimmo ha fatto tanto. Sempre in silenzio e a testa bassa. Se Riace è balzato agli onori della cronaca mondiale è stato perché qualcun altro si è accorto di lui. Non è stato lui a fare self-marketing. La differenza è sostanziale.

Lo hanno premiato in tutto il mondo. Nel 2006 gli conferirono il premio in ricordo di Tom Benetollo. Quattro anni dopo la Provincia di Roma gli diede il Premio sostenibilità ambientale. Lo stesso anno arrivò terzo al Premio World Mayor (migliori sindaci al mondo). Nel 2015, a Berna, gli diedero il Premio per la Pace ed i Diritti Umani. L’anno successivo la rivista americana Fortune lo piazzò al quarantesimo posto tra i leader più influenti al mondo. Ancora, l’anno dopo arrivò il Premio per la Pace Dresda e nel 2018 gli fu conferita la Cittadinanza onoraria dal comune di Milano.

Qualcuno, avvezzo alla sindrome di Hybris, si sarebbe montato la testa. Avrebbe puntato in alto, per ottenere gloria, prestigio, un buon posto in politica da parassita. E gliel’hanno pure offerto. Una candidatura sicura alle politiche. Niente, rifiutata. Alle europee? Pure. Un buon posto in una ONG internazionale? Uguale.

Il progetto SPRAR

Il villaggio globale di Riace (uno degli ingressi nel centro storico)
Il villaggio globale di Riace (uno degli ingressi nel centro storico)

Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati nacque nel 2002 e consentiva, tramite un accordo con ANCI e UNHCR, di diffondere su tutto il territorio nazionale i centri d’accoglienza. I comuni, quindi, potevano adottare servizi di accoglienza, anche servendosi di uno o più enti attuatori di natura privata (associazioni, cooperative, consorzi, ecc.). A coordinare, a livello centrale, l’identificazione e lo smistamento dei rifugiati e richiedenti asilo, in base alla disponibilità di posti nelle strutture locali, era la prefettura.

Così i migranti avevano la possibilità di restare in Italia per tutta la durata del procedimento di esame della domanda per la protezione internazionale e, in caso di rigetto, anche per il periodo dell’impugnazione, fino allo scadere dei termini di rito.

Il Ministero dell’Interno si dotava altresì di un Fondo nazionale per le Politiche e i Servizi dell’Asilo, che copriva le spese di mantenimento e che, nel tempo, si stabilizzò su 35 euro al giorno. Spesa che andava rendicontata. Di questa cifra solo 2,50 € poteva restare al migrante, per coprire le piccole spese quotidiane.

Accanto allo SPRAR vi era anche il sistema dei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), che permetteva di aprire ulteriori strutture in caso di arrivi consistenti e ravvicinati di migranti. Così era possibile allestire strutture temporanee, su convenzione tra Ente locale e Prefettura. In questo caso non occorreva soddisfare i requisiti di rendicontazione di cui al progetto SPRAR. La prefettura liquidava un importo fisso, che nel caso di specie consisteva in 30 euro al giorno.

I falsi SPRAR

Inutile dire che di progetti SPRAR ne sono sorti, in tutta Italia, a centinaia. Nel 2016 i progetti attivi risultavano 652, per un totale di circa 26.000 posti. Peccato, però, che molti erano pretestuosi. In rete c’è una sterminata letteratura di progetti SPRAR in cui le spese venivano distratte per fini personali dagli attuatori dei progetti.

Prendiamo il caso di Mafia capitale. Veniamo a sapere che gli attuatori dicevano che si fanno più soldi con i migranti che con la droga. Già. I migranti, concepiti come oggetti (cosa, del resto, oggi ampiamente radicata) venivano ammassati in capannoni fatiscenti, lasciati a far nulla tutto il giorno, senza alcuna forma di protezione, integrazione. O in Campania, in cui si lucrava persino sulla diaria quotidiana.

