Calabria terra mia… secondo me

Il corto di Gabriele Muccino, Calabria terra mia, presentato al Festival del Cinema di Roma, interpretato da Raoul Bova e dalla compagna Rocío Muñoz Morales, ha fatto infuriare i calabresi, per un’idea troppo stereotipata della Calabria.

Il corto, di soli 6 minuti (non 8, gli altri 2 sono occupati dai titoli di coda), costato 1,7 milioni di euro (cioè quasi 284 mila euro a minuto), racconta la storia d’amore tra Raoul e la sua compagna, il quale – attraverso la scoperta dei luoghi e in particolare del mare – cerca di farle conoscere una Calabria autentica, bella, tra frutteti, mare (che durante i 6 minuti viene richiamato spesso, ai limiti della nausea) e qualche scorcio dei paesi interessati dallo spot: Tropea, Scalea, San Nicola Arcella, Corigliano e Rossano Calabro, Cosenza e zone limitrofe (dove hanno girato le scene nei frutteti).

Nel complesso lo spot risulta melenso, stereotipato, astorico, oltre che caratterizzato da qualche erroruccio linguistico e interpretazioni da soap opera. Tuttavia non mi voglio concentrare sulla critica, di quelle ce ne sono state tante e a buon motivo. Mi limito a prendere spunto dal corto per raccontare la mia idea della Calabria, una regione che amo particolarmente e che visito ormai da anni. Ma prima di addentrarmi nel racconto, vi invito a guardare lo spot.

La Calabria secondo me

Come si può raccontare la Calabria senza cadere nella trappola della banalizzazione e degli stereotipi da bar? Come si può raccontarne la gente senza cadere nella facile tentazione di ridurla a coppola e lupara? Con quali occhi guardarla? Con quelli del viaggiatore distratto, che si concentra solo sulle bellezze naturali, borghi antichi e buon cibo, o con quelli del sociologo che ne sottolinea lo stato di abbandono, l’emigrazione di massa e il giogo mafioso?

Non è facile raccontare una terra così ricca di contraddizioni, bella e dannata, avvinghiata tra due mari e arricchita da catene montuose che, più si scende e più diventano aspre. L’Aspromonte ha un suono rude, duro, così come il carattere dei suoi abitanti, forgiato da millenni di dominazioni e da quasi duecento anni di soprusi. Quelli nati in concomitanza con lo sviluppo del capitalismo e la nascita degli stati nazionali. Due aspetti moderni, che però, qui, hanno il sapore dello sfruttamento, dell’abbandono, del sorgere di una resistenza brigantesca che presto diverrà mafia, per poi finire ad essere quella più potente al mondo: la ‘ndrangheta.

50 miliardi di euro è il fatturato annuo della ‘ndrangheta. 5 i continenti in cui opera. Com’è possibile che una regione così povera, ultima tra le ultime d’Italia, contraddistinta da una massiccia emigrazione forzata e fino all’altro ieri carente pure di acqua corrente, abbia generato un mostro dalla portata globale che genera più introiti di uno Stato nazionale?

Ho provato, mentre scrivevo la bozza di quest’articolo, a raccontare la storia della Calabria, la nascita della ‘ndrangheta, consapevole che non si può raccontare questa regione prescindendo da ciò, dalla genesi dei soprusi e dalla reazione di quella parte di popolo che ha così risposto allo sfruttamento legittimo e legalizzato, per poi diventare una costola del capitalismo, la sua gemella deviata. Poi però mi son reso conto che spendere fiumi di parole per raccontare tutto ciò non dà l’idea di quello che la Calabria è.

Il calabrese cosmopolita

E così mi son detto: la racconto a modo mio, con gli occhi di un visitatore occasionale ma frequente, di chi la vive per poco, ma non da turista, bensì in punta di piedi, senza caciara e rumore, con la voglia di conoscerla senza invaderla, di interagire con chi ci abita senza giudicare, senza cadere in facili generalizzazioni. Operazione difficile e non priva di parzialità o, peggio, banalizzazione.

Due sono i motivi che mi hanno spinto a conoscere meglio la Calabria: l’esperienza di Riace e la tarantella. Facciamo però un passo indietro, ai tempi dell’università, quando conobbi un numero elevatissimo di calabresi, studenti universitari fuori sede, come me, tutte persone amichevoli, capaci, con cui ho condiviso gli anni dell’università. Una cosa attirò subito la mia attenzione da ventenne: i siciliani erano soliti frequentarsi a vicenda; erano sì aperti a conoscere nuove persone, ma generalmente facevano capannello tra di loro. In misura minore i sardi, ma pure loro tendevano a polarizzarsi.

I calabresi no. Li vedevo come una comunità cosmopolita, curiosa di interagire, mischiarsi, mettersi in discussione, contaminarsi con altre esperienze, altri modi di vedere le cose, altre abitudini. Questa loro propensione li ha portati, storicamente, ad entrare con naturalezza nei tessuti socio-economici dei posti in cui sono andati a vivere. E non è un dettaglio insignificante, nel bene (l’integrazione) e nel male (la capillarizzazione del cancro mafioso).

I bambini

Se frequenti il mondo della musica popolare, la cosa che più ti colpisce quando vai in Calabria è che i bambini sono maestri nel suonare l’organetto e il tamburello. Sono tanti, più degli adulti e son bravi. Sono i portatori sani di una tradizione musicale che in Calabria – più che nel resto del Sud – s’è mantenuta vivida e verace lungo questi decenni di mercificazione culturale, invece ben visibile nella vicina Puglia.

Non oso dire autentica, in quanto è un termine ambiguo e scorretto, ma sicuramente radicata nel tessuto popolare, come espressione di un’eredità collettiva che cammina lungo i binari familiari e sociali, senza intermediazioni dall’alto, dal mercato.

E’ vero, ci sono i festival, come quello di Caulonia, che si sono innestati a mo’ di scimmiottamento della Notte della Taranta, e anche come tentativo di sprovincializzare la tarantella e globalizzarne i contenuti, ma non hanno avuto lo stesso ruolo livellatore e impoveritore che ha avuto la Notte della Taranta nella tradizione musicale salentina (e pugliese più in generale).

Ma c’è un altro aspetto che noti quando interagisci con i bambini o i ragazzini che, nelle feste locali, suonano la tarantella. Ti paiono piccoli adulti. Nei loro occhi scorgi tracce di maturità, con velature di crudezza, come segni tangibili dell’esser dovuti crescere per forza troppo in fretta, quasi fossero già consapevoli d’aver perso pezzi di innocenza e spensieratezza. Ti parlano a bassa voce, con frasi brevi che spesso paiono massime di sentenze, con riverenza e distacco, le stesse qualità che ritrovi negli anziani, seduti al bar, sempre disposti ad intrattenersi con i forestieri, ma sempre ligi nel voler sapere con chi hanno a che fare.

L’accoglienza

statua di Scilla, Calabria
statua di Scilla, Calabria

E’ un mondo strano la Calabria. Sospesa tra antichi canoni d’ospitalità e diffidenza, tra il darti il cuore e il farti domande personali, così, nel bel mezzo di un discorso su come si cucina la ‘nduja o come si stagionano i formaggi che, per inciso, sono per me tra i più buoni in Italia, superiori persino ai gettonati formaggi piemontesi, veneti o altoatesini.

L’accoglienza ce l’hanno nel sangue, racchiusa in un DNA scritto da millenni di storia d’un territorio crocevia di insediamenti e traffici commerciali, sin dal paleolitico, testimoniato da un museo archeologico che è un fiore all’occhiello e di cui parlerò tra poco.

Il calabrese medio, orgoglioso della sua terra, è quello che magari lascia il lavoro per portarti in giro, farti scoprire le chicche della sua zona, ti porta a pranzo dove si mangia bene e si spende poco e magari te lo offre anche, il pranzo. Ti ospita a casa sua e si offende se non porti via un pezzo di formaggio, un po’ di vino o di olio o la ‘nduja fatta dal papà, che è così buona, così te la mangi quando torni a casa.

E’ anche probabile, come è accaduto a me, che girando per un paesino e sentendo odore di mosto, ti soffermi davanti ad un uscio. Ne esce il proprietario di casa e inizi a chiacchierare. Dopo pochi minuti sei ospite a casa sua, perché deve farti assaggiare quel vino così buono come mai è uscito e, dopo qualche ora, te ne esci con un paio di bottiglie regalate e ti tocca scappare via, sennò rischi che ti trattenga pure per cena e non puoi più concludere il giro del borgo.