Ma anche in caso di progetti sani, il grosso veniva speso per coprire le spese del personale, dedicato alla rendicontazione. In altre parole, anche quando uno SPRAR veniva gestito legalmente, comunque il grosso dei 35,00 € al giorno veniva usato per coprire la burocrazia. Chi voleva approfittarne per consolidare la propria posizione sociale e politica sul territorio, aveva, nello SPRAR, un postificio bello e pronto: lavoro d’ufficio in cambio di reverenza.

E’ chiaro che in contesti del genere la reazione popolare degli strati subalterni, foraggiata dalla destra reazionaria e populista, vedeva di mal occhio l’accoglienza. In contesti di degrado, anche il più piccolo caso di cronaca che vedeva coinvolto un migrante, veniva prontamente ingigantito dai media, per puntare il dito contro gli sfruttati, celando le colpe degli sfruttatori.

Lo SPRAR secondo Mimmo Lucano

cartello riace marina
Uno dei cartelli d’ingresso di Riace

A Riace le cose andavano diversamente. Il Comune mise a disposizione, oltre ad un centro di prima accoglienza situato nei pressi del Santuario dei SS Cosma e Damiano (a poche centinaia di metri dal paese), anche le case abbandonate del centro storico. Che rimise a nuovo e le rese abitabili. Con i soldi dello SPRAR, a costi ridotti. A lavorarci erano, infatti, gli stessi migranti e le maestranze locali. Aprì i laboratori di artigianato. Rimise a nuovo un frantoio. Aprì una casa del pellegrino, per ospitare turisti e visitatori.

Riaprì l’asilo nido e l’ambulatorio medico. I migranti lavoravano al servizio pubblico per la raccolta differenziata o la pulizia della spiaggia di Riace marina. Nel privato, aiutavano i contadini nei lavori in campagna. Riaprivano gli allevamenti. I miei occhi, nel 2018, videro – in un paese colorato, bello e vitale – un ragazzo di colore stretto sotto braccio al maestro anziano, sporchi di calce, tornare dal lavoro. Vedevano le nerbolute signore nigeriane, con prole in braccio, chiacchierare del più e del meno con le anziane del paese, sotto il gazebo del bar della piazza.

Sentivo l’odore della cipolla soffritta provenire dalle case del centro storico, dove a cucinare c’era gente. Di colore bianco o nero, cosa importa? C’era vita. Una vita che nel mio paesello pugliese, nel centro storico, oramai è sostituita da cartelli vendesi e tanta, tanta desolazione.

Per favorire l’economia locale, Mimmo Lucano inventò il sistema della moneta locale e le borse lavoro (per approfondire vedi quest’articolo). I migranti, almeno quelli che decisero di restare in paese (stabili erano più di 500), potevano usare quei soldi per alimentare il circuito economico locale, generando maggiori entrate e, dunque, un benessere diffuso.

La rappresentazione della realtà in frantumi

L’attenzione globale si spostò su questo piccolo e semisconosciuto paesello meridionale. Il regista Win Wenders ci realizzò un cortometraggio. La RAI una fiction con Beppe Fiorello nel ruolo di Lucano. Poi, però, sospesa in attesa dell’esito del processo.

Frotte di studiosi, attivisti, ricercatori, scuole, da ogni parte del globo, facevano tappa a Riace per capire come funzionasse il modello. Stupefatti – sicuramente – dalla frantumazione della rappresentazione della realtà. Ma come, è possibile l’integrazione? Come avete fatto? Non ci sono conflitti sociali? I migranti non commettono ogni giorno reati? Lavorano, per giunta? E dove sono quelli con l’Ipod nelle orecchie e i vestiti griffati a bighellonare tutto il giorno, mentre gli italiani lavorano?

Mimmo spiegava, con parole semplici ma potenti (come lo è sempre, la verità), che è sufficiente far dialogare le persone per eliminarne le distanze e capire che, in fondo, siamo tutti uguali. Che ci sono gli sfruttati e gli sfruttatori e questa è l’unica, grande, differenza sociale. Che se metti gli sfruttati insieme e gli dai le condizioni per condurre una vita serena, questi si integrano, lavorano, dialogano, diventano persino amici. E, come per magia, non delinquono. Chissà, magari le condizioni di dignità contribuiscono a ridurre la delinquenza di necessità? Bah, vallo a sapere.

Questi principi, supportati da concreti e reali risultati, si diffusero presto in altre comunità d’Italia. La Rete dei Comuni solidali, nata agli inizi del 2000, si allargò, tanto che oggi conta 297 Comuni, di cui 30 calabresi.

Colpirne uno per educarne trecento

La dialettica servo-padrone, come spiegava Hegel, è fatta di lotte. Se il servo prende coraggio, si organizza e diventa consapevole della realtà, può sconfiggere il padrone ed assumere il potere.

La consapevolezza sta nel riconoscere che il servo non nasce tale. Lo diventa. Che le ingiustizie che subisce non sono naturali, sono umanamente determinate. Oppure che la realtà raccontata dal padrone è ben diversa dalla realtà reale. Il servo scopre, se reso consapevole, che può assumere il potere e correggere le storture, riportare giustizia dove non ve n’è, portare equità dove invece vige disparità, umanità dove c’è feticismo. Solidarietà dove vige la regola dell’homo homini lupus.

Ma il padrone, quando si accorge che il servo inizia a prendere consapevolezza, reagisce. Non può permettersi di perdere potere. E così mette in moto la macchina della reazione.

Lo fa con gli strumenti suoi propri: la burocrazia. La macchina dello Stato. Le ispezioni, i fascicoli. Che poi, diligentemente, passa all’altro potere dello Stato, la magistratura, quella inquirente. La quale adotta i suoi mezzi propri: intercettazioni (legali e non), ricostruzioni dei fatti (a volte fantasiose, ma poco importa), sequestri di documenti e, non ultimo, gli avvisi di garanzia che – chi lo ha ricevuto lo sa bene – producono timore e hanno l’effetto di re-individualizzare gli indagati, secondo l’ormai nota legge del divide et impera.

Il tutto, immaginiamo, con l’obiettivo di sfaldare un modello, screditare Mimmo Lucano, dimostrare davanti all’opinione pubblica che no, non è possibile integrare le comunità. Che se la solidarietà funziona, c’è sicuramente qualcosa di marcio sotto.

L’inchiesta Xenia

E così l’inchiesta ha preso corpo, sulla base di una relazione della Prefettura che evidenziava alcune storture nel modello Riace. Salvo poi ricredersi in una successiva, in cui il modello veniva lodato. E poi sulla base della testimonianza di un commerciante del luogo. Che però è stato più volte dichiarato inattendibile da quella magistratura che il suo lavoro lo sa fare.

Quali erano le accuse? Tante, persino troppe. Abuso d’ufficio, peculato, concussione, frode in pubbliche forniture, falso e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Fino ad arrivare all’associazione a delinquere. Il tutto ruotante intorno alla figura di Mimmo Lucano, considerato il capo dell’organizzazione nonché la mente del sodalizio criminale. Addirittura. A leggere le carte della procura pare di trovarsi dinanzi alla mente di Provenzano, nel corpo di Vallanzasca, con l’indole di Dell’Utri e il carattere di De Pedis. Un mostro, insomma.

Eppure la realtà reale dice tutt’altro. Quello che un onesto GIP, per esempio, evidenzia nell’emettere l’ordinanza di custodia cautelare, certo, ma non senza aver smontato pezzo per pezzo (quasi) tutto il castello accusatorio.