L’onestà

Il castello di Ardore Superiore
Il castello di Ardore Superiore

Se vai in qualsiasi mercato settimanale ti accorgi subito di una cosa: il calabrese non cerca di fotterti. Non hai a che fare con lo stereotipo napoletano, che al posto del formaggio ti mette in busta il mattone. Oppure con il modello del commerciante furbo, che bara sulla tara, manomette la bilancia o gioca sui prezzi. No, semmai tu vuoi comprare un formaggio, lo indichi col dito e lui ti consiglia quell’altro, che magari costa di più, ma poi te lo fa allo stesso prezzo di quello che volevi. Perché devi rimanere contento.

Nel contrattare spesso vinci tu, specie se vieni da un posto dove la contrattazione fatta di fiumi di parole è uno spiccato elemento consuetudinario, mentre in Calabria le parole son poche, nette e lapidarie e dinanzi alla simpatica e loquace contrattazione, ci guadagni un pezzo di salame in regalo o un notevole sconto sul totale.

E’ quest’innata dote all’onestà, all’integrità, al non fregare l’altro che ha contraddistinto anche il lato oscuro della Calabria. Gli ‘ngranghetisti che si occupano di smerciare la coca dei narcotrafficanti sudamericani, sono i preferiti di quest’ultimi: pagano tutto e subito, son di poche parole e affidabilissimi.

C’è un fatto che lo dimostra. Di solito un mafioso che fa affari con i cartelli della coca sudamericani, per concludere l’affare, deve lasciare presso di loro un garante. E’ una regola ferrea. Se l’affare va a buon fine, il garante viene rilasciato. Se va male, è intuibile quello che gli accade. I calabresi no. Loro sono esentati da questa regola. E riescono persino a spuntare il miglior prezzo sul mercato. Sono tanti quelli che fanno affari con i cartelli della droga, ma solo i calabresi hanno condizioni favorevoli, tanto che alla lunga i gruppi criminali comprano la droga da loro e non più direttamente dai cartelli. Ci risparmiano persino.

La tranquillità, in epoca di pax mafiosa

Una stalla di asinelli a Riace
Una stalla di asinelli a Riace

C’è una cosa che ho imparato, anche grazie ai discorsi con i tanti amici calabresi incontrati negli anni. In Calabria non ti succederà mai nulla. Puoi girare ricolmo d’oro e nessun guappo ti rapinerà. Puoi lasciare la macchina aperta, con le chiavi dentro, mentre stai al bar a fare colazione e nessuno si permetterà di rubarla. Mentre giri per la locride, hai come la sensazione di essere immerso in una quiete innaturale, quasi fittizia, ma reale, tangibile. E’ un mix tra la reazione della parte sana del popolo calabrese, che cerca tranquillità, e le regole di pax mafiosa che governano questa fase storica.

La Calabria sa cosa vogliono dire le stragi. Le ha vissute sulla sua pelle e ne porta i segni tangibili. Sa che significa vivere nel terrore e in uno stato di guerra. Non è passato molto tempo dalla cosiddetta prima guerra di ‘ndrangheta, tra la metà e la fine degli anni Settanta, con più di 200 morti. Meno tempo ancora è passato dalla seconda guerra di ‘ndrangheta, un decennio dopo, che ha lasciato sul campo più di 800 morti. Fu una guerra tra ‘ndrine, per il controllo del territorio, del traffico di droga, degli appalti pubblici e di tanti altri affari, piccoli e grandi.

Oggi, dopo l’omicidio Fortugno e la strage di Duisburg, pare che le cose si siano calmate. Le ‘ndrine hanno capito che per fare affari bisogna tenere i riflettori spenti, che si deve parlare il meno possibile di mafia e che in Calabria la microcriminalità non dev’esserci, perché sennò lo Stato ci ficca il naso, più di quanto faccia già ora con i numerosissimi posti di blocco della polizia e i paesini quotidianamente presidiati.

Ma la tranquillità in Calabria non è solo dovuta alle ‘ndrine. Quella parte sana, che orgogliosamente resiste e non è andata via, reagisce così, con lo stile calabrese: a voce bassa, senza urla né proclami, lavora tutti i giorni perché la Calabria torni ad essere un posto vivibile. E provare a fare ciò, magari aprendo un’attività, puntando sul turismo o sulla valorizzazione dei prodotti tipici, in un clima di controllo e gestione alternativa allo Stato, non è cosa facile. Un calabrese che a casa sua prova a resistere allo strapotere delle ‘ndrine, aprendo un piccolo negozio, in un posto come Oslo sarebbe diventato in breve tempo una multinazionale.

Lo sviluppo mancato

Crotone, castello Carlo V
Crotone, castello Carlo V

Per aprire un’attività, specie nelle zone di maggior influenza delle ‘ndrine, non occorre solo presentare la SCIA al Comune, bisogna prima chiedere il permesso al capobastone. E’ notizia arcinota il fatto che molte attività commerciali siano in mano alle cosche mafiose. Non è il libero mercato a determinare l’opportunità di intraprendere un’attività economica, ma la volontà del mafioso di turno e le sue ragioni di opportunità.

Eppure c’è chi ostinatamente ci prova lo stesso. Ci sono anche quegli incoscienti che si iscrivono a Libera e denunciano le attività di caporalato a Rosarno, che lì, in quella zona, rasentano lo schiavismo. Ci sono persino quegli altri incoscienti, come Mimmo Lucano, che con le attività di integrazione dei migranti, sono stati capaci di riaprire servizi essenziali, come una scuola elementare, l’asilo nido, oltre a diverse attività economiche in un paese che, fino a qualche anno prima, rischiava di scomparire. E a tenere lontane le ‘ndrine. Mica bruscoletti.

Se giri per i comuni che hanno aderito, negli anni, al modello Riace, vedi ragazzi africani che puliscono le strade, raccolgono l’immondizia, curano i campi, i bestiami, imparano a fare i formaggi, i salami, insomma, in una sola parola, si integrano e lavorano. E contribuiscono allo sviluppo del territorio, quello vero, tangibile, reale, alternativo allo sviluppo a proclami promesso da uno Stato finora assente e soggiogato anch’esso nei suoi piani più alti.

Ma questi modelli vincenti di integrazione e sviluppo del territorio si rifrangono contro le inchieste, talvolta strumentali, e l’azione politica nazionale che ha chiuso i rubinetti dei progetti SPRAR e mandato letteralmente per strada persone che stavano intraprendendo il lento processo di integrazione e sviluppo in un contesto in cui le mafie si trovavano in difficoltà. Oggi ringraziano.

Hanno ringraziato per anni, quando, per esempio, grazie al loro contributo la Salerno-Reggio Calabria è stata costruita al ritmo di 1 km all’anno, con un costo di quasi 23 milioni di euro a km, e ci ha messo 40 anni per essere non ultimata, ma quantomeno percorribile.

Poi ci si chiede perché non si può fare il ponte sullo stretto di Messina, che dista solo 3 km dalla Calabria, quando, in giro per il mondo, di ponti così ne fanno a bizzeffe e molto più lunghi. Non è solo una questione ambientale. Certo che no. Il sistema dei traghetti deturpa molto di più l’ambiente e costa, tanto. Si sa che affidando un appalto del genere, le cosche faranno festa e l’incolumità pubblica sarà certo compromessa. Eppoi oggi non è più come una volta, un appalto del genere, di rilevanza europea, non si può più gestire in casa. Anche questo è mancato sviluppo. Non di una regione, ma dell’intera Europa.

Le case mai finite

Stilo, laura della divina pastorella, cappella scavata nella roccia della montagna
Stilo, laura della divina pastorella, cappella scavata nella roccia della montagna

La SS 106 jonica è una lunga arteria, che collega Taranto a Reggio Calabria. Parallela alla SA-RC, passa importanti centri, come Crotone, Catanzaro, Soverato, oltre che i più importanti centri della locride. Percorrerla tutta, per arrivare a Reggio, è un’impresa che richiede pazienza e tanto tempo a disposizione. Una volta l’ho fatta, e spesso mi stupivo della presenza di tante case in costruzione, allo stato grezzo, che parevano abbandonate. Eppure molte di quelle non lo sono. Sono volutamente lasciate in questo stato, mentre all’interno sono ben arredate, alcune persino con arredi di lusso.

Mi è capitato una volta. Prenotai un b&b verso Antonimina, ad un buon prezzo. Giunto sul posto notai un palazzone allo stato rustico. Dentro c’erano ancora le scale in cemento e il passamano era fatto con tubi in ferro e assi di legno. Pareva abitata tutta. Cosa che mi fu confermata dal gestore del b&b, collocato al terzo piano. Il piano terra era abitato dai genitori, il primo da lui e dalla compagna e il secondo dal fratello, la moglie e due figli.