Difatti il GIP, dott. Domenico Di Croce (ora non più al Tribunale di Locri) emanava la misura dei domiciliari (e non, come chiesto, del carcere) sulla base di due presunti reati. Il primo perché Lucano aveva affidato, in maniera irregolare, l’appalto per la raccolta differenziata a due cooperative del posto, che non avevano il requisito dell’iscrizione all’albo regionale delle cooperative sociali. Il secondo per aver tentato di far entrare illegalmente in Italia il fratello della compagna, usando la normativa sul ricongiungimento familiare, cosa peraltro mai avvenuta.

Che poi, al di là dell’iscrizione o meno delle due cooperative all’albo regionale, nessuno ha mai contestato che il servizio non sia stato effettivamente reso: il comune si era dotato del servizio di raccolta differenziata porta a porta, tra l’altro anche con l’uso di asinelli, in modo efficiente ed ecosostenibile.

Il castello che viene giù

Il resto delle accuse, sottolineava il GIP, erano prive di riscontri probatori. In particolare il teste principale su cui si fondava il grosso delle accuse, un commerciante di Riace, era ritenuto inattendibile dallo stesso GIP, sulla base di evidenti prove. Per quanto riguarda l’appropriazione indebita, la truffa, l’arricchimento di Lucano con soldi pubblici destinati allo SPRAR, il GIP riconosceva in modo alquanto certo, sulla base delle prove raccolte dalla PG nonché dalla documentazione agli atti, che semmai v’erano state irregolarità nella rendicontazione.

Specificava il GIP che gli inquirenti erano incorsi “(…) in un errore tanto grossolano da pregiudicare irrimediabilmente la validità dell’assunto accusatorio”, poi che “(…) gli investigatori qualificano, si ripete erroneamente, come illecitamente lucrato tutto il denaro corrisposto (…). Ad aggravare gli effetti di tale marchiana inesattezza è poi la circostanza che gran parte delle conclusioni cui giungono gli inquirenti appaiono o indimostrabili, perché allo stato poggianti su elementi inutilizzabili (…) o presuntive o congetturali (…), o – infine – sfornite di precisi riscontri estrinseci (…)”.

Lucano non ha mai preso un soldo. E questo è evidente dalle prove raccolte durante le indagini. Occorreva aggrapparsi ad altro. E così è uscito che Mimmo Lucano abbia celebrato un matrimonio di comodo, tra una nigeriana e un anziano del posto. Peccato che il matrimonio non sia mai stato celebrato. E così si è scavato, per arrivare a parlare di abuso d’ufficio, avendo Mimmo Lucano emesso (a sue spese) un paio di carte d’identità. Una di queste per salvare una ragazza che, per un diniego, è finita in una baraccopoli, morendo carbonizzata. Abuso d’ufficio per eccesso d’umanità. Sarebbe questo il corretto capo d’imputazione.

Cassazione e TAR bacchettano i poteri

Nel 2018 l’allora Ministro dell’Interno Salvini, in un moto d’efficienza unico nel suo genere (essendo noto per la sua reticenza a frequentare il posto di lavoro, preferendo invece le discoteche), escluse il Comune di Riace dal circuito SPRAR, con ciò chiudendo ogni possibilità di prosecuzione del modello Riace.

Peccato che né il TAR Calabria né il Consiglio di Stato fossero d’accordo con cotanto zelo.

Secondo i giudici “che il modello Riace fosse assolutamente encomiabile negli intenti e anche negli esiti del processo di integrazione è circostanza che traspare anche dai più critici tra i monitoraggi compiuti”. Il Consiglio di Stato ha ricordato inoltre che, a dimostrazione che il sistema di accoglienza funzionava, c’è anche una “relazione positiva” arrivata dalla prefettura di Reggio Calabria e che il ministero non avrebbe potuto escludere Riace dallo Sprar senza prima inviare una diffida.

Peccato che fosse troppo tardi. Il Ministro sapeva bene di aver commesso un illecito amministrativo. Ma poco importava. Ciò che importava era demolire un modello.

Nel 2019 il Tribunale del riesame, dopo aver ribadito che l’unico testimone contro Mimmo Lucano, il commerciante di Riace, fosse inattendibile, ha mutato la custodia cautelare dei domiciliari in divieto di dimora. Poi annullato dalla Cassazione, che ha pure bacchettato la Procura di Locri sulla conduzione delle indagini e sul castello accusatorio ritenuto sghembo.

Dal movente economico a quello politico (che nemmeno regge)

Tutto ciò non è bastato. La Procura, incaponita, ha proseguito sulla sua strada. E arriviamo a oggi.

7 anni e 11 mesi di carcere. È la richiesta di condanna formulata dalla Procura di Locri nei confronti dell’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano. Sette anni e undici mesi. Quasi otto anni di vita è la richiesta di una Procura che s’è vista crollare sotto i piedi il castello di rappresentazioni a tratti fantasiose (parole non mie, ma di un loro collega) da sotto i piedi.

Il procuratore Luigi D’Alessio, in un’intervista rilasciata subito dopo l’operazione Xenia, nel 2018, aveva parlato di “2 milioni spariti”. “Riteniamo – disse – che Lucano li abbia utilizzati per fini personali. Abbiamo riscontri di grosse spese di viaggi e di beni per la compagna di Lucano, incompatibili con il suo stipendio da sindaco”.

Peccato che nell’ultima udienza del 17 maggio scorso, davanti al giudice Fulvio Accurso che, durante il processo, ha più volte chiesto se c’è traccia, nelle indagini, del fatto che Lucano tendesse a mantenere i migranti a Riace “per lo specifico fine di avvantaggiare sé stesso”, il PM ha dovuto ammettere: “Se parliamo da un punto di vista economico, no”.

E allora che si fa? Si parla del movente politico.

Una tesi messa in piedi in fretta e furia, che il pm Michele Permunian ha ribadito all’ultima udienza: “Numerose conversazioni dimostrano in modo netto – ha affermato il pubblico ministero – che l’agire, anche illecito, di Lucano è determinato da interessi di natura politica. In altri termini, non era importante la qualità dell’accoglienza ma far lavorare i riacesi così da conseguire, quale contraccambio, un sostegno politico elettorale”.

Peccato che Lucano abbia rifiutato ogni proposta di un posto (sicuro) nelle Istituzioni pubbliche e nelle ONG.

Per concludere

Lascio che a concludere questa sin troppo sintetica (ancorché lunga) ricostruzione siano le parole di Mimmo Lucano. Per poi arrivare a chiudere il cerchio aperto all’inizio dell’articolo.

Non è un caso che comincia tutto nel 2016 quando l’area progressista apre le porte alla criminalizzazione della solidarietà in Italia e in Europa. Dopo arriva Salvini e completa l’opera. Non è nemmeno un caso che oggi a Riace l’accoglienza ancora resiste e la mission continua senza fondi pubblici e tra mille difficoltà. Questa è la risposta più forte. Oggi è stata la giornata della Procura. Ma l’ultimo capitolo si deve ancora scrivere.

Ecco. Lo dobbiamo scrivere insieme, un capitolo corale, forte, solidaristico, come se migliaia di mani fossero solo una. Dobbiamo raccontare questa storia, travalicare i confini regionali, nazionali, per diffondere il messaggio che sì, un altro mondo è possibile e Mimmo Lucano ci ha dimostrato quanto sia reale crearlo, con piccole azioni e grandi ideali. Spetta a noi sostenerlo, in qualunque modo possiamo: scriviamone, parliamone, andiamo a Riace se ci è possibile. Ma facciamo sapere a Mimmo Lucano che le persone di buona volontà sono con lui e con tutte quelle comunità che ancora resistono. Sotto il segno della solidarietà. E dell’unità.

In copertina la foto del libro Mimmo Lucano il fuorilegge, la lunga battaglia di un uomo solo.

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