Entrato nel b&b mi stupii della cura con cui era stato arredato. Era tutto nuovo, perfetto, con rifiniture in lusso, una cucina super attrezzata, un bagno grande con vasca idromassaggio e un televisore che pareva lo schermo di un cinema.

Ora, lungi dalle disponibilità economiche e le attività svolte da chi abita in queste case, il fatto di lasciare la casa rustica è un aspetto comune a molti, che richiama sempre quella cultura del basso profilo che in Calabria ricorre spesso, in molti aspetti del vissuto individuale e collettivo.

La Cultura in Calabria

Stignano, busto di Tommaso Campanella
Stignano, busto di Tommaso Campanella

Un aspetto che passa spesso inosservato è l’enorme mole di elementi culturali che caratterizzano la Calabria. Non solo i borghi autentici, che qui ce ne sono a josa. Penso a Pizzo, Stilo, Ardore superiore, Siderno superiore, Gerace, Bova, Riace, Cirò e tantissimi altri. Elencarli tutti è impossibile, non fosse altro che ogni paese superiore è un borgo autentico, come anche le città. Penso a Lamezia, con il suo castello svevo-normanno o a Crotone, con il castello Carlo V. Non solo i personaggi celebri, come il filosofo Tommaso Campanella, l’idealista della città utopica, o Telesio, Pitagora, lo scrittore Corrado Alvaro e tanti altri (sono troppi).

Non solo i monasteri, le abbazie, le badie, le cappelle scavate nella roccia, come la laura della divina pastorella di Stilo, che qua ce ne stanno a buttare. Ci sono sparsi, in tutta la Calabria, numerosi siti archeologici che testimoniano la centralità della Calabria nella Magna Grecia, penso agli scavi di Locri e Sibari, ma anche a Monasterace marina, Capo colonna, ecc. Sono 11 gli scavi e i parchi archeologici presenti in Calabria.

Quasi non ti aspetti, in una regione così povera, di trovarti invece un museo che, quanto ad organizzazione e accoglienza, se la gioca con i più famosi musei inglesi o americani. Il museo archeologico di Reggio Calabria è una chicca. Ospita, come tutti sanno, i bronzi di Riace, ma anche un percorso logico, pulito, lineare e avvincente, a ritroso, lungo tutta la Magna Grecia, per finire alle origini dei primi insediamenti in zona. E così, facendosi ammaliare dalla quantità e qualità dei reperti esposti nel museo, se ne esce con l’idea che forse sì, forse la Calabria non è solo mare, bergamotti e coppole, come descritto nel corto di Muccino.

Il museo archeologico di Reggio Calabria
Il museo archeologico di Reggio Calabria

Bova

La locomotiva di Bova
La locomotiva di Bova

Poi c’è un’altra chicca, una di quelle che non ti aspetti proprio di trovare. Bova è un paesino di 422 abitanti, a due passi da Reggio. Arrivarci è piacevole ma ostico, con una strada piena di curve e tornanti talmente stretta che fatichi a passarci quando c’hai un camion di fronte. Appena arrivi trovi in piazza, oltre al locale dove preparano le gustose lestopitte, una locomotiva. Che ci fa una locomotiva in un paese dove non passa nemmeno la ferrovia? Quella, al massimo, passa da Bova marina, 915 metri più giù. La volle l’ex sindaco di Bova, Pasquale Foti, come simbolo dell’emigrazione massiccia, che ha flagellato Bova, come tutta la Calabria, portando il paese dai duemila e rotti abitanti del 1951 ai poco più di 400 di oggi.

Alla fine del cammino

Scrivere sulla Calabria è difficile. Ci ho provato, con la sensazione di aver forse raccontato una verità parziale, ovviamente soggettiva, ma incompleta e incapace di trasmettere quelle emozioni che provo ogni volta che ci torno. E’ compito arduo e ingrato raccontare le emozioni, specie quando sono così fumose e contrastanti che ti rendono incapace di trasmetterle con le parole. Però ci tengo ad invitare i miei amati quattro lettori a visitarla la Calabria, in punta di piedi e con la voglia di scoprirla con i propri occhi. Non c’è modo migliore di conoscerla e contribuire a restituirle la dignità che merita e che le è stata tolta dal malaffare, legalizzato e non.

2 commenti su “Calabria terra mia… secondo me”

  1. Vado in Calabria tutti gli anni (sono trentina) e mi ritrovo troppo nelle tue parole. Vado spesso a Pizzo ma giro tutta la regione e credo sia una delle regioni più belle d’Italia

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